Il designer di realtà virtuali tridimensionali, il responsabile di etica nel mondo digitale e il creativo dei dati sono alcune delle nuove professioni che il mondo dell‘editoria svilupperà nei prossimi 10 anni, per rispondere alle esigenze di un pubblico sempre meno propenso a conoscere storie e informarsi come in passato. Già nel 2018 saranno un milione le posizioni lavorative che rimarranno scoperte perché gli italiani (ma non solo) non avranno le competenze digitali necessarie. Una previsione, quella di Microsoft e Google, sorprendente in un periodo con un’alta disoccupazione giovanile.
Ma, concretamente, in cosa consisteranno i lavori del futuro? Secondo uno studio Microsoft, come ha spiegato ieri l’a.d. tricolore Carlo Purassanta durante la seconda e ultima giornata di Italia Digitale organizzata a Milano da Rcs-Corriere della Sera, il designer di realtà virtuali tridimensionali dovrà saper progettare come un vero e proprio architetto mondi digitali, con tanto di spazi e percorsi che facilitino il racconto di una storia, l’immergersi completamente in un’esperienza narrativa. Questo lavoro sarà contaminato anche dalle competenze e dalla conoscenza del mondo dei videogiochi. Il responsabile di etica nel mondo digitale ribadirà invece la centralità della deontologia in un sistema di comunicazione e giornalismo progressivamente dominato da algoritmi e macchine. A proposito di algoritmi e numeri, sulla scia del data journalism, spetterà al creativo dei dati ideare storie e intrattenimento analizzando e riordinando la moltitudine di dati digitali prodotti ogni giorno.
Nei prossimi anni «due giovani su tre faranno un lavoro che non esiste ancora», sottolinea Purassanta. «Bisogna prepararsi investendo in competenze». Infatti, a giudizio di Fabio Vaccarono, country manager di Google Italia: «Si discute spesso di infrastrutture ma, in campo digitale, ci sono anche delle competenze da accrescere. Per esempio, si sostiene che gli italiani non comprino online e quindi le aziende tricolore non siano incentivate a investire nell’e-commerce. Invece la richiesta di made in Italy c’è, solo che le imprese italiane non sfruttano appieno le loro potenzialità».
di Marco A. Capisani, ItaliaOggi