Ai fini dell’accertamento tributario, l’agenzia delle entrate può rettificare il bilancio della società di capitali, contestando i criteri di classificazione adottati, senza dover contestare previamente la falsità del documento contabile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione nella sentenza 21106, depositata ieri, 24 agosto 2018, rinviando la causa ad altra sezione della Ctr della Lombardia.
Il maggior reddito accertato dall’ufficio si basava sul presupposto che la società dovesse considerarsi non operativa ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724/1994. Il mancato superamento del test di operatività scaturiva dalla riclassificazione, operata dell’ufficio, tra le immobilizzazioni materiali dell’unico bene immobile posseduto dalla società, che essa aveva invece inserito nell’attivo circolante in conformità al proprio oggetto sociale, che contempla l’acquisto, la vendita, la permuta e la valorizzazione di immobili. Respingendo l’appello dell’ufficio avverso la sentenza di primo grado, la Ctr lombarda aveva sostenuto che, poiché il bilancio di una società di capitali fa fede fino a querela di falso, per riclassificare l’immobile ai fini dell’accertamento tributario, l’ufficio avrebbe prima dovuto promuovere l’azione penale volta ad accertare la falsità della rappresentazione del documento contabile. La tesi è stata però sconfessata dal giudice di legittimità. Osserva anzitutto la corte che, come rilevato dall’Agenzia delle entrate, gli amministratori della società, ai quali spetta redigere il bilancio, non rivestono la qualifica di pubblico ufficiale, e tale ragione è sufficiente per escludere che il bilancio sia riconducibile fra gli atti che, ai sensi dell’art. 2700 c.c., fanno piena prova fino a querela di falso.
Inoltre l’art. 2379 c.c. consente a chiunque vi abbia interesse di impugnare la delibera di approvazione del bilancio per ottenerne l’annullamento, chiedendo al giudice di valutare se l’atto sia stato redatto in conformità ai principi di legge, senza necessità di esperire querela di falso o di attendere l’esito di un eventuale procedimento penale a carico degli amministratori.
Sul piano tributario, poi, la possibilità per l’amministrazione finanziaria di rettificare il bilancio, contestando i criteri di redazione, al fine dell’accertamento del debito fiscale o dell’insussistenza del credito vantato dal contribuente, deve ritenersi implicitamente prevista da tutte le norme antielusive che consentono all’ufficio non solo di procedere alle attività ispettive sulle scritture contabili, ma anche, in presenza dei presupposti di legge, di procedere all’accertamento induttivo. Di conseguenza, il giudice tributario investito del ricorso del contribuente contro l’accertamento basato sulla riclassificazione delle voci di bilancio, è tenuto a valutare se tale riclassificazione sia o meno corretta e se sia idonea a supportare la pretesa impositiva. A questi principi, conclude la sentenza, dovrà uniformarsi il giudice tributario in sede di riesame delle questioni.
Roberto Rosati, ItaliaOggi