L’ex tecnico della Nazionale era un romagnolo quieto molto più complesso di quello che è sempre apparso. Era gentile, ma non rassegnato, c’era in fondo l’antica rabbia del mediano
L’ultima volta che l’ho sentito è stato pochi anni fa per un libro. Vicini conosceva il calcio come pochi, era una delle mie fonti continue. La voce anche allora era quella di sempre, solo appena più lieve. Mi ringraziò e mi avvertì: «Non sono più quello di prima. I miei ricordi vanno e vengono». Feci finta fosse lo slogan di un vecchio signore ma lui insisté. Capii che era dentro il suo dramma. Parlammo a lungo, non sentii un errore, una lentezza.
Ma si era spenta la piccola fiamma che aveva sempre avuto. Vicini era un romagnolo quieto molto più complesso di quello che è sempre apparso. Era gentile, ma non rassegnato, c’era in fondo l’antica rabbia del mediano. È stato forse il commissario tecnico meno fortunato d’Italia. Comandava l’Italia del 1990, quella dei Mondiali in casa, delle notti magiche, di Schillaci e Baggio ancora ragazzo. Giocò 7 partite, ne vinse 6 e ne pareggiò 1, uscì imbattuto ma non bastò. In semifinale trovò l’Argentina di Maradona e Caniggia che ci riprese e ci batté ai rigori. Gli dettero molte colpe, resistette ancora due stagioni, poi arrivò Sacchi.
Vicini non era un genio, ma era tutto il resto. Aveva cultura, competenza, intelligenza e buon senso, amava sperimentare con metodo, cambiare l’idea, non travolgerla. Era stato anni e anni con i giovani dell’Under 21, anche lì aveva perso una finale europea ai rigori, ma aveva costruito squadre. Il suo momento più bello credo sia stato quando sostituì Bearzot in Nazionale. Erano persone sincere e opposte. Bearzot prendeva la vita di petto, Azeglio era un mite con la mosca al naso. Non erano fatti per capirsi. Sognava una rivincita che è venuta nei fatti ma non nei risultati. Bearzot è rimasto lontano. Quando si pensa a un’Italia di giovani, a pagine da voltare, si pensa alla sua Nazionale. Portò tutta la sua under con i grandi, da Donadoni a Zenga, a Mancini, fino a Baggio e Schillaci. Con l’Argentina Zenga prese il gol di Caniggia dopo 518 minuti di imbattibilità. Era una grande squadra, ma non bastarono nemmeno i 9 minuti che l’arbitro Vautrot concesse di recupero. Disse che si era scordato di guardare l’orologio, ma tutti erano lì ad aspettare l’Italia.
Mario Sconcerti, Corriere della Sera