di Stefania Miccolis
(C. L. In considerazione dei disagi che sempre più, giorno per giorno, affliggono le giovani generazioni, dedichiamo una recensione al bel libro di Pier Luigi Celli. Un libro uscito sei anni fa, preveggente, informato…e purtroppo la situazione giovanile si è aggravata)
La domanda che ci si pone è: chissà se un padre o una madre possono capire la grave situazione e il disagio sociale ed esistenziale in cui si ritrovano i loro figli? Chissà se invece non se ne accorgono proprio perché appartenenti a una generazione differente? Insomma fino a che punto quella che Pier Luigi Celli definisce nel suo libro “La generazione tradita” (ed. Mondadori 2010) riesce ad essere compresa dagli adulti? Siamo nel 2010 quando Celli – prima direttore RAI e all’epoca direttore della LUISS – scrive questo breve e chiaro quadro della situazione economica, politica e sociale italiana, e la crisi economica che ha invaso il mondo a mo’ di crisi del ‘29 e che ha colpito i paesi soprattutto dell’area mediterranea, tra cui l’Italia, è già iniziata. Ad oggi non è ancora finita e non si sa ancora quando finirà. Certo secondo Celli una intera generazione (e forse anche la successiva, visto che sono passati sei anni e i miglioramenti sono impercettibili), è stata ingannata e abbandonata. E l’unica soluzione pare rimanga quella di emigrare all’estero. Gli italiani lo sanno bene, lo hanno già fatto i nostri nonni o bisnonni, in condizioni difficilissime, perché una volta partiti non si poteva più tornare indietro, ma oggi si può volare, in poche ore si arriva ovunque, ma si lascia la propria terra e la propria famiglia. E giustamente la lettera di Celli al figlio con la quale si apre il libro (e che pubblicata su Repubblica scosse l’opinione pubblica e probabilmente molte coscienze), tocca proprio il tema della separazione: “Per questo col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell’estero”. “Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati”. Il nostro paese non offre nulla per coloro che hanno degli obiettivi, che studiano per raggiungerli, che fanno dei sacrifici implicando anche i genitori, che per la prima volta dopo la guerra sanno di non poter assicurare ai loro figli una vita migliore della propria. A vincere non è la meritocrazia, parola e materia sulla bocca di tutti, falsi liberali e finti riformisti, se ne parla in maniera inflazionata ma soprattutto nei momenti in cui serve come logica di conquista del potere, come «speculazione» propagandistica, in un convegno di studio o nella campagna elettorale. «La logica del merito – scrive Celli – gode di un consenso persino imbarazzante, talmente generalizzato da divenire una sorta di giaculatoria stucchevole. Ne parlano i politici, che si guardano bene dall’applicarlo nella scelta di collaboratori e di futuri colleghi. Ne fa uso abbondante la logica parlata della pratica manageriale, salvo poi convenire che è forse più utile selezionare sulla base delle fedeltà esibite di quanto non serva puntare su competenza e affidabilità». La politica generalizza sulla generazione tradita, e non conosce effettivamente la situazione di neo-diplomati e neo-lauerati, presa solo dall’«usura del linguaggio» imposta dalla modernità. Oppure preferisce il silenzio tipico delle nomenklature che «non si sporcano le mani». La politica è “prigioniera di un’autoreferenzialità decisionale strutturale, che finisce col penalizzare la partecipazione delle nuove generazioni, a garanzia di una permanenza nella durata che ne certifichi il potere”. E di conseguenza c’è una grande “disaffezione dei più giovani” rispetto ad essa. Forse ancora con ideali che perseguono da una tradizione familiare e storica, hanno ormai poco interesse a seguire qualcosa nella quale non credono più e che non può aiutarli, perché debole, perché ingannatrice, perché non dà più sicurezza e perché sanno che il terreno non è più saldo e fermo, ma “cadono le certezze in una transizione infinita”. Al posto della meritocrazia “Vale il principio che chi è più furbo ha maggiori possibilità di affermarsi”. Pare funzioni solo la “ricerca inevitabile delle scorciatoie per riuscire a tagliare le curve, adottando criteri che esulano platealmente dai valori ufficiali proclamati”.
Per i giovani in Italia non c’è futuro, lo stesso Draghi disse “i giovani sono le vere vittime di questa crisi”. Secondo Celli vivono in completa stagnazione senza percezione di un futuro e con la mancanza di un punto di riferimento. Si percepisce la consapevolezza dei “limiti, ma anche della ricerca di percorsi possibili; della debolezza di una condizione in evoluzione e, insieme, della voglia di arrivare comunque a una propria terraferma.” Per loro come dice Bauman c’è “la svalutazione del presente”, “un presente sempre più affannoso e insoddisfacente”. Non c’è alcun appiglio è come se i giovani così abbandonati, non riuscissero a trovare la forza per rivoluzionare il loro stato, ma vivessero in completa apatia e rassegnazione. Un lavoro qualunque diventa spesso l’unico approdo. Inoltre, cosa ben più grave, “dopo avergli rubato la speranza gli abbiamo anche tolto la voce”. Questo «popolo», oggi, è forse l’unico a non avere una rappresentanza. Né sociale, né tanto meno politica: “non avendo voce non trova né interlocutori, né forme di aggregazioni tali da rendere possibile una visibilità spendibile: sono, e restano, degli outsider, sostanzialmente senza diritti garantiti e con la prospettiva di pesare a tempo indefinito sulle famiglie di origine”.
E neanche gli adulti, neanche i genitori hanno saputo dare o lasciare speranza, e crearla. Gli adulti, quelli che in realtà dovrebbero sentirsi colpevoli e che hanno contribuito forse per inconsapevolezza ma con una buona dose di egoismo e narcisismo a non voler abbandonare posizioni di prestigio e tenersele ben strette con una “Indisponibilità a livelli alti a lasciare il posto per ricambi generazionali che sarebbero del tutto naturali”. Non esiste il ricambio e questo frena un progresso economico e abbatte i giovani che non riescono a infilarsi in alcuna situazione. Da parte degli adulti c’è “un disinteresse asettico, che in nome di un presente da riempire in ottica di sfruttamento intensivo tende a liberarsi di ogni vincolo di responsabilità, di ogni remora a fare “in proprio”, senza doveri di solidarietà o debiti da saldare in anticipi rispetto a quelli che verranno”. A prevalere è l’egoismo e l’individualismo. Viviamo ormai in “Una società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili, di carriere feroci fatte su meriti inesistenti”. È come se in questo momento ci fosse un mondo senz’anima, e nessuno è più in grado di ascoltare. E “forse ascoltare prima di parlare ci aiuterebbe a capire quello che serve veramente. E soprattutto “Non abbiamo tempo” “siamo sottoposti a “una dittatura del tempo reale” da cui sembrano dipendere destini personali, fortune aziendali e la stessa tenuta delle istituzioni”. Il tempo non è utilizzato per il prossimo, serve a sé stessi: “l’ossessione degli interessi singoli da perseguire” e la paura di venire esclusi e di non riuscire è tanta: c’è “la voglia di voler emergere a qualunque costo, purché vi sia “un palcoscenico seppur minimo da frequentare” .
Ma Celli crede che vi siano delle soluzioni. Bisognerebbe rivedere tutto, a cominciare dal mondo universitario, perché il mondo che aspetta i giovani “si presenta con caratteristiche di provvisorietà e di frammentazione che richiedono competenze ben più estese delle conoscenze curriculari trasmesse, diventa necessario ripensare cosa serve all’università per non fallire il suo scopo principale, che è quello di preparare per la società le sue componenti pregiate”. I giovani vengono sfruttati, le industrie non hanno anima e bisognerebbe invece “assicurare una connessione diretta tra università e mercato del lavoro”e “ripensare le forme di questa transizione”. Ci sarebbe bisogno di “visioni e progetti in grado di conquistare l’anima e spingere le persone a spendersi per qualcosa che valga la pena. Restituire motivazione e voglia di impegnarsi, servirebbero casi emblematici, esperienze concrete. Ed ogni giovane probabilmente sarebbe in grado poi di rischiare, di costruirsi la propria storia, e comunque avrebbe almeno la speranza di “non essere condannato alla marginalità”.
Stefania Miccolis