La decisione del Tar di sospendere gli incarichi ai vertici di alcuni istituti italiani ha alimentato le polemiche. Abbiamo studiato bene le sentenze: ecco alcune cose da sapere prima di correre a esprimere opinioni
Certo:la selezione dei nuovi direttori, italiani e stranieri, alla guida dei più grandi musei del paese, ha portato l’Italia nel mondo. Certo: l’autonomia decisionale data ai nuovi dirigenti sta dando risultati (quasi sempre) molto positivi, sia come pubblico che come proposta di innovazione sul territorio. Certo: la sentenza del Tar che sospende gli incarichi di Taranto, Napoli, Reggio Calabria, Paestum ( salvato, pare, da un difetto di notifica) , Mantova e Modena, è una grave «figuraccia internazionale», come ha detto il ministro Dario Franceschini commentando la novità. Il fatto è che bisognerà capire fino in fondo di chi siano le responsabilità di questa «figuraccia».
Perché leggendo le motivazioni dei giudici, la questione può essere ben più complessa di come è stata posta dalle prime reazioni. Ed è forse troppo semplice liquidare il dibattito in un «abbiamo fatto bene a cambiare i musei, abbiamo fatto male a non cambiare i Tar» , come ha twittato l’ex primo ministro Matteo Renzi. Se è necessario aspettare il Consiglio di Stato (a cui Franceschini ha già detto che presenterà immediatamente ricorso) per avere una risposta definitiva – dal punto di vista legale – sulla questione intanto, alcune cose possono iniziare a chiarirsi.
Innanzitutto: le direzioni coinvolte sono, per ora, quelle contestate in due ricorsi parzialmente accolti dai giudici amministrativi. Il primo è stato presentato da Giovanna Paolozzi Maiorca Strozzi, ora soprintendente a Parma, che aveva partecipato alla selezione per i ruoli in Lombardia e in Emilia; il secondo da Francesco Sirano, attuale direttore del parco di Ercolano, che si era candidato per le altre sedi di cui si parla.
Strozzi ha lasciato detto alla segretaria, oggi, di essere «molto contenta» della decisione. Sirano risponde al cellulare subito, ma con assoluta cautela parla di una «situazione delicata, devo sentire prima i miei avvocati». Fra i ricorsi ce n’era un terzo, che è stato invece respinto, del professore Umberto Pappalardo, il quale rimane convinto, racconta, della propria «contrarietà» alle nomine volute due anni fa da Franceschini quali parti integranti della riforma dei Beni Culturali.
«Non ce l’ho certo col fatto che ci fossero stranieri fra i candidati – l’Europa più di una volta ci ha detto di finirla con i concorsi interni, in Germania o altrove noi italiani competiamo alla pari. Quanto per i profili selezionati. Io sono d’accordo con l’internazionalizzazione, ma come aveva detto Sgarbi, noi l’abbiamo inseguita al ribasso. Dando ruoli dirigenziali di primo piano a figure che non avevano assolutamente il curriculum adatto». E continua: «Giulierini a Napoli sta facendo un bel lavoro, è vero, e forse è più bravo di me che ho più esperienza. Ma che dire: la vita è strana. Anche Evita Peron è diventata presidentessa dell’Argentina».
A prescindere dai profili, e dai giudizi di chi non ha conquistato il posto, la realtà è che il cambiamento in molti casi è reale. L’hanno notato esperti, visitatori, giornali internazionali. I musei stanno macinando visitatori come mai. Alcuni nuovi direttori (non tutti) hanno portato novità e cambiamenti che burocrazie elefantiache e abitudini (sindacali, gestionali, amministrative) avrebbero tenuto fermi per anni. Ora, però, arriva il Tar a scuotere il new deal.
La prima sentenza, quella che riguarda Modena e Mantova, è sicuramente la più discussa. Perché è lì che si far riferimento alla possibilità o meno di far diventare direttori di un grande museo italiano dei “cittadini non italiani”. Il Tar del Lazio ha stabilito che no. E posta così, sembra veramente un regalo alla palude, una picconata al buon senso. Ma dove sta l’inghippo? I giudici amministrativi respingono infatti gran parte delle lagnanze della soprintendente Strozzi, dando ragione alla riforma su molte delle libertà richieste dal ministero per selezionare i nuovi dirigenti senza i polverosi vincoli previsti dalle norme.
Ma sembrano costretti, al Tar, a dar conto di come, nella legge speciale che istituiva la selezione, venivano eliminati sì tanti legacci della macchina ministeriale, ma ci si era dimenticati di una legge, a cui non si estendevano le deroghe. È una legge del 2001 che stabilisce che tutti, stranieri e italiani, possano ambire a qualsiasi posto pubblico in italia, a meno che questo non implichi «l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri», «che attengono alla tutela dell’interesse nazionale». E in questo caso, la tutela c’era (è anche nella nostra costituzione). Di chi è “la colpa” allora? Di chi ha scritto la legge che istituiva il concorso? O di quella norma del 2001 che impone l’autarchia della tutela? O ancora di chi ha fatto ricorso (ma è difficile immaginare un concorso senza ricorsi)? O dei giudici che hanno interpretato l’interesse alla tutela in questi termini?
Il secondo aspetto su cui si fondano in questo caso entrambe le sentenze (quindi anche quella che coinvolge Taranto, Paestum, Napoli e Reggio Calabria) riguarda invece la modalità della selezione. E le motivazioni del Tar, se confermate in secondo grado, rischiano di aprire una catena di vertenze. Perché parlano di una procedura «oscura» nella scelta dei “finalisti”. Di una «magmatica riconduzione» dei punteggi dei 10 candidati che avevano i voti più alti a valutazioni ad “A”, “B” o “C” difficili da interpretare per la selezione della terna che sarebbe andata poi di fronte al ministro o al direttore generale per stabilire il vincitore. Di audizioni a porte chiuse, o via Skype, anziché aperte agli uditori come vorrebbero le regole. Questi gli elementi. Un po’ meno manichei di quello che sembra.
Francesca Sironi, L’Espresso