La casa automobilistica venderà tutte le azioni Porsche, resterà con l’1%. Suo il merito del salvataggio dalla bancarotta nel 1993 e del successivo progetto di espansione
La Volkswagen sopravviverà all’uscita di scena di Ferdinand Piëch. In fondo, sta dimostrando di avere spalle larghe e notevole resilienza anche sotto i colpi dello scandalo delle emissioni truccate in America. Però, senza colui che la salvò dalla bancarotta nel 1993 e che ne guidò l’espansione, senza il patriarca aggressivo e grande manovratore al vertice degli azionisti di controllo, la Volkswagen entra definitivamente in una nuova era. Dalla leadership più incerta.
Piëch ha deciso di vendere la quasi totalità della sua quota azionaria nella Porsche SE, la società controllata dalle famiglie Porsche e Piëch che a sua volta detiene il 52,2% dei diritti di voto del gruppo Volkswagen. Ne possiede oggi il 14,7% e rimarrà con circa l’uno per cento: per un miliardo di euro, cederà il resto alla Porsche SE stessa. Da quel momento non avrà più ruoli nel gruppo del quale è stato al vertice fino al 2002 e che ha poi continuato a influenzare come membro del consiglio di sorveglianza. Se ne va, alla vigilia degli ottant’anni, perché ha perso la sfida con il resto della famiglia, con i sindacati, con la politica della Bassa Sassonia, tutti coinvolti nella gestione del gruppo di Wolfsburg. E Piëch non ha mai sopportato la sconfitta.
La rottura all’interno del complicato sistema di governance del mondo Volkswagen era arrivata nella primavera 2015, quando il patriarca aveva sfiduciato pubblicamente l’allora amministratore delegato del gruppo, Martin Winterkorn. Nel consiglio di sorveglianza, l’organismo che discute e decide sulle grandi strategie, si trovò però isolato e già allora dovette fare marcia indietro. Quale fosse la ragione dello scontro tra Piëch e Winterkorn, non si è mai saputo. Di recente, però, il primo ha sostenuto che i massimi dirigenti del gruppo sapevano delle questione delle emissioni ben prima di quando lo ammisero pubblicamente, alla fine dell’estate 2015.
La circostanza è stata negata dagli accusati ma c’è chi sospetta che proprio le vicende dello scandalo in America fossero già nella primavera 2015 al cuore del contenzioso tra il patriarca e il top manager, che sull’onda dell’imbroglio fu poi costretto a dimettersi. Fatto sta che le recenti accuse di Piëch hanno portato alla rottura definitiva anche all’interno della famiglia, rottura che ha spinto l’uomo forte dell’industria automobilistica tedesca ad abbandonare.
Piëch è nipote di Ferdinand Porsche, l’ingegnere che negli Anni Trenta disegnò su invito di Hitler l’auto del popolo, la Volkswagen, il famoso Maggiolino. Porsche era un genio dell’ingegneria meccanica. Il nipote seguì la sua strada e via via salì al vertice del settore in Germania e in Europa, dove dagli Anni Novanta fu uno dei maggiori protagonisti, al fianco di Giovanni Agnelli. Ristrutturò completamente l’Audi fino a portarla a competere nella fascia alta del mercato con Mercedes e Bmw. Rafforzò il marchio Vw e guidò una serie di acquisizioni – tra le quali Skoda, Seat, Bentley, Lamborghini – che hanno fatto del gruppo il concorrente della Toyota per il titolo di primo produttore mondiale. Fino all’operazione societaria, molto discussa e contrastata, che portò il controllo della Volkswagen sotto l’ombrello della Porsche.
Oggi esce di scena. Resta il gruppo Volkswagen, che l’anno scorso ha superato Toyota con oltre 10 milioni di auto, ma con problemi: lo scandalo delle emissioni, inefficienze, e una governance probabilmente da rivedere per aumentare il livello di trasparenza. E senza più il patriarca.
Il Corriere della Sera