“Non posso dirti il segreto dei super poteri – dice Menotti – sennò poi li prendi pure tu e mi rubi l’idea… è un liquame radioattivo… funziona, ambulance a me è ricresciuto un dito”. E subito viene in mente una scena del film Lo chiamavano Jeeg Robot – diretto da Gabriele Mainetti e sceneggiato da Nicola Guaglianone e Menotti – in cui il protagonista, store Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), il Jeeg Robot del 2016, cerca di rimettersi il mignolo del piede che gli hanno appena tagliato. Sembra di parlare di un fumetto, e con un fumetto… vedere Menotti è come vedere un Jolly delle carte o un personaggio con i capelli color argento che sghignazza su quel genere umano guardato tutti i giorni dalla sedia di un anonimo bar della capitale. Lui nasce come fumettista: “a vent’anni disegnavo fumetti su “Frigidaire” e illustrazioni per “Il Manifesto”. È allora che ho cominciato a firmarmi Menotti – (il suo vero nome è Roberto Marchionni) -, il nome di battesimo di mio nonno. Lui ne andava orgoglioso, ma essendo di destra faceva comprare il giornale da un suo amico per non farsi vedere”. A Bologna Menotti frequenta la “Zio Feininger”, la scuola di fumetto che raccoglie la generazione di artisti successiva a quella di Pazienza: “Agli inizi degli anni ‘80 il fumetto aveva ormai dimostrato di poter parlare di tutto, non solo di paperi e di cowboys. Ne ero entusiasta, mi piaceva contaminare le mie storie con riferimenti alla pittura rinascimentale e alla letteratura. Erano ‘fumetti d’autore’, ed ero considerato una sorta di intellettuale del fumetto”. Se gli chiedi se si è ispirato ai fumetti per creare questo film, risponde di sì. Ma più che ai supereroi della Marvel e della DC ha in testa Ranxerox, il personaggio creato da Stefano Tamburini e Tanino Liberatore: “un robot forzutissimo che stava con una sorta di bambina. Un po’ come il Leon di Luc Besson, (anche se non è appurato che Besson l’avesse letto, tra i due personaggi ci sono molte somiglianze). E io che vengo da quel mondo lì, quel fumetto l’avevo presente”.
Menotti parla del sodalizio con Nicola Guaglianone, conosciuto nel 2005 quando si trasferisce a Roma per scrivere serie televisive, e di come tramite lui incontri Gabriele Mainetti. Nasce così Lo chiamavano Jeeg Robot, frutto di una intensa complicità fra gli sceneggiatori e il regista: “La cosa bella di lavorare così è che l’idea originale di ciascuno si incastra con quella dell’altro, il che ne genera un’altra e un’altra ancora, come piantine di idee. C’era veramente un rapporto stretto fra di noi e tutti ci credevamo, abbiamo lavorato molto”.
Il film ha avuto e sta continuando ad avere un grande successo di pubblico e critica. “La storia è la genesi di un supereroe, un personaggio chiuso in se stesso che acquista casualmente dei superpoteri, e grazie all’amore di una donna diventa un eroe vero”. Il personaggio di Jeeg Robot d’acciaio viene dal territorio condiviso dei cartoni animati anni ’80. Ma se i più giovani non lo conoscono, non importa: anche il protagonista, in una delle scene iniziali, dice di non sapere chi sia. Il film non parla del robot giapponese, ma di un personaggio che viene ribattezzato così. L’ambiente è Tor Bella Monaca, considerato un quartieraccio di Roma. Il protagonista è Enzo, un ladruncolo di periferia completamente alienato dal mondo esterno. Uno dei suoi tormentoni è “non sono amico di nessuno”. In fuga dalla polizia, Enzo finisce nel Tevere ed entra in contatto con una sostanza radioattiva che gli regala poteri speciali, coi quali spera di dare una svolta alla sua carriera criminosa. Grazie ad Alessia, una vicina di casa con problemi di ritardo mentale, perché convinta di vivere in un’altra realtà dove interagisce con i personaggi di Jeeg Robot, Enzo capisce di avere una missione ben più alta. Sceglie di aprire la sua anima al mondo, di entrare in contatto con gli altri e di salvarli poiché “lui è un Jeeg” (chi conosce la colonna sonora del cartone animato, può anche cantarla). Menotti parla entusiasta della sceneggiatura: “è stata totalmente abbracciata dal regista, è venuta esattamente come l’avevamo immaginata. Nei lavori per la TV, la differenza è spesso abissale”. Il successo del film secondo lui risiede in una commistione di elementi, ma soprattutto perché è un prodotto originale, che getta le basi per la nascita di un nuovo genere: “Si potrebbe chiamare spaghetti… superhero, – scherza Menotti – nel panorama del cinema italiano non vi sono esempi di questo tipo da almeno trent’anni. Non so se un genere simile nascerà mai, ma nel momento in cui un’idea che appartiene a un certo immaginario viene inserita in un altro che non c’entra niente, si produce del significato. Quale che sia, se si è in grado di controllarne le conseguenze c’è il rischio che venga fuori qualcosa di interessante. L’Italia è un paese famoso nel mondo per tanti motivi, tra i quali i grandi film del Neorelismo e la nostra indole da furbastri-delinquenti. A noi interessava vedere cosa sarebbe successo proiettando un uomo dalla forza prodigiosa in un mondo di borgata pasoliniano: come previsto, l’effetto è stato sorprendente. Vedere un supereroe in calzamaglia volteggiare per le strade di New York non stupisce più di tanto: è uno stereotipo che fa parte dell’immaginario pop americano. A Roma, patria del cinismo e delle doppie file, un personaggio del genere farebbe ridere. Ma ciò non significa che questa risata non si possa mettere a frutto. Mentre i supereroi americani non hanno mai grandi dubbi a mettersi in lotta per il bene, un ladruncolo di Tor Bella Monaca con i super poteri per prima cosa si porta a casa un bancomat. Sarà triste, ma sappiamo tutti che è la verità, ecco perché scoppia la risata, il pubblico si diverte. Utilizzare questo spostamento di significati per generare nuove mitologie è estremamente interessante… è come fare una fusione fredda fra due elementi molto attivi, apparentemente incompatibili, e cercare di controllarne gli effetti”.
Il film è stato considerato un po’ splatter: “l’importante era che la violenza non fosse patinata, finta; sì certo è esagerata, ma perché in Italia fosse credibile volevamo che apparisse il più possibile vera. Stesso discorso vale per le bombe, la paura del terrorismo: per far credere al pubblico che a Roma c’è un super eroe, non potevamo rappresentare una città generica, da cartolina, doveva essere un luogo specifico, dove la realtà arriva. Così come il linguaggio, che doveva essere iper-realistico, un vero romanaccio. Poi le borgate, le periferie, volevamo rappresentarle come luoghi a più dimensioni, lontano dal punto di vista del cinema paternalistico borghese che vede le cose dall’alto in basso – dove in basso c’è un mondo di vittime della società, senza possibilità di riscatto. Tanti film italiani (ribattezzati da qualcuno di “genere Mibact”) dietro la bandiera dell’impegno sociale hanno finito per incartarsi su sé stessi, continuando a ripetere le stesse cose. Noi non ci siamo vergognati di usare strutture narrative solide, stereotipiche, per raccontare l’evoluzione di un personaggio che cambia. Il protagonista (un grande Santamaria ingrassato di 20 kili, con quella faccia sempre molto intensa ma in grado di risultare comica, ingenua, e all’occorrenza di far scattare la risata) non doveva essere il tipico underdog sempre cupo o incazzato. In certi posti si divertono e ridono molto più di come ci si immagina. A tanti film italiani questa vitalità proletaria è sfuggita completamente, e il panorama si è come polarizzato. Da una parte ci sono le commedie di Natale, dall’altra tristi tranches de vie intellettuali. Noi stiamo cercando una strada alternativa”.
Insomma in Lo chiamavano Jeeg Robot la poetica del duo Guaglianone-Mainetti, esemplificata in cortometraggi che calano icone pop nella realtà della borgata romana, si è unita alla visione di Menotti, interessato fin dai tempi di Frigidaire e Comic Art alla collisione di universi mitici alternativi: “Mi è sempre piaciuto fare delle cose che non rispondessero a una definizione univoca del genere, ma che fossero una commistione di generi. E questa era una occasione fantastica.”
Stefania Miccolis