Condanna pesante per il gigante dell’auto: i lavoratori protestavano perché la paga base su cui erano calcolati gli straordinari non comprendeva anche i bonus. Ma la pena è dimezzata rispetto alle richieste dei dipendenti
La Kia sbanda sui diritti dei lavoratori e il brand che con il gruppo Hyundai rappresenta il quinto produttore di automobile al mondo si appresta adesso a mettere un bel segno meno sulla sua trimestrale. Poteva andare peggio: i sindacati chiedevano un rimborso da 890 milioni di dollari e la corte di Seul ha ordinato invece il pagamento di poco meno della metà, 375 milioni. Botta per carità notevolissima, che sarà comunque moltiplicata dai costi di lavoro aggiuntivi imposti dalla sentenza: ma sempre nulla al confronto di quanto la decisione potrà costare all’industria automobilistica coreana.
Dopo Samsung, dunque, Kia e Hyunda. È la sconfitta dei chaebol, i conglomerati a conduzione familiare che hanno trasformato questo paese, che dopo la guerra con il Nord sprofondava giù giù nella classifica dell’economia mondiale dietro alla Repubblica Democratica del Congo, e oggi è invece la quarta Tigre d’Asia e l’undicesima potenza del pianeta. Un salto da giganti compiuto però grazie al doping, diciamo così, istituzionale: prima l’appoggio incondizionato della dittatura di Park Chung-hee, poi le mazzette (come quelle di Samsung) a sua figlia Park Geun-hye, e ai vari governi dell’era comunque democratica. Decenni e decenni in cui i colossi hanno praticamente spadroneggiato: ai danni, a volte, dei loro stessi lavoratori, come la sentenza di Seul dimostra dopo sei anni di battaglia legale. Una pronuncia che rischia adesso di estendersi anche ad altre aziende. I lavoratori sostenevano che nella paga-base che serve poi per calcolare straordinari e altre compensazioni dovevano essere considerati anche i bonus. L’azienda ha cercato di opporsi fino alla fine sostenendo che la sentenza avrebbe danneggiato l’intera economia coreana: come se il loro comportamento non avesse danneggiato già abbastanza i propri lavoratori.
Però nell’analisi una verità c’è. L’aumento dei costi arriva in un momento di particolare crisi per l’industria, e non solo dell’auto, coreana, che paga il boicottaggio cinese per il dispiegamento a sud di Seul del Thaad, lo scudo antimissile Usa che Pechino considera un affronto perché permetterebbe agli americani di spiarli dentro casa. Alcuni analisti arrivano a quantificare fino all’1 per cento dell’intero Pil i costi della vendetta del Dragone: misura plausibilissima se si considera che un’azienda come Kia Motors, per restare nel caso, esporta un terzo dell’intera produzione. È dunque il solito Kim che la fa pagare anche alla Kia?
C’è pure chi ricorda che anche questa sentenza, come quella Samsung, deve in fondo qualcosa alla politica: il nuovo presidente liberal Moon Jae-in ha promesso di riformare il vecchio sistema di chaebol e sta preparando una raffica di provvedimenti. La magistratura, anche questa finalmente più libera, si è già adeguata, come dimostrano le due sentenze-top: ma darete mica la colpa ai giudici se a sbandare per primi sono stati i padroni.
Angelo Aquaro, Repubblica.it