Nodo raccolta: i brand più forti del gruppo sono affidati a terzi
Oath non è un nome facile da pronunciare e nemmeno un termine normalmente nel vocabolario, anche di chi sa un po’ l’inglese. Eppure Verizon lo ha scelto per la società che accorpa Aol e gli asset di Yahoo acquisiti lo scorso mese per 4,48 miliardi di dollari, 3,9 miliardi di euro.
Significa giuramento: «All’inizio siamo rimasti tutti un po’ sorpresi della scelta», racconta Christina Lundari, general manager di Oath Italy, «ma subito abbiamo capito che si tratta di un nome bello e responsabilizzante. È il modo per dire che vogliamo impegnarci a fondo con tutti i nostri interlocutori: i consumatori, gli inserzionisti, gli editori e le agenzie».
Oath, comunque, sarà un house brand che si sentirà poco in giro: per consumatori e partner commerciali varranno sempre i brand più forti del gruppo: Yahoo nelle sue varie declinazioni e i marchi di Aol, tra i quali c’è l’Huffington Post. Semplicemente non era il caso di tenere Aol come marchio ombrello quando la sua forza era minore di quella di Yahoo e alla pari con quella di HuffPost.
Il paradosso per Oath, che è editore di contenuti ma soprattutto advertising company per i propri siti e per quelli di terzi, è che in Italia non vende (per ora) la pubblicità dei due marchi più forti che possiede. Yahoo, infatti, da maggio dello scorso anno ha un accordo esclusivo con Mediamond, la concessionaria di Mediaset e Mondadori, che andrà avanti ancora per due anni. Huffington Post, invece, creato in joint venture con il gruppo Espresso (ora Gedi), è affidato a quest’ultimo anche per la raccolta, curata dalla concessionaria Manzoni.
La situazione italiana della nuova Aol-Yahoo, insomma, è del tutto particolare, ammette Lundari, che non si sbilancia su quale potrebbe essere il futuro dei due accordi. «Il processo di integrazione in molte regioni era già operativo il giorno dopo il closing dell’accordo», dice. «In Italia abbiamo condizioni di partenza diverse e servono valutazioni strategiche. È chiaro che noi abbiamo il desiderio di gestire direttamente le nostre properties ma anche che rispettiamo i contratti esistenti e i tempi».
Di fatto, mentre per Yahoo il passaggio della pubblicità a Oath potrebbe essere solo questione di tempo, essendo la partnership con Gedi più articolata, la situazione dell’HuffPost presenta qualche incognita in più. Un precedente però a livello internazionale c’è: in Brasile l’HuffPost era nato in partnership editoriale e pubblicitaria con il gruppo Abril e Aol ha preso in carico prima la raccolta pubblicitaria a ottobre del 2016 poi anche la parte editoriale a gennaio di quest’anno, segnando l’uscita di Abril dalla joint venture. Ovviamente non è detto che le due componenti debbano per forza avere la stessa sorte, vista anche al forza editoriale del gruppo Espresso in Italia.
Questa è una delle partite che Oath Italy dovrà quindi giocare nei prossimi mesi. Ci sono però altre iniziative che già funzionano. Per esempio la piattaforma con cui Aol permette ai broadcaster di monetizzare i contenuti video: se un editore terzo ha bisogno di video per il proprio sito (tipicamente un editore di giornali che non li produce) può selezionarli dalla piattaforma. La monetizzazione avviene tramite la pubblicità, che sia inserita da Aol, dal broadcaster o dal sito ospitante.
È del tutto italiano, poi, l’accordo di raccolta esclusiva con Vevo, la piattaforma di video musicali di Universal e Sony. La partnership è nata a gennaio (in precedenza era con Yahoo, prima che chiudesse la sede italiana) ed è già molto redditizia, sottolinea Lundari.
Ma sull’Italia sta puntando anche direttamente la controllante Verizon. La società di tlc negli Usa è una potenza sui dati, perché riesce a combinare quelli certificati dei propri clienti della telefonia mobile con quelli derivanti dalla properties digitali, ovvero i vari siti. Questo significa che riesce a profilare gli utenti con una precisione estrema ai fini pubblicitari. In Italia a Verizon mancano i dati dei clienti mobile e per questo sta proponendo alle telco nostrane di acquistarne i dati, offrendo anche gratuitamente la piattaforma con la quale raccoglierli. «È un modo con cui le telco possono monetizzare il loro grande patrimonio di dati», spiega Lundari. «Tutto ovviamente nel rispetto delle normative: si tratta di dati degli utenti che riguardano il sesso, l’età, il luogo in cui si trovano, le app che usano, ma per il resto totalmente anonimi».
Oath vuole arrivare a 2 miliardi di utenti entro il 2020 dagli attuali 1,2 miliardi e a un fatturato compreso fra i 10 e i 20 miliardi di dollari. «L’Italia è uno dei paesi chiave per Oath all’interno dell’area Emea», conclude Lundari. «Prima il nostro business era per l’80% in Usa e per il 20% fuori è quindi a livello internazionale che dobbiamo crescere di più». In attesa di sviluppi futuri, l’organizzazione in Italia per ora resta quella di Aol, dal momento che Yahoo aveva già chiuso la sede italiana in precedenza, mentre a livello internazionale con l’accorpamento ci sono stati oltre 2 mila tagli sui 14 mila dipendenti iniziali.
ItaliaOggi