Leggibili, chiare e veritiere. Così dovrebbero essere le etichette dei prodotti alimentari in tutti i Paesi dell’Unione europea. Un’indagine condotta dal Beuc – l’organizzazione dei consumatori europei – ha però messo in luce come le cose non stiano esattamente così. “Il lavoro delle associazioni che fanno parte della nostra organizzazione – si legge nel report – ha permesso di scoprire come in tutta l’Europa siamo molto diffusi diversi trucchi per l’etichettatura dei prodotti”.
Il risultato? Approfittando delle “zone grigie” lasciate dalle leggi e dai regolamenti, non è infrequente trovare sugli scaffali dei supermercati di tutta l’Unione europea prodotti senza alcun merito o pregio particolari presentati invece come alimenti “di qualità superiore” o “più sani” di quanto non siano in realtà. In particolare il Beuc si è concentrato su tre tipologie di etichette ingannevoli che sono anche le più diffuse: quella che presenta i prodotti come di qualità in quanto “artigianali” o “tradizionali”, quella che descrive un prodotto come ricco di frutta, e quella che pubblicizza alimenti come ricchi di grani di tipo diverso.
L’artigianalità che non c’è. Una delle categorie più diffuse di etichette ingannevoli riguarda i cibi che vengono presentati come “tradizionali”, “naturali” o “artigianali”. Peccato però – scrive il Beuc – che leggendo con attenzione la composizione si scopra che sono prodotti industriali e che contengono ingredienti che con la caratteristica di “naturale” c’entrano ben poco. Si tratta, infatti, di una dicitura che è diventata molto di moda soprattutto negli ultimi anni visto che, scrive l’organizzazione, “i consumatori più che mai vogliono capire come sono stati prodotti gli alimenti di acquistano”. Un interesse che ha spinto diverse aziende a calcare la mano su diciture come “fatto a mano” o “artigianale”, associate a immagini che evocano nel consumatore un modo di produzione “diverso dai processi industriali automatizzati” e più vicino all’idea romantica della nonna che impasta il pane in casa. Tuttavia, denuncia il Beuc, nella maggior parte dei casi dietro a tutto ciò ci sono solo “campagne di marketing ideate a tavolino per rendere più attraenti prodotti” che in realtà “contengono coloranti e additivi industriali” e che per questa ragione “non possono essere considerati artigianali e quindi nemmeno etichettati come tali”. Tuttavia, la maggior parte dei Paesi Ue non ha ancora regole specifiche per l’uso di termini come “artigianale”, alimentando così una zona grigia fatta di tanta forma e poca sostanza.
La frutta non è quella che si vede. Mangiare molta frutta e verdura, lo sappiamo, fa bene alla salute. Negli ultimi anni però il tema dell’alimentazione sana è diventato una vera moda, capace di condizionare gusti e abitudini alimentari. Pubblicizzare un prodotto con l’immagine di un bel frutto e dei suoi benefici per l’organismo può significare quindi un incremento delle vendite che ha spinto molti brand a sfruttare questo messaggio anche per prodotti che hanno decisamente poco in comune con l’immagine riprodotta sull’etichetta. “Spesso infatti – scrive il Beuc – i frutti in questione si trovano solo in proporzioni minime o mescolati ad altri ingredienti meno sani. Mentre invece i claim e le immagini usate portano i consumatori a pensare che così facendo stanno aumentando il loro consumo di vitamine e migliorando la propria dieta”. A rendere ancora più difficile orientarsi contribuisce il fatto che, nonostante la legislazione Ue stabilisca un contenuto minimo di frutta, le regole variano da prodotto a prodotto e il consumatore non sempre sa con chiarezza se si trova in presenza di un succo, di un nettare o di un altro tipo di bevanda che prevede limiti meno stringenti per quando riguarda il contenuto di frutta. Con il rischio di pagare come un prodotto di qualità qualcosa che in realtà non lo è.
100% integrale solo nel nome. Una delle mode alimentari più diffuse degli ultimi anni è quella dei prodotti integrali. Sugli scaffali dei supermercati sono infatti aumentate le confezioni di pane, pasta, biscotti, cereali che vengono pubblicizzati come ricchi di fibre e di altri elementi salutari che li rendono quindi agli occhi dei consumatori migliori rispetto agli omologhi prodotti con farine tradizionali. Peccato però che la maggior parte dei prodotti etichettati come integrali lo siano in realtà solo in piccolissima parte. Per scoprire la verità è però necessario leggere con attenzione la lista degli ingredienti. Se infatti in alcuni Paesi come Italia, Spagna e Olanda, esistono norme che prevedono che il pane definito “integrale” debba contenere davvero il 100% di farina integrale, in altri le cose funzionano diversamente e comunque rimangono ancora molti vuoti legislativi per claim come “ricco di cereali” che – avverte il Beuc – non sono regolati da alcuna legge a livello europeo.
Silvia Pasqualotto, Repubblica.it