La storia di Donatella, ingegnere di 29 anni, e il racconto della sua allergia ai pistacchi da quando è nata. «La morte di Chiara dovrebbe far riflettere tutti».
Ho conosciuto il mio migliore amico a soli tre anni, subito dopo aver incontrato il mio peggior nemico. Ero in un bar con tutta la famiglia e il nonno mi teneva in braccio. Io avevo il solito broncio che hanno le figlie minori quando si accorgono di non essere più una novità, mio nonno era ancora giovane, i capelli neri non ancora ingrigiti dal tempo: «Assaggia, a nonno» dice lui e mi mette nella manina un paio di pistacchi. Da buona ingorda, li mando subito giù. Mamma mi racconta sempre che, all’improvviso, divento gonfia come un pallone e rossa, rossissima. La versione nana e abbronzata di Shrek. Ridiamo ogni volta che la mette in questi termini, ma non sono sicura che ridesse ventisei anni fa. Per fortuna, eravamo a cento metri dall’ospedale ed è lì che ho incontrato per la prima volta il mio amico più sincero e fidato, ciò che più si avvicina al compagno di una vita: il Bentelan.
È così che ho scoperto della mia allergia alla frutta secca e non è stato un problema finché non ho cominciato a mangiare fuori con gli amici senza che mia madre minacciasse ogni ristoratore di denuncia in caso mi fosse successo qualcosa. Quando sono diventata grande le cene e gli aperitivi con gli amici sono aumentati, mia madre ovviamente non c’era. Non ho mai lasciato che l’allergia condizionasse la mia vita sociale, anche se molte volte ho avuto questo rimpianto. Il problema vero è che nessuno capisce che basta che i cuochi usino le stesse posate per due piatti diversi o che la superficie di lavoro in cucina sia stata contaminata, che la prospettata bella serata finisce con un’iniezione di cortisone al pronto soccorso più vicino. O con i paramedici nel soggiorno di un qualche conoscente. Questo se sono davvero fortunata e se ho il mio amico Bentelan in borsa che mi fa guadagnare tempo, altrimenti il pronto soccorso non riuscirei a raggiungerlo neanche in apnea. La gola si chiude e prude, la mente si annebbia, respirare è impossibile. È la consapevolezza della corsa contro il tempo e se non vinci, sai bene che quella potrebbe essere la tua ultima competizione.
Per questo quando ho letto di Chiara,la ragazza di Navacchio morta per una reazione allergica, sono rimasta scioccata. Continuiamo a dire ai ristoratori che siamo allergici alla farina raffinata solo perché ci fa mettere due grammi sui fianchi. Continuiamo a parlare di intolleranze e diete «gluten free», continuiamo a considerare gli allergici solo dei rompiscatole che fanno perder tempo ai camerieri quando passano a prendere le ordinazioni, fino a quando una ragazza di 24 anni muore. Ed è colpa di tutti noi, dei camerieri superficiali, dei ristoratori non attenti, di chi non capisce quali sono i rischi a cui siamo sottoposti tutti i giorni noi allergici. Ma questa leggerezza, se proprio devo accettarla dalla società (e nemmeno tanto di buon grado), non la si può accettare dal mondo della ristorazione. Posso dire con consapevolezza di rischiare tutti i giorni: se faccio colazione fuori, se mangio alla mensa aziendale, se viaggio in Italia e all’estero, se vado al ristorante o dal kebabbaro. In tutti questi anni me ne sono successe di tutti i colori.
Ristorante nel centro di Torino, recensioni ottime, prezzi medio alti. Chiedo un antipasto misto da condividere con il mio ragazzo, sottolineo più volte di non mettere la salsa al pistacchio, spiego il problema: «Mi raccomando, fate attenzione alla contaminazione». Il mio ragazzo sorride e ripete con il labiale le mie parole, le conosce a memoria, si assicura che io spieghi bene tutto appena arrivata in qualsiasi ristorante. Quando il cameriere torna, ci porta l’antipasto e vedo il pesto di pistacchio adagiato su un tomino. Nello stesso piatto. «Questo non lo mangi, è allergica» mi dice pure. Troppo complicato ribadire il concetto della contaminazione, il cuoco si sarà lavato le mani dopo aver preso il tomino e inserito le altre cose nel piatto? Se usava i guanti, li avrà cambiati? Ci rinuncio, non tocco cibo, resto paralizzata dalla paura, non voglio fare una scenata al cameriere (noi allergici spesso ci sentiamo in colpa del disagio che creiamo in cucina o ai commensali). Il conto però lo paghiamo tutto. Usciti dal ristorante, il mio ragazzo mi dice pure che nonostante tutto la cena gli è piaciuta, ci tornerà a mangiare con la sua famiglia. E allora penso tra me e me che se non sono riuscita a sensibilizzare appieno lui, figurarsi gli altri. Continuo a vivere così, spostando il mio amico Bentelan di borsa in borsa e sentendo come un mantra le idiozie della gente quando e se parlo della mia allergia: «Anche io sono intollerante». Oppure: «Sai che anche a me mi si gonfia la pancia se bevo il latte?» «Poverina! Non sai che ti perdi, i pistacchi hanno un sapore buonissimo».
Può essere, per me sanno di morte.
Donatella De Cesare,
Repubblica.it