L’ex Cavaliere, ottanta anni il 29 settembre, adesso è fuori gioco. Nel 2009 le 10 domande al Cavaliere di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica. E oggi è il tempo di porne un’altra
di Ezio Mauro, L’Espresso
L’undicesima domanda a Silvio Berlusconi
L’Undicesima domanda arriva alla fine del tempo, quando si è chiuso il baldacchino della politica, oltre lo scontro tra destra e sinistra, fuori dai calcoli delle competizioni elettorali e dopo la grande partita per il potere. Quella partita durata vent’anni tra Berlusconi e la sinistra è finita: il Cavaliere è fuori gioco, la sinistra non sa a che gioco deve giocare.
Ci accorgiamo che quelle due anime perimetravano il campo, lo definivano e a noi assegnavano il posto sugli spalti per uno dei più grandi spettacoli politici del dopoguerra. Adesso il campo è vuoto, e come tutti gli spazi abbandonati è preda di incursioni casuali, episodiche, quasi aliene. Senza passione. Bisogna ammettere che l’ultima grande passione politica, per metà del Paese, è stato lui. E l’altra metà si è appassionata altrettanto all’idea di contrastargli il passo, cercando di fermare il piano di conquista di quello che era in quel momento l’uomo più potente d’Italia.
Era già tutto pronto anni prima che l’avventura incominciasse ufficialmente. Due anni prima, quando lavoravo a Torino alla “Stampa“, l’avvocato Agnelli, editore del giornale, mi disse che avevamo un invito a pranzo ad Arcore con l’imprenditore televisivo Berlusconi e ci saremmo andati insieme, come capitava talvolta con uomini d’impresa ma anche con Luciano Lama. Poi ci fu un contrattempo, e mi presentai da solo.
Il pranzo che doveva essere a quattro diventò a tre, con il Cavaliere che non conoscevo e Fedele Confalonieri. Parlammo di tutto e di niente, in modo aperto e sciolto. Tanto che a un certo punto domandai: «Ho sentito dire che sta pensando di candidarsi a sindaco di Milano, è vero?». Mi rispose con un gesto infastidito della mano: «Una sciocchezza». Poi mi domandò quante lettere riceveva ogni giorno “Specchio dei tempi”, la rubrica di dialogo coi lettori della “Stampa”. Più di cento, risposi, pensando che avesse voluto cambiare discorso. Invece lo riprese: «Sa perché glielo chiedo? Perché io ricevo duecento lettere al giorno e sono delle massaie, felici perché ho regalato loro la libertà con le mie televisioni che guardano al mattino mentre fanno i mestieri, come si dice qui a Milano quando si rigoverna la casa. Bene, se pensassi di entrare in politica, io non farei il borgomastro di Milano ma fonderei un partito reaganiano, punterei proprio su quel mondo, prenderei la maggioranza dei voti e governerei il Paese».
Una sorta di “Bum!” silenzioso risuonò nella stanza, attorno al tavolo dov’eravamo seduti con le finestre aperte. A me quella frase entrò da un orecchio e uscì dall’altro, pensai a una boutade estemporanea, un paradosso gratuito, come se Renzi mi dicesse oggi che pensa di fare il centravanti nella Fiorentina. E infatti quando Agnelli chiamò in macchina per sapere se c’era qualche curiosità in quell’incontro gli raccontai la conversazione, saltando quel piccolo particolare. Glielo avrei ricordato due anni dopo, d’urgenza, quando sullo sfondo di una politica disastrata si avvertivano i primi scalpiccii berlusconiani misteriosi, le voci di vertici segreti a Publitalia, la rete di uomini di Dell’Utri, le simulazioni strategiche e coperte con i giornalisti del gruppo, i sussurri di qualche navigatore democristiano di lungo corso che cercava una scialuppa di salvataggio dopo il grande naufragio, una cena al Cambio con imprenditori torinesi a cui era stato raccontato tutto chiedendo il silenzio come nelle sette, nelle operazioni di marketing, nei blitz militari.
Io sapevo, anche se non avevo capito nulla. Non avevo considerato che il vuoto chiama il pieno. Che nella grande desertificazione della politica italiana dopo il suicidio di partiti centenari con le tangenti tutto era prosciugato, meno il deposito elementare ma identitario dell’anticomunismo, catalizzatore e collante istintivo: a patto che qualcuno fosse capace di riportare l’istinto in politica dopo l’uniformità scolastica degli anni democristiani e la rigidità monumentale della piramide comunista. Non avevo creduto possibile, soprattutto, che una creatura politica nuova potesse nascere dal nulla, dagli spettri del caos come direbbero i russi, senza il seme di una tradizione culturale, la selezione di un’élite allargata, la rappresentanza esplicita di una base sociale riconoscibile e riconosciuta.