L’ULTIMA ASSEMBLEA È STATA DOMINATA DALL’USCITA DI BAZOLI E DAL CAMBIAMENTO DI GOVERNANCE, MA PROSEGUE INTANTO IL PROCESSO DI DISMISSIONI DI QUELLO CHE UN TEMPO FU IL RETICOLO DI PARTECIPAZIONI VOLUTO DALL’EX AD. DA RCS A NTV, COSA RESTA DA VENDERE
Una tranquilla assemblea degli azionisti, quella di Intesa Sanpaolo della scorsa settimana. In fondo era già stato tutto deciso: l’abbandono del Grande Vecchio, Giovanni Bazoli, era stato annunciato da tempo e digerito dal mercato. Così come il passaggio dal sistema di governance duale a quello monistico. La banca, poi, secondo gli analisti, sta veleggiando felice verso il raggiungimento, in anticipo, di tutti gli obiettivi del piano industriale. Inoltre, è la più capitalizzata fra le banche di sistema, tanto da partecipare fino a 1 miliardo al fondo Atlante per garantire gli aumenti di capitale degli istituti in difficoltà e per la gestione delle sofferenze. Insomma, tutto procede senza scossoni, anche quel lento ma inarrestabile mutamento di paradigma già annunciato nell’ultimo business plan e ormai divenuto una routine: la progressiva cessione di tutto il reticolo di partecipazioni industriali costruito nell’era Passera. L’ex amministratore delegato aveva affidato a Gaetano Miccichè la paziente messa a punto, durante il primo decennio del secolo, di questa rete. E adesso, a cessioni già nella maggior parte avvenute, proprio il naturale passaggio di Miccichè, giunto ai limiti d’età, da amministratore delegato di Banca Imi, a cui fa capo la divisione corporate, a presidente (dunque senza deleghe operative) suggella la fine di un progetto su cui l’ex amministratore delegato aveva contato molto, ma che – si sforzano di spiegare a Intesa Sanpaolo – non poteva più andare avanti dopo la grande crisi finanziaria che aveva creato la necessità, per tutte le banche, di rafforzare i requisiti patrimoniali. Le partecipazioni industriali – che un tempo erano arrivate fino a una sessantina di società fra piccole e medie più le quote in gruppi di sistema come Generali, Telecom e Pirelli, tanto per fare qualche esempio – assorbivano troppo capitale e quindi andavano dismesse. «Il tema delle disimissioni andava legato al quadro regolamentare, con l’individuazione di nuovi parametri per i requisiti patrimoniali», dicono a Intesa. Del resto, non è un caso se il Core Tier 1 era a fine 2007 del 5,9 per cento mentre ora è più che doppio (13,1 per cento). Il ragionamento non fa una piega. Ma certo, l’idea che sia venuto meno il prezioso apporto della banca nel capitale di tante società proprio durante la più grave crisi economica del dopoguerra fa parte di quei tanti paradossi che un giorno forse i libri di storia spiegheranno. Come spesso accade, l’appetito vien mangiando. Proprio nei giorni che hanno preceduto l’assemblea è trapelata la notizia che alcuni gruppi internazionali sarebbero interessati all’acquisizione di Setefi, la società interna al gruppo che gestisce le carte di credito. Da Intesa non sono venute né conferme né smentite ma l’aria che tira è che questa non sia considerata una parte del core business del gruppo. Dunque, se le offerte saranno allettanti, come sembra, si vedrà. Tra le cessioni in dirittura d’arrivo da mesi c’è la partecipazione del 26,4 per cento in A4 Holding: Intesa controlla la società autostradale insieme alle famiglie Astaldi e Tabacchi. Anche qui se ne ragiona da mesi, ma ormai le trattative con Abertis sono in dirittura d’arrivo. Se poi ci soffermiamo sulla raffica Carlo Messina (1), amm. delegato di Intesa Sanpaolo e Gian Maria Gros-Pietro (2), presidente di vendite di quote di società un tempo considerate “strategiche”, dal 2013 al 2015, è come sentir suonare le campanae a morto per quello che fu soprannominato il “capitaliasmo relazionale”: il 3 per cento di Generali venduto senza rimpianti nel corso del 2013, seguito a ruota dalla quota del 28,9 per cento in Sia (Società interbancaria per l’automazione), che gestisce sostanzailmente tutto il sistema dei pagamenti italiano. Nel 2014 partono fra marzo e novembre le quote di Telecom, Pirelli &c. e di Nh Hoteles, un gruppo che fra l’altro era decollato, con la fusione con Jolly Hotels, proprio grazie al massiccio ingresso di Intesa. Nel 2015 sono state infine cedute Union LIfe e Gabetti. Ma il deal più grosso Intesa l’ha fatto con Neuberger Berman, tra le principali società di gestione e di investimento a livello mondiale. Insieme a questa, la banca ha creato una joint venture in cui sono confluiti tutti i fondi di private equity con le loro variegate partecipazioni industriali. Le relative quote non sono state rese note, ma Intesa sarà in minoranza. Ora Intesa si sta concentrando sulle residue cessioni, da portare a termine entro la fine dell’anno prossimo, quando scadrà l’attuale piano industriale. Restano in carico il 4,2 per cento di Rcs, il 31,8 di Cai (Alitalia), il 24,5 di Ntv, il 19,8 di Granaroslo e il 10,2 di Prelios. La partita più complessa resta quella di Risanamento, di cui l’istituto ha il 48,9%.. 1 2 Nei grafici a destra, le ultime partecipazioni dismesse tra il 2013 e il 2015 e quelle ancora in carico all’inizio del 2016.
Repubblica