Agroindustria e grande distribuzione si sono internazionalizzate e hanno superato la crisi. Le costruzioni sono rimaste alle logiche del secolo scorso. Fallimenti e licenziamenti tra le polemiche
C’era una volta il mattone “a marchio coop”. Colossi dell’edilizia, soprattutto di stampo emiliano, che prima della crisi sembravano immortali, capaci di strappare ai concorrenti appalti in tutt’Italia. E mantenere il quasi monopolio delle commesse nei territori di riferimento, da Reggio a Bologna, passando per Modena, grazie a una “potenza di fuoco”, anche finanziaria, che ha fatto la fortuna dei cooperatori in molte stagioni. Poi lo shock: l’impatto con la crisi per i costruttori è stato violentissimo. Paralisi del settore residenziale, invenduto alle stelle e fatturati crollati per centinaia di milioni. Davanti ai primi scricchiolii, diventati all’improvviso crepe, il movimento coop ha messo mano al portafoglio, provando a salvare , non senza coraggio, i suoi big dell’edilizia.
Che erano riusciti ad accumulare, quasi in silenzio, debiti miliardari in base allo schema classico: “Costruire per resistere”. Fantasticando nel frattempo di fusioni, che le gelosie di campanile hanno frenato e il crollo del mercato ha rimandato. Ma non è bastato: dal 2010 al 2014 la produzione delle coop edili è scesa in picchiata di oltre 2,1 miliardi (quasi il 3% del giro d’affari Legacoop, a fine 2014 vicino agli 83 miliardi di euro). Ora si è aperto il capitolo più doloroso: gli addii dai nomi altisonanti. Aziende decotte, incapaci di cambiar pelle, che hanno costretto anche Legacoop a chiudere i rubinetti dei finanziamenti, spalancando un attimo dopo le porte a liquidazioni seriali. Nelle ultime settimane hanno alzato bandiera bianca storiche aziende “rosse” come Coopsette e Coop Costruzioni: 395 milioni di fatturato in due e quasi 900 operai a spasso.
Il mattone in questi anni ha così perso il treno, restando ancorato all’edilizia vecchio stampo. Poche le eccezioni: la “mosca bianca” del movimento rimane la coop ravennate Cmc, specializzata in grandi infrastrutture, come tunnel e autostrade, che macina profitti e vince appalti nel mondo. Nel 2014 raggiunge 1,1 miliardi di fatturato (il suo record) e il portafoglio ordini vale il triplo. Perde posizioni, ma regge, la modenese Cmb, in attivo nonostante i ricavi si fermino a 499 milioni (pre-crisi erano 640 milioni). Il resto è una valle di lacrime. Nella sola Emilia Romagna, epicentro Legacoop, l’edilizia conta oltre 6 mila operai in cassa integrazione, con decine di aziende alle prese con fallimenti e tribunali. I marchi storici sono caduti come birilli. Il primo crac, che fa tremare il palazzo, nel 2014 è del gigante Cesi di Imola, saltato su una “mina” da 464,8 milioni di debiti. Il commissario impiega un anno per conteggiare il passivo reale e mettere in fila 2mila creditori (tra cui consulenti ed ex manager, rimasti a bocca asciutta, che pretendono parcelle milionarie). Decine gli azzardi finanziari della Cesi. Basti citare due centri commerciali, l’ultimo business su cui si lancia la coop prima di entrare in tribunale: Parma Retail e Soratte Outlet di Sant’Oreste (Roma) in un solo anno, il 2013, producono un buco da 308 milioni, tra perdite e debiti.
La mappa dei default percorre l’intera via Emilia. Finisce in concordato preventivo nei primi mesi 2015 la Cooperativa di Costruzioni, una delle più potenti della provincia modenese. Resta a galla Unieco, che per ripulire il bilancio digerisce in due anni un “rosso” da 145 milioni. I dissesti passano da Modena e Reggio, dove il “credo immobiliarista” è quasi intramontabile, basato su infinite contrattazioni con gli enti locali per ottenere cubature più alte nei piani di espansione edilizia. Programmi che in molti casi la crisi spazza via, mettendo in ginocchio le aziende. Non senza ripercussioni giudiziarie. Nel bolognese, ad esempio, in primavera tiene banco lo stop alla “colata” di cemento di Idice: progetto da centinaia di alloggi stralciato prima del via da un sindaco dell’hinterland, Isabella Conti del Pd. Saltato il banco, i costruttori chiedono risarcimenti milionari e sul caso nasce un’inchiesta, che indaga imprenditori e vertici bolognesi di Legacoop per presunte pressioni per non bloccare la new town.
Questo autunno segna il punto di non ritorno. Il bimestre ottobre-novembre è uno dei più neri. Arrivano in serie la liquidazione della reggiana Coopsette (fatturato 239 milioni) e della bolognese Coop costruzioni (156 milioni). A Reggio Emilia, il liquidatore, impotente di fronte a un debito da 818 milioni, chiede subito la cassa per 540 dipendenti, ma la città vive un trauma, non senza fibrillazioni nel Pd locale. A partire da soci e pensionati che alla “loro” coop hanno prestato milioni che non rivedranno più. L’eco del crac del gruppo, presieduto da Fabrizio Davoli, rimbalza in tutto il Paese, dove rischiano la paralisi decine di cantieri, come il nuovo grattacielo della Regione Piemonte (anche qui c’è un’inchiesta sull’affidamento dei lavori). Il caso che rischia di fare scuola, in negativo, è la Coop Costruzioni di Bologna, affossata da terreni e immobili invenduti. A marzo, con le casse vuote e il pressing delle banche, l’azienda, stordita dall’ennesima perdita da 58 milioni, tenta un taglio draconiano. Il salvataggio passa per 200 licenziamenti, un inedito in casa coop. Fioccano proteste e scioperi. S’invoca il dietrofront. Passa così la versione soft dei tagli: “congelati” gli esuberi, c’è la cassa integrazione. Ma i debiti (90 milioni) e il fatturato, ormai dimezzato, restano. Scatta allora il “soccorso rosso” di Legacoop, tramite la finanziaria FiBo, con un intervento da 40 milioni tra finanziamenti e anticipi sull’acquisto di immobili. Nuovi manager e si riparte. La corsa, però, dura pochi mesi.
A settembre, l’azienda è di nuovo a secco. Il piano di rilancio non tiene e Legacoop fa capire che non metterà più un euro. Lo scontro è durissimo. Alla fine l’azienda capitola e si arrende alla liquidazione. Il conto dei posti di lavoro in fumo schizza a 340, condito dai fischi degli operai al presidente Luigi Passuti nel giorno della bancarotta. Calato il sipario sui default annunciati, i costruttori sono al lavoro per uscire dal ruolo di “eterno malato” nella galassia coop. Non sono gli unici ad avere grattacapi, anche l’industria non tira più come un tempo. Senza contare le inchieste che ne hanno fiaccato l’immagine: come lo scandalo tangenti alla Cpl Concordia, dove i vertici sono stati azzerati, o il caso della coop romana 29 giugno di Salvatore Buzzi, associata al Consorzio Nazionale Servizi (Cns) e finita nella ragnatela di “Mafia Capitale” (nel processo Legacoop è stata ammessa come parte civile).
Ma c’è anche chi non soffre, perché in barba alla crisi realizza affari d’oro e sbarca all’estero, da sempre miraggio delle coop tricolore. Il timore ai piani alti, spiega chi lì dentro lavora da una vita, “è che il nostro mondo ormai viaggia a due velocità, talmente diverse da risultare quasi incomparabili”. Tra i più in salute il settore agroalimentare. Il colosso Granarolo ormai supera agilmente il miliardo di fatturato. I ricavi delle coop sociali dal 2011 a oggi sono saliti dell’11,6%, così come resistono le aziende di servizi (+2,3%) e le macchine automatiche Sacmi. Idem la grande distribuzione, in questo momento la più ricca (e potente) della lega “rossa”. Dopo decenni di litigi, le tre coop dei “carrelli” – Adriatica, Estense e Nordest – daranno vita a Coop Alleanza 3.0, big da cinque miliardi di ricavi e 22mila dipendenti. La ciliegina è Unipol, il cui controllo è blindato dalle coop, che dopo aver inglobato Fondiaria Sai è il secondo gruppo assicurativo del mercato.
Operazioni che i costruttori ammirano solo da lontano. I casi vincenti, spiegano nei corridoi, hanno un tratto in comune: “Oggi inglobano attività e mercati che non presidiavano prima della crisi”. Granarolo vende il suo “made in Italy” in Cina e metà Sudamerica. Coop Adriatica, assieme a frutta a verdura, offre assicurazioni, carburante e assistenza sanitaria. Ora toccherebbe ai costruttori. Il dubbio è come ripartire: “Il modello Cmc – spiega un suo dirigente – fatto di commesse milionarie all’estero e investimenti in tecnologia è impossibile da percorrere senza avere spalle larghe”. Tra le macerie prodotte in questi anni, nel caos di bad company e “salvatori”, qualcosa però si è mosso. Il gruppo Sicrea è una Spa, controllata al 100% dalle coop, che un po’ alla volta sta raccogliendo l’eredità dei costruttori falliti, a partire dalla Muratori Reggiolo e la CdC di Modena. Nata come newco per rilevare i “rami” sani delle ex coop, si è trasformata in una holding di controllo con un fatturato da 88 milioni (+18% nel 2014) e quest’anno, forse, raddoppia. Mossa che ha permesso anche di salvare parte dei posti di lavoro. Per adesso è un esperimento su media scala. Resta da capire se, e quanto, verrà esteso. Col paradosso che il compito di rilanciare il mattone coop, almeno in questa fase, venga affidato a una Spa.
di Enrico Miele “Repubblica.it”