“La diversità è la nostra forza. Apriremo noi le porte alle persone respinte dagli Usa“. Così il giovane liberale è diventato l’idolo “anti Trump”. Ascesa (e inciampi) di un leader “pop”
“Io e mia moglie Sophie siamo addolorati”, scrive Justin Trudeau nei minuti che seguono l’assalto al Centro culturale islamico del Québec. Il premier del Canada condanna l’attentato e al contempo rinnova con forza il suo “inno alla tolleranza”. “I musulmani canadesi – sottolinea – rappresentano un elemento importante del nostro tessuto nazionale. La tolleranza religiosa è un valore a noi caro. La diversità è la nostra forza”.
“La diversità è la nostra forza”. Proprio con questo stesso slogan, il premier canadese si era opposto poche ore prima ai respingimenti statunitensi. “A tutti coloro che fuggono dalla persecuzione, dal terrore e dalla guerra – aveva twittato lui mentre all’aeroporto JFK di New York scoppiava il caos – voglio dire che il Canada offrirà sempre il suo benvenuto. Non importa quale sia la vostra religione, il vostro credo. La diversità è la nostra forza”. E in nome di quel suo #WelcomeToCanada è diventato per molti “il presidente anti Trump”, il volto del multiculturalismo e dei diritti da opporre alla logica delle barriere.
Dalle parole ai fatti. Poi l’annuncio del governo: “Il Canada offrirà la residenza temporanea a tutti quelli bloccati negli Usa a seguito dell’ordine esecutivo di Trump sull’immigrazione”, come ha comunicato ieri il ministro dell’Immigrazione canadese Ahmed Hussen. Sin dalla campagna elettorale tra le file del partito liberale, e poi al potere dal 4 novembre 2015, Trudeau ha fatto dell’accoglienza ai rifugiati un elemento chiave della sua azione politica. Da quando il liberale si è insediato, nel Paese sono già stati accolti quarantamila rifugiati – negli Usa, invece, quindicimila.
Ma chi è Trudeau? Affascina ancora i suoi elettori? E perché il mondo vede in lui un simbolo “anti Trump“?
La “dinastia” liberale. Justin è figlio di Pierre, volto storico dei liberali canadesi – ne fu il leader dal 1968, per più di sedici anni. Fu anche lui primo ministro, governando il canada a più riprese per oltre quindici anni, per poi ritirarsi dal palco della politica nel 1984. Anche Pierre, come poi Justin, è stato un premier che ha raggiunto grande popolarità a livello internazionale, ma che non ha mancato di riscuotere critiche all’interno del Paese, soprattutto per la sua fervente opposizione all’indipendenza del francofono Québec. Nel 2000, quando Justin ha 29 anni, suo padre muore ed è proprio il commosso discorso funebre del figlio a portarlo per la prima volta al centro delle attenzioni dei canadesi.
Un risultato mai visto. Il debutto vero e proprio nella vita politica risale al 2008; nel giro di un anno è il volto dei liberali per temi come il multiculturalismo e l’immigrazione, temi che sono rimasti tuttora al centro delle sue scelte politiche. Aprile 2013: Trudeau conquista la leadership del partito. Nel giro di due anni riesce a riportarlo al governo e a fargli espugnare il parlamento con un risultato mai visto prima nel Paese: da 36 seggi a 184. Un’ascesa da record, ottenuta al grido di “Cambiamento!”, in un Canada afflitto da recessione e disoccupazione.
Il progressista yogi. Giovane e bello, Trudeau viene presto acclamato come il volto simbolo del progressismo, anche fuori dai confini canadesi. E’ tra le 100 persone più influenti al mondo secondo “Time” e la sua “luna di miele” con l’elettorato dura più a lungo del solito, con due canadesi su tre che dopo un anno al governo ancora gli affidano il loro gradimento. Le sue promesse, per molti, suonano allettanti: dalla riduzione del deficit alla legalizzazione della marijuana, dalla lotta al cambiamento climatico alla difesa dei diritti di gay e transgender. Trudeau è anche un femminista dichiarato, il suo gabinetto è composto per metà di donne ed è il più multiculturale della storia del Canada. Rifugiati, immigrati, musulmani, aborigeni, disabili: “Eccovi un governo che è anche una fotografia del nostro Paese”, promette e mantiene Trudeau. E poi c’è la svolta annunciata in politica estera: pacifismo piuttosto che interventismo, politica della porta aperta.
Le critiche e lo scandalo. Ma neppure il nuovo idolo liberale, fotogenico come pochi, si salva dagli inciampi. Nel corso dei mesi il bilancio del Paese non registra i progressi promessi, anche l’annunciato disimpegno in Iraq e Siria appare confuso. Pure tra i personaggi “pop” c’è chi si rivolta contro il premier “pop”: Jane Fonda, ad esempio, consiglia di “non fidarsi del premier di bell’aspetto”. Il motivo della delusione sua e di altri vip di Hollywood come Leonardo Di Caprio è il via libera del canadese a un oleodotto lungo le Trans Mountains, a dispetto della vocazione ambientalista annunciata dal liberale in campagna elettorale.
E poi, per Trudeau arriva la vera bufera: il premier “scivola” sull’affare della vacanza e viene accusato di conflitto d’interessi dall’opposizione. La vacanza incriminata è quella di Natale, con la famiglia del premier ospitata da Aga Khan, leader spirituale dei musulmani ismailiti, in un’isola privata del miliardario alle Bahamas. Per decenni il governo canadese ha donato milioni di dollari alle organizzazioni filantropiche legate ad Aga Khan, che è stato anche un amico storico del padre di Justin. La “liaison” del premier rischia di appannare un po’ la sua immagine, finora così “social”.
La Repubblica