L’ex manager dell’Atm chiamato a governare l’azienda dei trasporti romana
In un Paese dove chi non si piega a interessi esterni è considerato spigoloso e ingestibile, mentre in chi guarda al cuore dei problemi si sospettano forme di autismo, martedì Bruno Rota ha varcato una nuova soglia. Non quella che fino a poco tempo fa pensava di dover calpestare nel primo giorno di lavoro dopo Pasqua. Martedì è entrato in via Prenestina 45, Roma. Sede dell’Atac, l’azienda dei trasporti della Capitale che dal 2006 non fa che chiudere bilanci in profondo rosso per oltre un miliardo e mezzo di perdite nette cumulate. Graffiti vecchi di anni lungo i muri esterni, e lì davanti le buche nell’asfalto di strada che da tempo alimentano la produttività solo degli ortopedici della Capitale.
La domanda
Rota, 62 anni, aveva riempito la domanda per il posto da direttore generale dell’azienda comunale romana il 10 marzo alle 18, cinque ore prima che scadesse il bando. Gli era appena diventato chiaro che doveva lasciare la guida dell’Atm, la società del trasporto pubblico milanese sulle cui strategie aveva rotto pubblicamente con il sindaco e azionista Giuseppe Sala.
Era certo di poter vincere il posto a Roma, Rota. Non poteva che prevalere la sua storia di manager capace di risanare Atm, di renderla più efficiente per i milanesi, generando allo stesso tempo un tesoro di cassa da 240 milioni. Quello che il manager non aveva previsto, è ciò che ha trovato varcando l’ingresso il primo giorno di lavoro all’Atac martedì scorso. Tre guardie del corpo, nell’atrio, tutte per lui. Non per proteggerlo quando sarebbe andato fuori, in strada: negli spazi aperti di Roma Rota può muoversi in libertà e del resto conosce la capitale da quando negli anni Ottanta lavorò all’Iri sotto Romano Prodi (i due sono ancora molto amici). No, il compito delle guardie del corpo dell’Atac — di per sé vagamente intimidatorio — è coprire le spalle al direttore generale mentre questi incede nei corridoi dell’azienda, entra in ascensore o parla ai dirigenti.
Le forniture
Non è chiaro se quei tre uomini siano armati. È certo però che qualcuno a Roma dev’essere disposto a molto, pur di proteggere lo status quo. Ogni anno l’Atac assegna all’esterno senza alcuna gara d’appalto, né trasparenza, contratti di fornitura di beni e servizi per circa duecento milioni di euro: pulizie, le divise di ordinanza, la vigilanza tutta affidata a un pool di società esterne di cui in città si parla soltanto con misteriosa deferenza. Ce n’è abbastanza perché un capo azienda originario di Domodossola si senta un po’ come il capitano Bellodi, l’ufficiale dei carabinieri del «Giorno della Civetta» di Leonardo Sciascia sbarcato in Sicilia da Parma. Quello a cui il padrino del villaggio spiega che tutti gli altri sono «mezz’uomini, ominicchi e quaquaraquà».
La versione Atac 2017 del romanzo di Sciascia, Rota l’ha sperimentata prima ancora di aprire un proprio indirizzo di posta elettronica aziendale. Qualcuno gli ha consigliato di non utilizzarlo «per i documenti delicati». Non che situazioni del genere intimidiscano uno come Rota. Anche all’Atm di Milano, quando arrivò lui nel 2011, molti contratti di fornitura venivano ancora assegnati senza gare d’appalto e ci fu chi non si fece scrupoli per provare a difendere (fallendo) interessi opachi.
Famiglia umile
Del resto per questo manager laureato alla Bocconi con un aiuto della fondazione Cariplo ai ragazzi meritevoli di famiglie umili, forte di esperienze dall’Alfa Romeo pubblica fino alla sua piccola impresa edile, quello che conta non è mai l’affiliazione politica. Ha iniziato da presidente e direttore generale di Atm prima ancora di conoscere l’allora sindaco del centrosinistra Giuliano Pisapia. È stato chiamato alla Milano-Serravalle dal primo cittadino del centrodestra milanese dell’epoca, Gabriele Albertini. Quel che vale per un gestore di aziende pubbliche di questo tipo sono in primo luogo i numeri. I bilanci parlano molto più sinceramente dei politici e anche all’Atac ci si è subito tuffato dentro. Con costi operativi da oltre un miliardo, l’azienda registra ricavi da biglietti per non più di 240 milioni, mentre tutto il resto sono trasferimenti pubblici e perdite (da ben oltre cento milioni l’anno nell’ultimo triennio). A titolo di confronto, sotto Rota l’Atm di Milano è arrivata a incassare dai biglietti 420 milioni di euro l’anno su 970 milioni di entrate. Uno dei segreti è stata l’installazione dei tornelli in uscita dal metrò: una questione di giustizia, secondo Rota, della quale Atac può beneficiare ancora più di Atm perché la società di Roma può trattenere tutti i ricavi da clientela senza passarli al Comune.
I propositi
Ma questo verrà dopo, gradualmente. Prima appunto bisogna fare luce sui numeri, e non sarà facile. Alla prima presentazione sull’andamento dei conti, a Rota hanno mostrato solo le variazioni sul bilancio preventivo ma non quelle sull’anno precedente. Lui da sempre lavora su quelle degli ultimi cinque anni e presto le esigerà anche a Roma. Del resto è convinto di poter azzerare le perdite entro i prossimi due o tre esercizi, disboscando gli abusi e facendo pagare qualche biglietto in più a chi oggi evade.
Ma non è quello il punto. Anche con questa cura da cavallo, l’Atac resta oppressa da debiti fra 1,2 e 1,3 miliardi di euro e nessuna possibilità di sostenerli. L’azienda, tecnicamente, è vicinissima al fallimento. Solo una netta discontinuità societaria può darle un futuro, anche nella tutela dei posti di lavoro. Questa resta però una scelta della politica. E i Cinque Stelle della sindaca Virginia Raggi, a ben vedere, non sembrano meno conservatori di tutti quelli che li hanno preceduti.
di Federico Fubini, Il Corriere della Sera