Tra il 2009 e il 2016 sono fallite oltre 100.000 imprese. Una perdita di capitale, professionale e umano, impressionante. C’è chi, però, impegnandosi oltre i propri limiti, anche a costo di rimetterci economicamente, e trovando gli aiuti finanziari, è riuscito ad andare oltre la crisi, risollevando le sorti di aziende sull’orlo del fallimento. Negli ultimi 30 anni sono state oltre 370 le imprese salvate dai lavoratori. Storie di successo, rese possibili dalla legge Marcora che permette ai dipendenti di recuperare le aziende in fallimento.
La legge Marcora
La legge è stata varata nel 1985 con l’obiettivo di promuovere la costituzione di cooperative da parte di lavoratori licenziati o provenienti da aziende in crisi. Le operazioni di workers buyout – questo il termine tecnico per indicare la procedura di acquisto dell’azienda realizzata dai dipendenti dell’impresa stessa – vengono finanziate in parte dagli stessi lavoratori tramite l’indennità di mobilità e in parte con fondi speciali. Tra questi il Cfi, investitore istituzionale specializzato in questo tipo di operazioni, i fondi mutualistici (Coopfond, Fondosviluppo e General Fond) e alcuni istituti bancari, come Banca Etica.
La società Cfi è tra quelle che hanno contribuito in misura maggiore al salvataggio delle imprese, investendo complessivamente 214 milioni di euro.
“Il nostro compito non è solo quello di finanziare le imprese, ma anche di accompagnare i lavoratori nel delicato processo di gestione dell’azienda”, spiega Alessandro Viola, responsabile Istruttoria e Sviluppo di CFI. “Può capitare che siano gli operai stessi a prendere le redini dell’azienda. Alcuni operai, con carisma e voglia di fare, in poco tempo sono riusciti infatti a padroneggiare argomenti economico-aziendali e sono diventati presidenti molto efficaci sotto il profilo strettamente commerciale. In certi casi, invece, si è inevitabilmente costretti a cercare le competenze di gestione all’esterno dell’azienda”.
A usufruire dei benefici della legge Marcora in gran parte sono le piccole e medie imprese, che costituiscono il 95% del tessuto economico-produttivo italiano (di queste il 99% sono micro-imprese con meno di 10 dipendenti).
La mappa delle imprese salvate in Italia
Stando ai dati rilevati da Euricse, il numero di imprese salvate dai lavoratori è aumentato di pari passo con l’incremento della disoccupazione e la contrazione del settore manifatturiero. I casi di salvataggio sembrano verificarsi più spesso nelle regioni che hanno alle spalle una lunga tradizione di cooperativismo e una forte presenza manifatturiera, come il Centro (46%) e il Nord Est (29,8%); seguono il Nord Ovest (12,7%), il Sud (8,3%) e le Isole (3,2%). In particolare, la Toscana è la regione che presenta la più alta concentrazione di imprese salvate dai lavoratori (22,2%), seguita da Emilia-Romagna (15,1%), Marche (9,5%), Veneto (7,9%) e Lombardia (7,1%). Le imprese salvate hanno un tasso medio di sopravvivenza pari a 13 anni; la vita media di un’azienda italiana è di poco superiore (13,5 anni).
Le storie di successo
Tra le aziende più longeve salvate dai lavoratori, la Ipt (Industria Plastica Toscana) nata nel 1994 dalle ceneri di un colosso europeo del polietilene: la International Plastics Italiana. Acquisita dalla Mobil Chemical negli anni ’60, l’azienda nel periodo di massimo splendore dava lavoro a circa 500 persone.
“I primi cenni della crisi sono iniziati nel 1994”, racconta il presidente dell’azienda toscana Graziano Chini. “Quando abbiamo iniziato la procedura di salvataggio – spiega Chini – ci siamo trovati di fronte una situazione drammatica: macchinari arrugginiti coperti da grandi teli neri e tecnologie obsolete. Non c’era più neanche la corrente elettrica. Al tempo avevamo un’unica certezza: un debito di 5 miliardi di lire. Grazie alla legge Marcora siamo riusciti gradualmente a ripartire, ma i finanziamenti sono arrivati nel 1999. Prima, ci sono stati 5 anni di crisi e delirio totale. Noi eravamo molto motivati a ripartire. Trovarsi senza lavoro è terribile”.
La Ipt riesce a rimettersi in moto grazie alla volontà dei propri lavoratori, disposti a rinunciare anche allo stipendio nei momenti di più grave disagio. L’azienda, che prima della crisi aveva un centinaio di dipendenti, oggi ne ha 76, lavora con gran parte della Gdo italiana – da Coop a Esselunga a Simply – e ha un fatturato che supera i 30 milioni di euro.
“Dal 2011 a oggi – precisa Chini – abbiamo conseguito sempre utili. La soddisfazione più grande è quella di essere riusciti a distribuire benefici alle famiglie del territorio, recuperando un know-how importante che rischiava di disperdersi”.
Un’altra storia a lieto fine è quella della Cooperativa Lavoratori Zanardi, un’azienda editoriale nata negli anni ’60. La crisi economica recente, unita a quella più generale dell’industria del libro, ha decretato il declino del Gruppo che ha visto la sua fine nel 2014, con la tragica scomparsa di uno dei due titolari, Giorgio Zanardi, che si è tolto la vita impiccandosi in azienda. Uno dei suicidi emblematici della crisi economica.
“Prima della trasformazione in cooperativa e del salvataggio l’azienda aveva circa 100 addetti, mentre oggi siamo 42”, spiega il presidente della Zanardi Mario Grilli. “Nessuno dei gruppi bancari più grandi e importanti d’Italia ci ha concesso finanziamenti all’inizio. Anzi, le banche tradizionali non ci hanno neanche risposto. Con la legge Marcora, invece, siamo riusciti a ripartire. Il capitale sociale è formato dall’indennità di mobilità dei soci fondatori e dai prestiti di CfiI, Coopfond e Veneto Sviluppo, che complessivamente hanno erogato finanziamenti per 700.000 euro”.
Oggi la Zanardi è in attivo e fattura 3,6 milioni di euro. Per recuperare terreno, i lavoratori della Zanardi, come quelli di altre imprese salvate, hanno visto diminuire la propria retribuzione, soprattutto nella fase iniziale della procedura.
“Il fatto di dover combattere per il proprio destino dà una marcia in più ai lavoratori”, dichiara Grilli. “Un esempio? Quando eravamo da poco ripartiti con la produzione abbiamo avuto un problema con una pila di libri le cui pagine si erano increspate per l’umidità. Due soci, marito e moglie, sono tornati in azienda la domenica con il ferro da stiro per ripassarli tutti”.
Un caso, questo, emblematico, che ben rappresenta lo spirito di attaccamento verso le aziende di questi lavoratori, pronti a tutto pur di non perdere il proprio lavoro, oltre che la dignità. Lavoratori disposti a mettere in gioco la propria indennità di mobilità e a lavorare anche nei festivi, pur di non disperdere le competenze acquisite e la forza di un gruppo costruito negli anni e abituato a passare i momenti di difficoltà insieme.
“Se non si è coesi – ne è certo il presidente dell’Ipt Graziano Chini – non si va da nessuna parte”
Silvia Scarmuzza, Business Insider