È morta una stella il mese scorso. Scagliata nello spazio il 21 gennaio da una stazione di lancio sulla penisola di Māhia, Nuova Zelanda, la “Humanity Star”, una sfera vuota di materiale riflettente larga un metro e pesante una decina di chili, doveva restare in orbita per circa nove mesi. Si è invece distrutta rientrando nell’atmosfera il 22 marzo.
L’oggetto aveva come unica funzione quella di essere visibile (di notte) a occhio nudo dalla superficie terrestre, cioè, di apparire per l’appunto come una nuova stella. Secondo l’americana Rocket Lab, la società privata che l’ha lanciata, doveva essere un messaggio ecologico, “un simbolo luminoso per ricordare a tutti sulla Terra quanto sia fragile il posto che occupiamo nell’Universo”.
Con ogni probabilità l’azienda non era del tutto indifferente alla possibilità di trarre dal gesto anche un po’ di pubblicità per il suo servizio di lanci commerciali con il nuovo razzo Electron. In questo sono stati assistiti dalla comunità internazionale degli astronomi sdegnati per l’inquinamento visivo che la stella temporanea rappresentava. L’hanno descritta ai giornalisti come “vandalismo del cielo notturno” e “luccicante immondizia spaziale”.
La reazione è forse stata eccessiva. C’è rimasta su, scarsamente visibile, per due mesi e un giorno. La luce riflessa da altri satelliti più grandi – nonché dall’ISS, la Stazione Spaziale Internazionale – è molto maggiore. Ma è stato solo l’inizio della pubblicità celeste, del probabilmente inevitabile lancio di lattine di birra o tubetti di dentifricio, gonfiabili e lunghi chilometri, che roteeranno lenti e silenziosi nella notte sopra di noi insieme con Cassiopea e il Cane Maggiore.
James Hansen, Nota design