(di Tiziano Rapanà) Bere farebbe male. Non è questione di tanto o poco, solo l’intenzione di voler riempire un bicchiere di vino e poi mandarlo giù sarebbe di per sé un danno. Questa è la mia personalissima sintesi del pensiero dell’eminente immunologa Antonella Viola, in un’intervista al Corriere della Sera: “Studi recenti hanno analizzato le componenti della struttura cerebrale, dimostrando che uno o due bicchieri di vino al giorno possono alterarle. Insomma, chi beve ha il cervello più piccolo”. I social network si sono infiammati per questa dichiarazione, che è figlia di un’intervista generata dal sì convinto della scienziata alla norma irlandese che equipara l’alcol alle sigarette. Sì all’etichetta che metterebbe in guardia il consumatore dai rischi provocati dall’uso e non soltanto dall’abuso di bevande alcoliche. Secondo la professoressa, “l’alcol è un cancerogeno direttamente collegato al cancro del seno, colon-retto, fegato, esofago, bocca e gola”. Non vado oltre, perché non voglio far venire un accidente a chi beve abitualmente vino. Non mi è piaciuto che, nei luoghi della socialità web, abbia trovato spazio una parola scadente legata alla sprezzante acrimonia che sfocia nella turpe offesa. La professoressa non merita insulti, ma solo rispetto. Pertanto spero giunga la mia solidarietà alla dottoressa Viola. E adesso mi permetto, da profano, di contestare simpaticamente l’idea che chi beve abbia il cervello più piccolo. Temo sia non propriamente così. Paul Verlaine, Francis Scott Fitzgerald, James Joyce, Ernest Hemingway, Edgar Allan Poe erano scrittori ciucchi. Baudelaire dedica una sezione dei suoi straordinari Fiori del male al vino. Una parte consistente della storia della letteratura è stata formata dal rapporto d’amore tra lo scrittore e Bacco. Erano geniacci che sfornavano pensieri di alto lignaggio. L’Ulisse è un capolavoro che un cervello piccolo non avrebbe mai potuto partorire. Bere fa male, ma non obnubila del tutto la capacità di creare prodigi dell’arte.