Roberta Paolini e Matteo Buffolo Venezia Italia, bellezza, turismo. Un’equazione perfetta. Ma il risultato dell’equazione lo stanno trovando solo le grandi catene estere. Il mitico Bauer di Venezia è uno dei pochi Cinque Stelle in Italia in cui gestione e proprietà sono nelle mani dello stesso imprenditore: Francesca Bortolotto Possati. Anche lei però ha dovuto, a febbraio, ristrutturare 110 milioni di debito bancario in default. Mentre in Italia il turismo cresce – da maggio a ottobre il Ciset di Ca’ Foscari stima un +1,8% per gli arrivi di stranieri e un +2% per quelli italiani, con un fatturato atteso al +0,7% – le catene alberghiere nazionali sono sempre meno. E a sedersi al tavolo degli oltre 20 miliardi di fatturato dell’hotellerie, ci sono sempre più stranieri. Nella fascia lusso esistono solo i grandi operatori esteri. Il modello è semplice: l’imprenditore mette i muri, Four Season, Starwood, Mandarin la gestione. D’altronde dice Bernabò Bocca di Federalberghi non si può fare in Italia quello che si è fatto per esempio a Dubai “qui sono partiti da zero e hanno potuto impiantare un sistema ex novo, ovvero gli alberghi con modello investitore immobiliare -investitore gestionale”. L’Italia con i suoi oltre 30mila hotel rappresenta il terzo paese per numero di strutture. Ma il modello fa acqua. E, infatti, sempre lungo i canali della Laguna, ha fatto scalpore la notizia del pignoramento del Danieli: uno dei gioielli che fanno capo all’imprenditore Giuseppe Statuto. Oggetto del contendere il mancato pagamento di alcune rate del mutuo, per una ventina di milioni, con la cifra in gioco che è però altissima: lo storico hotel veneziano, acquistato da Starwood nel 2005 per 242 milioni, ne vale attualmente 160. Il pignoramento, tuttavia, prende a riferimento proprio la cifra pagata quasi 10 anni fa per la compravendita. Il modello di Statuto è un ibrido, in quanto tramite la Statuto Luxury Hotels che controlla la subholding Mdp, detentrice dei muri dei Cinque Stelle, ha sia la proprietà che parte della gestione diretta di alcuni hotel, mentre per altri ha accordi di gestione con le catene internazionali. Statuto possiede, per esempio, il Four Seasons e il Mandarin a Milano, e il San Domenico di Taormina. È invece al capolinea l’epopea dei Boscolo. Una crescita impetuosa e poi la crisi, i debiti con le banche, le litigi tra i tre fratelli del gruppo padovano. Così, dopo anni di falliti tentativi di ristrutturazione, a inizio estate parte un processo competitivo di vendita, assistito da Mediobanca come advisor. Tra le diverse manifestazioni di interesse passa quella del fondo americano Northwood che a ottobre ha ottenuto il diritto a trattare in esclusiva la vendita grazie a un’offerta di circa 500milioni di euro (valutazione che comprende i 300milioni di debito con un pool di banche). Lo schema dell’acquisizione, che si punta a chiudere entro fine anno, prevedrebbe la vendita a Northwood degli alberghi del Gruppo Boscolo, ad eccezione dei due hotel di Venezia e Nizza, e contestualmente la costituzione di una società per la gestione dove la famiglia Boscolo potrebbe avere fino al 75% di partecipazione. Il Gruppo Boscolo chiuderebbe il 2016 con un margine operativo lordo di 35milioni di euro, in netto miglioramento grazie al riposizionamento sui 5 stelle. Anche chi prova a crescere, come Starhotels, in mano alla famiglia fiorentina Fabri, si trova a fare i conti con diversi problemi: in questo caso, come in parte già successo in Boscolo, i dissidi interni sembrano quantomeno rallentare le strategie. Se a marzo, infatti, Starhotels, forte dei suoi 20 quattro stelle in Italia, tre hotel di lusso a Londra, uno a Parigi e uno a New York, per un totale di 3.840 camere e di circa 200 milioni di ricavi 2015, ha deciso di puntare verso l’alto acquisendo dalla prestigiosa catena Royal Demeure quattro ‘5 stelle’, a frenare i piani è il socio di minoranza. La fiduciaria ‘Il Giglio’, infatti, si è messa di traverso, con una denuncia al collegio sindacale per “fatti censurabili” su cui chiede un’indagine ai revisori e una relazione all’assemblea dei soci. Un dossier su cui non è difficile intravedere il dissidio fra i fratelli Fabri e in particolar modo fra Elisabetta, presidente di Starhotels, e Francis, fuori dalla governance del gruppo, che avrebbe trovato l’acquisizione degli Hotel Helvetia&Bristol di Firenze, Hotel d’Inghilterra di Roma, Grand Hotel Continental di Siena e Hotel Villa Michelangelo di Vicenza troppo onerosa. Nel mirino, dunque, i 175 milioni previsti per la transazione e altri punti dell’accordo, con accuse che Elisabetta Fabri ha rispedito al mittente, ritenendo l’operazione all’interno dei propri poteri, oltre che supportata da valutazioni e perizie. C’è chi a crescere ci prova, ma la fascia non è lusso. L’Antitrust ha dato ad agosto il via libera all’integrazione tra Atahotels (Gruppo Unipol Sai) e Una hotels&resorts, in cui Ata acquisterà Una. Lo schema a cui si vuole arrivare è quello delle catene internazionali con l’obiettivo di separare immobiliare e alberghiero. Alcuni hotel sono oggi di proprietà, altri solo in gestione. Il gruppo alberghiero eredità della Fonsai dei Ligresti arriva a questa operazione senza alcuni pezzi pregiati, tra cui il Tanka Village di Villasimius, uscito dal portafoglio in gestione (i muri delle strutture appartengono all’Empam). L’operazione di fusione porterà il gruppo Atahotels a 51 strutture alberghiere grazie all’integrazione di 31 immobili gestiti da Una (17 di proprietà) e darà vita al più grande gruppo italiano seppure in un mercato molto frammentato. Dove le catene italiane, peraltro, hanno dimostrato di non sapere stare in piedi finanziariamente. Non resta quindi che aspettare gli stranieri? “Non trovo che sia del tutto vero – obietta Bocca – In Italia abbiamo esempi di eccellenza. Poi ci sono anche casi in cui le cose sono andate male. Questo però è spesso successo perché l’imprenditore è andato in default in altri settori. E poi ci sono atavici e irrisolti problemi: siamo oppressi da una tassazione eccessiva e frammentata e dal pesante costo del personale”. Anche per ciò che riguarda le catene internazionali, dice Bocca “l’investitore che guarda all’Italia non può che creare il suo business nelle grandi destinazioni quali Roma, Firenze, Milano e Venezia, dove i prezzi di vendita delle camere sono più alti e dove la redditività può essere garantita dall’altissima presenza dei visitatori”.
Repubblica