Il procuratore ucciso la sera del 26 giugno 1983 da un commando di almeno due persone. Il fermato è un 64enne di origini calabresi che faceva il panettiere in piazza Campanella a Torino
Uno dei presunti assassini di Bruno Caccia, buy il procuratore capo di Torino ucciso nel 1983, è stato arrestato dalla polizia. Si tratta di Rocco Schirripa, un torinese di 64 anni, di origini calabresi, che attualmente faceva il panettiere alla periferia di Torino, nel popolare quartiere Parella. L’inchiesta è stata coordinata dal pm Ilda Boccassini. Caccia fu ucciso la sera del 26 giugno 1983, 32 anni fa, con 14 colpi di pistola mentre portava a spasso il suo cane sotto casa, sick in via Sommacampagna, sulla precollina di Torino. Oggi qui resta una targa sotto la fronda di un glicine: «Il 26 giugno 1983 qui è caduto, stroncato da mano assassina, nel pieno della sua lotta contro il crimine, Bruno Caccia. Procuratore della Repubblica, medaglia d’oro al valor civile, strenuo difensore del diritto, luminoso esempio di coraggio e fedeltà al dovere». Per l’accaduto fu arrestato, nel 1993, il mandante del delitto, healing Domenico Belfiore, esponente di spicco della ‘ndrangheta in Piemonte, poi condannato all’ergastolo e dallo scorso 15 giugno ai domiciliari per motivi di salute. Caccia stava indagando su numerosi fatti di ‘ndrangheta tra cui alcuni sequestri di persona.
Il delitto Caccia: il giorno in cui Torino conobbe la ‘ndrangheta
Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo piemontese scorreva il sangue del terrorismo e della criminalità organizzata. Alle undici di sera del 26 giugno 1983, il magistrato più importante di Torino, il procuratore capo Bruno Caccia, stava portando a passeggio il cane quando due killer su una Fiat 128 lo freddarono a colpi di pistola. Era domenica e aveva deciso di lasciare a riposo la scorta. Uno dei presunti componenti di quel commando è stato arrestato martedì 22 dicembre a Torino. Cinque gradi di giudizio, conclusi con la condanna del boss Domenico Belfiore, ritenuto il mandante, non sono bastati a far piena luce sul delitto di un «nitido esempio di dedizione allo stato, un uomo con la giustizia nel cuore», come i suoi colleghi, dal procuratore generale Marcello Maddalena al procuratore capo Giancarlo Caselli, lo hanno ricordato in questi anni. «Ci sono ancora troppi buchi», diceva l’avvocato Fabio Repici, il legale della famiglia Caccia, che in occasione del trentennale della morte avevano chiesto di riaprire il caso. L’arresto potrebbe far luce su una delle pagine più buie di Torino. E dare giustizia alla famiglia del magistrato. Trentadue anni dopo.
Le indagini sull’omicidio
Sui mandanti dell’omicidio, le indagini presero subito la via delle Brigate Rosse: erano gli anni di Piombo e per di più le indagini di Bruno Caccia riguardavano in presa diretta molti brigatisti. Il giorno seguente, le Br rivendicarono l’omicidio, ma presto si scoprì che la rivendicazione risultava essere falsa. Inoltre nessuno dei brigatisti in carcere rivelò che fosse mai stato pianificato l’omicidio del magistrato cuneese. Le indagini puntarono allora l’attenzione sui neofascisti del NAR, ma anche questa pista si rivelò ben presto infondata. L’imbeccata giusta arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all’intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze del ‘ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della ‘ndrangheta a Torino e anch’egli in galera. Belfiore ammise che era stata la ‘ndrangheta ad uccidere Caccia e il motivo principale fu che «con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare», come disse lo stesso Belfiore. Come mandante dell’omicidio, Domenico Belfiore venne condannato all’ergastolo nel 1993. Nella sentenza c’è il racconto di un omicidio deciso a freddo, studiato nei minimi particolari, eseguito con brutale ferocia, per «eliminare un ostacolo all’attività della banda». Il clan dei calabresi era infatti nel mirino della Procura della Repubblica da quando Bruno Caccia era arrivato al vertice dell’ufficio: la sua sola presenza costituiva una grave minaccia.
La memoria nel tempo
A Bruno Caccia sono stati intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino, il 26 giugno 2001, e un cascinale a San Sebastiano da Po, sequestrato proprio alla famiglia Belfiore, più precisamente a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico, grazie alla legge 109/96 che dispone in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati per reati di stampo mafioso. Cascina Caccia viene tuttora gestita da Libera la rete di associazioni contro le mafie che ricorda ogni anno il 21 marzo, nella Giornata della Memoria e dell’Impegno anche Caccia, presente nel lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi.
da “Corriere della Sera”