(di Mauro della Porta Raffo) Ricordo che quando da ragazzino avevo la febbre alta per via dell’acetone, nel del tutto finto o comunque accentuato delirio che allarmava grandemente mia Madre, scandendone il nome e il cognome che benissimo si prestavano, con enfasi, citavo Federico Martin Bahamontes, mitico scalatore spagnolo sulle due ruote.
Erano i tempi quelli dei Cinquanta nei quali il ciclismo e la boxe – ai quali personalmente aggiungevo il tennis e meno ardentemente l’atletica leggera – largamente prevalevano sul calcio.
Quando, il giorno dopo la fine del terzo Giro d’Italia vinto da Fiorenzo Magni (era il 1955), la Gazzetta dello Sport usciva con un grande titolo e un articolone in prima pagina a celebrare l’evento e in fondo alla stessa, molto meno evidenti, in assoluto secondo piano, le notizie concernenti il volgare campionato di serie A.
Magnifici tempi!
Muhammad Ali, già Cassius Clay.
È l’8 marzo 1971 e al Madison Square Garden di New York si affrontano per il titolo mondiale dei pesi massimi due tra i pugili a quel momento e non solo da tutti considerati tra i più forti mai espressi nella categoria: Muhammad Ali (già Cassius Clay e medaglia d’oro olimpica a Roma tra i medio massimi) e Joe Frazier.
Per quanto nella memoria della gran parte delle persone ed altresì degli appassionati il carisma di Ali nonché la sua storia di ribelle e di Musulmano convertito lo collochino quale indubbio detentore della cintura nonché della corona, così per le federazioni che governano ufficialmente la boxe non è.
Il riconosciuto campione è Frazier, risultato infine assolutamente il più forte tra quanti, squalificato Ali sostanzialmente per il suo rifiuto di combattere in Vietnam, si sono contesi sul ring la successione.
Ma c’è un ma.
Una regola non scritta del pugilato prevede la sequela dei cosiddetti, tra virgolette, ‘campioni lineari’.
In poche parole solo chi sconfigga il legittimo detentore può esserne considerato veramente il successore e nel caso specifico nessuno ha finora battuto Ali che pertanto, benché non più in carica per, diciamo così, questioni burocratiche, ‘lineare’ rimane.
Questo nel mentre per converso Frazier ancora ‘lineare’ non è.
Ecco pertanto che nella circostanza l’ex Cassius Clay, per quanto sia in cerca della corona, mette invero in gioco questa sua specifica qualifica.
È quindi solo dopo l’assegnazione unanime a Frazier della vittoria quell’8 di marzo che i due titoli, quello ufficiale e quello appunto, lo ripeto, ‘lineare’ si ritravano nelle mani, nei pugni, dello stesso unico campione.
Arthur Ashe.
Ogni quando mi capiti di rivedere in azione con la mente i mille e mille tennisti che ho potuto realmente considerare impegnati ai massimi livelli in campo internazionale (a parte la graduatoria concernente la ‘bravura’ dal mio punto di vista stimata che mi conduce – continuamente cambiando idea ma inserendo immancabilmente tra i ‘finalisti’ tutti e tre i davvero ‘grandi’ degli ultimi anni Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic – a concludere ogni volta differentemente), se mi soffermo sulla qualità delle persone, dei giocatori in quanto individui, uomini insomma, al primo posto si colloca invariabilmente Arthur Ashe.
Intelligentissimo in campo (nel 1975 – datati i due Slam in singolo in precedenza vinti – finalista ‘vecchietto’ a Wimbledon, scommisi forte su di lui, a buona quota visto che affrontava un Jimmy Connors a quei momenti dai più ritenuto pressoché ingiocabile, sapendo che non si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione e avrebbe messo in difficoltà il rivale usando la tattica giusta, come accadde), Ashe è stato un difficilmente imitabile modello nel comportamento fuori dal terreno di gioco per le iniziative prese e portate avanti con vigore e appena possibile a favore del volontariato e per i bisognosi
Nero, si batté per la propria razza – arrivando a chiedere l’esclusione della squadra tennistica sudafricana dal circuito professionale causa Apartheid – con talmente tanto acume e comportamenti consoni da ottenere molto con il rispetto di tutti.
Infiniti i riconoscimenti (sarà anche Capitano della squadra dì Coppa Davis), tra i quali l’inserimento nel 1985 nella Tennis Hall of Fame e la presidenziale Medaglia d’Oro della Libertà, purtroppo (e fra un attimo il perché) postuma.
Certamente, a collocarlo in alto altresì l’impegno ulteriore nel combattere la diffusione dell’AIDS nel mondo.
Malattia allora quasi sempre mortale che aveva malauguratamente contratto durante una trasfusione di sangue subita nel corso di una delle operazioni al cuore alle quali era stato sottoposto dopo un primo e secondo grave infarto.
Fondata quasi in punto di morte una nuova Associazione il cui fine era di aiutare le persone non debitamente assistite quanto alle assicurazioni in campo medico, se ne andò il 6 febbraio del 1993, veramente compianto.
A lui – vincitore nel 1968 della prima edizione Open della competizione – è dedicato il campo centrale di Flushing Meadows dove si gioca il Campionato Americano Internazionale, ultima prova annuale del ‘Grande Slam’.
Da leggere l’autobiografia, ‘Giorni di Grazia’, nella quale ripercorre con gratitudine per i doni ricevuti una storia di vita per moltissimi versi esemplare.
Iolanda Balas
Probabilmente, la più grande atleta di tutti i tempi è stata la saltatrice in alto romena Iolanda Balas
capace di dominare centocinquanta gare internazionali di seguito tra il 1957 e il 1967, di stabilire superandosi quattordici volte il record mondiale nella specialità, di vincere due Olimpiadi, due Europei (i Mondiali non si effettuavano allora) e due Universiadi.
Usava ovviamente il ‘ventrale’ e fu solo con l’avvento del Fosbury che la superarono.
La seguivo devotamente.
Domenico Bernasconi.
Gli ex pugili, anche quelli non sfigurati in viso dai colpi ricevuti, si distinguono per la particolare postura delle spalle.
Abituati a combattere inclinati in avanti e come racchiusi con le braccia a difesa del volto e del tronco, mantengono nel tempo l’atteggiamento di chi possa da un momento all’altro uscire in jab, se va bene, o, se vicino, mollarti un uppercut.
Ecco, Domenico Bernasconi, per tutti ‘Pasqualino’, anziano, serviva a tavola al ‘Passatore’, giù al Lago di Varese, riuscendo a comunicare che, anche se chino in avanti per trasferire la carne o il pesce dal piatto di portata a quello del cliente, lui era pronto.
Correva la primavera del 1973 e giusto quarant’anni avanti per un buon quarto d’ora era stato il primo boxeur italiano a conquistare un titolo mondiale.
19 marzo 1933, san Giuseppe.
A Milano affrontava, cintura in palio, per la terza volta, il panamense Al Brown, mitico campione dei gallo.
Questi sapeva che il problema con Pasqualino consisteva nel superare i primi round e che dopo il Nostro si sarebbe ammorbidito.
Per tenerlo a bada, mise in scena un buon numero di scorrettezze accumulando richiami ufficiali a man bassa, fin quando l’arbitro, stufo, non lo squalificò.
La situazione non fu ben compresa né dai secondi di Pasqualino né dagli spettatori.
Pare che un gerarca fascista presente sia poi intervenuto sostenendo che un italiano non poteva vincere così.
Fatto è che un quarto d’ora dopo, il match riprese e che ‘Panama’ Brown prevalse nettamente ai punti.
Era, come detto, il 19 marzo 1933 e Primo Carnera avrebbe sconfitto Jack Sharkey per la corona dei massimi solo il successivo 29 giugno.
Cercai di parlare di quei lontani accadimenti col cameriere del ‘Passatore’ ma non se ne diede per inteso.
Chissà se e quanto ancora quella storia gli bruciava dentro?
Wayne Bethea.
Sapete il gas, vero?
È silenzioso.
Esce zitto zitto.
È così che ti frega.
Beh, una volta, ai tempi belli – quando tra le dodici corde regnava la nobile arte e non ci si colpiva, orrore, con tutto, piedi compresi – giravano pugili che era meglio evitare per la particolare capacità che avevano e potevano mettere in campo di prenderle, subire, salvo all’improvviso – non che gli riuscisse sempre, ma insomma – uscirsene con un colpo solo, secco, normalmente al mento, risolutivo.
‘Becco a gas’, nella parlata da ring, la loro definizione.
E c’era naturalmente il sistema per neutralizzarli.
Dandogli, a garanzia che tenessero a freno il sommommolo, un degno, robusto, ‘fuori borsa’ sotto banco.
E ricordo che a un nostro supposto campione già medaglia d’oro olimpica con un record da professionista pieno di knock out capitò di incontrare un nero americano – sulla carta, un classico ‘routinier’, uno di quei pugili di vecchia mezza fama in declino che di quadrato in quadrato cercano di tirar su gli ultimi quattrini – il cui manager alla vigilia del match si presentò agli organizzatori dicendo che potevano garantirsi una bella nuova vittoria senza sorprese uscendo di altro valsente.
Altrimenti?
Chissà?
Non ne vollero sapere i dessi, certi come erano del valore del loro ‘poulain’.
Pronti via, la sera dopo.
Nel palazzetto stracolmo, tre riprese a menarlo, lo yankee.
Alla quarta, mentre tutti pensavano ‘adesso il Nostro lo stende’, un lampo ‘da ciao ciao’ del nero giusto alla punta della bazza del nostro e buona notte.
È che al gas non si pensa, al limite perfino se avvertiti.
Perché non fa baccano uscendo dal becco.
Ma c’è ed è pronto a fregarti.
Eccome!
Alfredo Binda.
Basta che un primo, tiepido raggio di sole faccia capolino tra le nuvole perché le strade del Varesotto (che, contrariamente a quanto viene detto e scritto, è solo la parte alta della provincia varesina, quella che va dal capoluogo alla Svizzera e alla sponda ‘magra’del Maggiore) vengano invase da un numero incredibile di ciclisti, amatori, dilettanti o professionisti che siano.
Così è ancora e da sempre, tanto che proprio qui sono nati molti tra i più grandi dello sport delle due ruote, a partire da Luigi Ganna, che vinse il primo Giro d’Italia nel lontanissimo 1909, per arrivare a Stefano Garzelli, capace di affermarsi nell’ultimo Giro del Novecento, e a Ivan Basso, due volte primo in anni più recenti.
Naturalmente, il nostro ‘campionissimo’ resta Alfredo Binda del quale molto si è tornato a parlare anni orsono per via del fatto che Mario Cipollini, nel 2003, è, finalmente, (dopo settant’anni!) riuscito a superare il suo record di vittorie di tappa complessivamente conseguite (quarantuno) nella corsa rosa.
Per il vero, l’impresa di ‘Supermario’ nemmeno si avvicina a quella a sua tempo compiuta dal cittigliese che, per lo più, vinceva in solitario (e non, comunque, in volate guidate e decise da compagni di squadra abilissimi nel preparare il terreno al finisseur il cui sforzo, alla fine, dura si e no due/trecento metri), infliggendo ai rivali minuti e minuti di distacco.
Ho conosciuto Binda nel 1951 – me lo presentò mio padre, tra gli organizzatori della manifestazione – allorché, Commissario Tecnico della Nazionale azzurra ai mondiali su strada che si svolgevano proprio a Varese, non riuscì ad evitare che i troppi galli nel pollaio (la squadra poteva teoricamente contare addirittura su Fausto Coppi, Gino Bartali, Fiorenzo Magni e Toni Bevilacqua e gli ultimi due citati si classificarono nell’ordine secondo e terzo) battibeccassero – al punto che Fausto non partecipò – tra loro, tanto che la vittoria (ero sul traguardo e ricordo bene la volata) andò al nasuto e furbo svizzero Ferdy Kubler, peraltro un vero campione.
Avevo sette anni e la delusione fu grandissima anche perché pensavo che Binda, come CT, avesse la bacchetta magica.
Anni dopo, quasi giovanotto, scoprii per caso che Binda frequentava in città il parrucchiere di via Volta, quello sotto i portici, vicino alla centralissima piazza Monte Grappa.
Desideroso di incontrarlo e non conoscendo, naturalmente, i suoi orari, pensai fosse opportuno bivaccare, quasi all’agguato, in quel negozio il più a lungo possibile.
Fu in tal modo che presi l’abitudine (che ho conservato fino alla maledetta pandemia) di farmi fare la barba e di leggere e commentare dal barbiere, con gli altri clienti e i lavoranti, la Gazzetta dello Sport e la Prealpina, il quotidiano della nostra Varese.
In soggezione – per quanto fosse persona, nel suo riserbo, socievole – quando alla fine Binda arrivava, lo stavo a guardare e a sentire senza proferire parola.
Così si resta, ammirati, di fronte a un monumento!
Nato nella amatissima Cittiglio, alla quale tornerà sempre con gioia, ai piedi della mitica arrampicata del Cuvignone (che, con il Sasso di Gavirate e il Brinzio, infinitamente ripercorsi, fecero di lui un fior di scalatore) sulla strada che congiunge Varese a Laveno e al lago Maggiore, l’11 agosto del 1902, Alfredo Binda rimane, senza tema di smentita, il ‘vero’ Campionissimo delle due ruote.
A distanza di un’infinità di giorni dalle storiche imprese che seppe compiere, infatti, molti suoi record, alcuni dei quali assolutamente particolari, sono tuttora imbattuti (al massimo, eguagliati) ed altri sono risultati decisamente insuperabili.
E’ stato tre volte campione del mondo tra i professionisti, vincendo l’edizione inaugurale della corsa iridata nel 1927 ad Adenau e ripetendosi a Liegi nel 1930 e a Roma nel 1932, e, nei tanti decenni da allora trascorsi, solo Rick Van Steenbergen, Eddy Merckx, il velocista spagnolo Oscar Freire Gomez e Peter Sagan sono riusciti ad indossare come lui in altrettante occasioni l’ambitissima maglia.
Per primo in ordine di tempo, ha dominato cinque Giri d’Italia: nel 1925 (preso il comando della classifica generale al termine della frazione Roma/Napoli avendo staccato Girardengo, subito dopo l’arrivo, era talmente fresco che, per festeggiare, si fece prestare da un musicante una tromba con la quale suonò un’aria imparata da ragazzo in Francia: ‘Retraite aux flambeaux’), nel 1927, nel 1928, nel 1929, nel 1933 e il suo exploit è stato pareggiato esclusivamente da due veri ‘mostri sacri’ quali Fausto Coppi ed Eddy Merckx.
Ha vinto in un’unica edizione del Giro ben dodici tappe (sulle quindici in programma!).
Correva il 1927 e si può tranquillamente scommettere che nessuno potrà in futuro, come è accaduto nel passato, nemmeno avvicinarsi a un tale record.
Sempre nel 1927, si impose sulle strade della corsa ‘rosa’in otto frazioni consecutive.
È risultato fra i pochissimi capaci di guidare la classifica generale della grande corsa italiana dalla prima all’ultima giornata.
Ancora al Giro, nel 1933, ha vinto la prima tappa a cronometro mai disputata e si è aggiudicato il primo Gran Premio della Montagna.
Gli appartiene altresì un primato, per così dire, ‘alimentare’: nel 1926, in occasione del vittorioso Giro di Lombardia nel quale ebbe modo di umiliare (lo distaccò di circa mezz’ora) il grande Bottecchia, vincitore di due Tour, ingoiò la bellezza di ventotto uova, due, cotte, in attesa del via e ventisei, crude, durante la durissima corsa!
Di più, come tutti i cultori delle due ruote sanno, è il solo campione che fu pagato per non correre!!
Si era nel 1930 e Binda, reduce da tre devastanti affermazioni consecutive nella competizione organizzata dalla Gazzetta dello Sport, si vide convocare a Milano dal direttore dell’epoca della rosea Emilio Colombo.
Una sua partecipazione avrebbe tolto ogni interesse alla gara vista la schiacciante superiorità dimostrata.
Gli offrirono ventiduemilacinquecento lire, una cifra pari al mancato guadagno previsto per la vittoria finale.
Alfredo accettò assai malvolentieri: ‘Sono un professionista’, aveva detto ai suoi dirigenti che, avvertiti da Colombo delle intenzioni degli organizzatori, cercavano di convincerlo ad accogliere la richiesta, ‘e quindi devo correre’.
(Accettò, dicevo, ma volle gli fossero liquidati anche i compensi spettanti per le vittorie di tappa – raggiunse un accordo forfettario in merito – che avrebbe senza dubbio collezionato).
Sentiva, forse, che quella esclusione gli avrebbe impedito di vincere il Giro d’Italia non cinque ma sei volte e di issarsi in un empireo nel quale nessuno mai sarebbe stato nemmeno in grado di raggiungerlo.
Benchè avesse iniziato a correre e a vincere in Francia, nei dintorni di Nizza, laddove era emigrato per lavorare come stuccatore nella impresa edile dello zio, non ebbe mai feeling col Tour al quale partecipò una sola volta ritirandosi.
Gli occorse però di rifarsi alla Grande Boucle con gli interessi nelle vesti, che gli andavano a pennello, di Commissario Tecnico della Nazionale italiana (non si correva per marche) visto che sotto la sua oculatissima guida (fece in modo che i due acerrimi ‘nemici’ Coppi e Bartali e il cosiddetto ‘terzo uomo’ Fiorenzo Magni andassero d’amore e d’accordo) gli azzurri colà si affermarono più volte.
Ai mondiali, dapprima, nel 1953 a Lugano, il successo ‘da lontano’ ancora di Coppi – al quale passò idealmente dall’ammiraglia il testimone considerando che il precedente successo iridato italiano era quello conquistato a Roma nel 1932 da lui stesso – quindi, la bella impresa di Ercole Baldini nel 1958.
Maestro di ciclismo, ma non solo, resta nella memoria anche per la sua famosissima espressione dialettale: ‘Ghe voren i garun’ alla quale, però, nelle numerose interviste e nel suo libro intitolato ‘Le mie vittorie e le mie sconfitte’ seppe aggiungere:
‘Con le sole gambe non si diventa qualcuno.
Ci vuole la testa!’
Di lui, nel modo che segue, ebbe a scrivere Piero Chiara illuminandone il carattere:
‘Mi impressionavano la sua leggendaria calma, la sua serenità, la sua tranquillità…
Binda era un antidivo, una persona riservata che faceva il suo lavoro con estrema serietà, senza ostentazione.
La folla lo riteneva un freddo.
In realtà era una persona coscienziosa e scrupolosa alla quale piaceva lavorare in silenzio.
Fossero così molti Italiani’
Quanto al ‘coccodrillo’
Ultra ottantenne – certo del fatto che la Gazzetta dello Sport avesse pronto il ‘coccodrillo’ che lo riguardava – Binda si presentò un giorno nella redazione della ‘rosea’ chiedendo di poterlo leggere.
Fu accontentato.
Trovandolo soddisfacente, ringraziò, e se ne tornò a Cittiglio.
Quanto al matrimonio.
Abbastanza in là con gli anni – con tutto il daffare non ne aveva avuto mai il tempo – Binda cominciò a guardarsi d’attorno.
Fu così che intervenuto ad una festa danzante, si avventurò ad invitare una giovane.
Ballando, compitamente ma arditamente, chiese:
‘Signorina, lei sposerebbe uno come me?’
Un momento di sospensione e la ragazza:
‘Uno come lei no.
Lei certamente sì!’
Un matrimonio tra i più felici, il loro.
Competenza.
Arrivato da poco a Varese dalla Sicilia, Luca trovò impiego come parrucchiere nel negozio in pieno centro città di Sandrino.
Occorse un giorno di lì a non molto che, impegnato in uno shampoo, parlando col collega Alfio, affermasse qualcosa di discutibile in tema di ciclismo.
Il cliente il cui cuoio capelluto Luca stava a quell’atto ben lavando, ancora a testa in giù, intervenne in tema con quella particolare voce che promana da chi parla dal basso.
Stupito per la competenza che il desso dimostrava, Luca gli fece i complimenti per sentirsi rispondere:
‘Grazie.
Ma guardi che io sono Alfredo Binda!’
Giovanni Borghi.
Lungimirante quanto pochissimi altri e capace di coniugare al meglio la passione per lo sport con gli affari, Giovanni Borghi è ancor oggi studiato nelle Business Schools di tutto il mondo quale ‘inventore’ della sponsorizzazione appunto sportiva.
Già prima della metà degli anni Cinquanta del trascorso Novecento, infatti, aveva intuito che, con l’affermarsi della televisione e con il proliferare delle riprese dirette dei principali e più seguiti avvenimenti agonistici, la battaglia per il dominio del mercato – in assenza di altri tipi di pubblicità tv quali gli spot, all’epoca inimmaginabili – nel suo come negli altri rami dell’industria, sarebbe stata immancabilmente vinta da chi fosse stato maggiormente presente sul piccolo schermo proprio in quelle occasioni.
Amava il calcio e divenne Presidente del Varese che portò rapidamente in serie A anche se mai gli riuscì di aggiungere sulle maglie biancorosse la scritta Ignis.
Gli piaceva il basket e creò quasi dal nulla la mitica e invincibile Ignis Varese che spopolò per anni ed anni sui parquet di tutta Europa, e non solo, raggiungendo traguardi impensabili e record sicuramente imbattibili (si pensi solo al fatto che il team di Borghi è arrivato alla finale di Coppa dei Campioni ben dieci volte di fila e che nessuna squadra, in nessun altro sport può vantare simili risultati).
Adorava il pugilato, e quasi tutti i migliori boxeur italiani, in pochissimo tempo, entrarono a far parte della sua ‘scuderia’.
Sapeva quanto gli italiani amassero il ciclismo e convinse molti dei grandi assi del mondo delle due ruote ad entrare a far parte della Ignis.
Per decenni, non ci fu praticamente avvenimento sportivo di un qualche rilievo che non lo vedesse protagonista, capace com’era di occupare con la sua larga e simpatica faccia, accompagnata dall’inconfondibile vocione, ogni volta che un ‘suo’ uomo o una ‘sua’ squadra si faceva onore, lo schermo in bianco e nero.
Per decenni, Varese e provincia dovettero a lui – arrivato a Comerio dalla natia Milano con padre e fratelli nel 1943 a guerra mondiale ancora in corso, alla sua intraprendenza, ai grandi successi nell’industria che seppe conseguire (i frigoriferi Ignis erano conosciuti e venduti dovunque) – notorietà a livello internazionale e rispetto.
Infiniti gli aneddoti, veri e inventati, che lo vedevano protagonista.
Probabilmente, il più famoso è quello relativo al colloquio che ebbe con i dirigenti de L’Equipe, il celeberrimo quotidiano sportivo parigino che organizza il Tour de France.
Intendeva convincerli ad abbandonare il tradizionale assetto della ‘Grande Boucle’alla quale, da quasi sempre, erano ammesse solo le squadre cosiddette ‘nazionali’: la Francia, la Spagna, l’Italia, e così via oltre a quelle ‘regionali’ composte però da ‘galletti’.
Vuole, il ‘cumenda’, che allo start si possa schierare anche la Ignis visto che il mercato francese gli interessa.
Perché ciò avvenga, la corsa va aperta alla squadre di ‘marca’.
Gli dicono di no e, allora, infastidito, rivolto ai suoi accompagnatori, in dialetto, chiede:
‘S’el custa L’Equipe?’
Non si tratta di una battuta.
È davvero disposto a comprare il giornale e poi a fare come dice lui!
Il tempo, come sempre, gli darà ragione e il Tour, poco dopo, aprirà alle squadre di marca che ancora oggi sono le protagoniste.
A quest’uomo, rude all’aspetto ma generoso, al quale tanto deve, Varese ha dedicato un monumento posizionato nello spazio antistante lo stadio Franco Ossola di Masnago.
Inaugurato l’11 novembre del 2001, è opera del nostro Vittore Frattini.
Alla cerimonia ha fatto seguito una, per qualche verso, malinconica commemorazione, giustamente ospitata dal vicino palazzetto dello sport tante volte teatro delle gesta della mitica Pallacanestro Ignis.
Centinaia gli intervenuti e moltissimi i campioni dello sport.
Tutti, al di là di ogni retorica, ne hanno ricordato l’umanità.
Un anno dopo, alla presentazione del bel libro di Gianni Spartà ‘Mister Ignis’, che, ovviamente, lo vede protagonista, mi è capitato di ascoltare le parole che volle pronunciare Arnaldo Pambianco – assai significative perché, non me ne voglia l’antica maglia rosa, uscite dalla bocca di un onesto pedalatore e non di un campionissimo – capace di sconfiggere nientemeno che Jacques Anquetil nel Giro d’Italia del 1961 indossando la casacca di una delle squadre ciclistiche del patron:
‘È stato un padre per me.
Mi ha dato fiducia.
Dopo i miei genitori, sarà la prima persona che saluterò in Paradiso quando il momento verrà!’
Enrico Bovone.
Ho conosciuto Enrico nei suoi anni varesini.
Non che mi sia riuscito di essergli amico, no.
Se ne stava per conto suo.
Di quando in quando, ci trovavamo in treno.
Ferrovie Nord, verso Milano.
Frequentava ingegneria (io, giurisprudenza), se ben ricordo.
All’epoca, giovane davvero, non gli riusciva ancora – se mai gli riuscirà dopo – di sopportare l’attenzione che i suoi due metri e dieci suscitavano e soprattutto le frasi cretine che gli venivano rivolte.
Ricordo in particolare la fastidiosissima, guardando alla smorfia che faceva, domanda
‘Che aria tira lassù?’
In uno sport, la pallacanestro, nel quale più si era lunghi e più si doveva essere bravi e possibilmente decisivi, lui, il più lungo, non ebbe mai a sfondare.
Una certo naturale lentezza.
Ma anche una sottesa insofferenza dettata da una qualche riflessione interiore che lo aveva portato a concludere che non gli andasse di essere considerato solo per l’altezza, quasi fosse un fenomeno da baraccone.
E deve avere sempre patito grandemente se è vero che a quarantasei anni si è tolto la vita.
Appresa la nefasta notizia, come invariabilmente m’accade in questi casi, mi sono chiesto se non fossi in qualche modo – sia pure in piccolissimo grado – responsabile di quel definitivo gesto.
Chissà, ho pensato, come sarebbe andata la sua vita se non l’avessi trascurato?
Se avessi trasformato quel nostro rapporto così da convertirlo in amicizia?
Sono sempre, almeno in parte, colpevole di quanto accade a chi comunque conosca, lo so!
Sauro Bufalini.
Poi dici dei cognomi.
Bufalini, il suo.
Arrivò a Varese ventenne,
Da Pisa.
Lo guardavi e sapevi che non avrebbe potuto chiamarsi altrimenti.
Alto, lo davi per scontato.
Giocava a pallacanestro.
Così grosso però, no.
Come e più di un bufalo.
E in famiglia dovevano essere sicuri del fatto loro per averlo battezzato Sauro.
Grezzo, a dir poco.
Sotto canestro, ai rimbalzi, menava di brutto.
Appena possibile, nel mentre, dalla sedia che nella palestra di viale XXV Aprile dove si giocava avevo opportunamente collocato, gli gridavo ‘Sangue’…
Per ricevere in cambio un ok con le dita e vederlo subito dopo fisicamente imperare…
E non ci stava, nella Seicento scassata con la quale si muoveva…
Così, tolto di mezzo il normale sedile, guidava da quello posteriore…
Incredibile a dirsi, col trascorrere di non poi molti anni, tradendomi, disamorandomi, quanto al gioco, si trasformò al punto d’essere in campo tra i più saggi…
Coincise quella trasformazione con il mio distacco dal tifo per quel mondo…
Da un basket che m’apparve vie più una estenuata replica di azioni sempre uguali…
Senza ‘sangue’!
Claudio Chiappucci.
Ne ricordavo tre.
Fine anni Cinquanta e inizio Sessanta.
Al Tour de France, certo.
Vito Favero.
Graziano Battistini.
Guido Carlesi.
Secondi alla ‘Grande Boucle’.
E nessuno dei tre era stato in grado di ripetersi.
E non solo in Francia.
Così, nel luglio del 1990, guardai all’impresa in terra gallica di Claudio Chiappucci con un certo distacco.
Magnifico: aveva indovinato la fuga giusta. Bellissimo: aveva resistito al ritorno dei big e indossato a lungo la maglia gialla.
Ma, non aveva forse infine perso, catturando quello che mi appariva un secondo posto dovuto – come accaduto ai lontani e citati predecessori – a fortunate circostanze più che a particolari capacità?
Ebbene, se c’è mai stato un corridore sulle due ruote capace di stupirmi e di catturarmi questi è Claudio.
Scomparire?
Tornare nell’anonimato?
Non gli passò per la testa nemmeno un secondo! Negli anni a seguire, per quanto primo in non molte circostanze, fu lui il faro.
Giri d’Italia.
Tour.
Classiche.
Mondiali…
Era Claudio, giustamente ‘El Diablo’, che accendeva sempre la corsa.
Era lui ad occupare la scena.
Era ‘El diablo’ che mi prendeva il cuore!
Ed ero sul traguardo il 19 agosto 1994 allorquando, da varesino, vinse la ‘nostra’ Tre Valli.
Certo, di lì a non molto sarebbe iniziato il declino. Come logico.
Come non avrei peraltro mai voluto.
Ed è facendo mentalmente un riepilogo della carriera di questo vero campione che maledico il cronometro.
La ‘montre’, come dicono oltralpe, non gli ha mai voluto bene.
Ed è stato il cronometro a fermarlo, già e soprattutto in quel fatidico 1990.
Ma si può avere tutto dalla vita?
Jimbo (Connors) e così sia
6/1 6/1 4/1 40 a 0.
Wimbledon, 1987, ottavi di finale.
Lo svedese invero di seconda fascia Mikael Pernfors sta surclassando il trentacinquenne Jimmy Connors.
È la loro terza sfida.
Perse le prime due, di tutta evidenza ha capito come deve giocarsela per batterlo.
Deluso e non volendo assistere alla oramai certa debacle del ‘mio’ Jimbo, spengo il televisore.
Passa parecchio tempo e, comunque annoiato, lo riaccendo.
Chissà chi sta giocando adesso?
Connors, chi altri mai?
Ha portato il match al quinto ed è in netto vantaggio.
Eccomi subito riappacificato con il mondo che poco prima mi stava, tutto, davvero in uggia.
Vince 1/6 1/6 7/5 6/4 6/2 quel prediletto dal Dio deputato allo sport dei gesti bianchi.
Vince in un inarrestabile crescendo.
Lo sapevo, ma l’andamento dell’incontro me lo aveva fatto dimenticare: una partita di tennis è al dunque solo quando i due in campo si stringono la mano sopra la rete.
Vale – Jimbo lo sa e si comporta di conseguenza – se possibile di più in questo straordinario ambito l’immortale aforisma di Yogi Berra: “Non è finita finché non è finita!”
Mario D’Agata.
L’andamento del match richiedeva un break?
Bene, ordinandolo a voce come da regolamento, l’arbitro poggiava il palmo della mano sulla spalla di Mario D’Agata che, immediatamente, interrompendo l’azione, al comando dava seguito.
Secondo Italiano capace di arrivare al titolo mondiale sul quadrato dopo il monumentale peso massimo Primo Carnera, era l’aretino di nascita (ma a quei tempi, e cioè a metà dei Cinquanta, varesino d’adozione perché assistito dalla mitica ‘Colonia Ignis’ creata da Giovanni Borghi per sponsorizzare praticamente tutte le attività sportive), di ben diversa fattura.
Fisica, per cominciare, dato che, gallo qual’era, pesava una cinquantina di chili meno della ‘montagna umana’.
Certamente, psicologica, in quanto (ed ovviamente per questo il referee se necessario lo toccava), come detto, sordomuto.
Rarità, unico boxeur così handicappato di cotanta capacità e bravura nella storia intera della boxe, Mario era nella vita di tutti i giorni un tipo alla mano, allegro infine.
Aveva l’abitudine, scoprii, di andare al cinema in compagnia di Guido Mazzinghi, fratello maggiore di quel grande battant che è stato il ciclonico e poi carissimo amico mio Sandro.
Sedevano i due all’Impero ogni giovedì pomeriggio nella fila di poltroncine di mezzo, a gambe pertanto, volendo, distese.
Misi in moto un piccolo commercio di suoi autografi allora.
Aspettavo l’intervallo per avvicinarlo e sorridendo porgergli un foglietto e una biro che, compiacente, usava.
In questo momento – ho lampi di precisissima memoria – lo colgo che segue sullo schermo l’a volte glaciale biondino Richard Widmarck impegnato (mica male) da Donna Reed in ‘La frustata’.
Quali le sue particolari sensazioni da spettatore allora?
Chissà?
Juan Martin Del Potro
Vinta che sia la partita, una composta fierezza.
L’abbraccio gentile e virile al rivale sconfitto.
Quando richiesto dalle circostanze, il conforto.
Poi, il segno della Croce.
Dopo, le lunghe braccia spalancate e la faccia levata al Cielo.
Gli occhi chiusi.
Felicità serena.
Dignità.
Misura.
‘Gigante buono’ quanti nessun altro nel mondo dei ‘gesti bianchi’.
Infinite volte ferito.
Operato ai polsi.
Risorto.
Juan Martin Del Potro gioca per dare gioia.
Naturalmente.
Ed è amato per questo.
L’atmosfera.
Ecco, nelle ‘sue’ giornate, magicamente, tutti sentono, sanno che vincerà.
Il pubblico sulle tribune.
Gli spettatori a casa.
L’avversario.
Per quanto forte questi possa essere.
E il pubblico, gli spettatori, perfino il contendente, in diversa misura, partecipi, sono felici.
E ieri, nel giorno di questo 2017 dedicato a Giovanni da Capestrano, a Stoccolma, Juan Martin mi ha regalato la stessa calda emozione che provo ascoltando Claudio Arrau nelle prime note al piano del ‘Secondo Movimento’ del ‘Concerto Imperatore’, che mi danno i quadri di Edward Hopper, che mi comunicano i finali dei film di Claude Sautet…
Il cuore.
Il cuore.
Roger Federer.
Che tempi!
È per il tennis quello che corre (2022) anno di addii ai quali, per quanto inesorabilmente dovuti, nessuno voleva perfino pensare.
Pochi giorni fa, a New York, ad opera di Serena Williams.
Oggi, via web, di Roger Federer.
Lasciano i due situazioni dell’Arte caotiche.
Non una vera erede l’americana.
In fase di declino fisico Rafael Nadal e costretto molto spesso dai regolamenti all’esclusione Novak Djokovic, nel mentre, la generazione tra i maschi che si riteneva potesse succedere loro gravemente latita.
L’addio agonistico del basilese fornisce l’occasione di alcune assolutamente necessarie ancorché purtroppo (questo concede lo spazio di un articolo) sintetiche istruzioni introduttive e, dopo un breve testo specifico che lo illustra, di una serie di annotazioni critiche conclusive.
Orbene:
Glossario:
per in non addetti ai quali, qui – trattandosi di un personaggio a tutto tondo famoso e seguito per ogni dove – occorre consentire, nel mentre se ne parla per fortuna anche con riferimenti specifici sportivamente riferiti, la migliore possibile comprensione.
Le massime competizioni tennistiche mondiali che danno prestigio e denaro e conferiscono pesanti punti (duemila) per la classifica internazionale, come oggi non solo da oggi denominate, sono i quattro cosiddetti Slam (nell’ordine di calendario, Australian Open a Melbourne, Roland Garros a Parigi, Wimbledon a Londra e Flushing Meadows a New York).
Si articolano, calcando superfici diverse (cemento, terra, erba, sintetico), nei singoli e nei doppi maschili e femminili senza trascurare il misto.
Vincerle l’una dopo l’altra nello stesso anno (nello stesso anno, non altrimenti) significa mettere a segno il Grande Slam, impresa ardua finora riuscita a due uomini (Don Budge nel 1938 e Rod Laver nel 1962, da dilettante, e nel 1969, da professionista, categoria ammessa nel precedente 1968) e tre donne (Maureen Connolly nel 1953, Margaret Smith Court nel 1970 e Steffi Graff nel 1988).
Millecinquecento punti sono poi assegnati ai vincitori (singoli e doppi, misto escluso) e a scendere ai finalisti, semifinalisti e via dicendo delle ATP Finals e delle WTA 1000 – le sigle sono delle associazioni internazionali che governano maschi e femmine – riservate a quanti si collocano nelle specialità a fine stagione ai primi otto posti delle graduatorie.
Mille – e per questo gergalmente così definiti come, ancora a scendere, i cosiddetti. sempre per via dei punti in palio, Cinquecento, i Duecentocinquanta e i Centoventicinque – i nove Campionati di portata appena ‘inferiore’, organizzati, in concomitanza tra i sessi o meno, in giro per tutto il mondo, che ovviamente mille ne conferiscono.
La posizione nelle classifiche consente la partecipazione ai tornei: più è alta più è permesso ai giocatori di iscriversi.
Posti sono comunque riservati agli invitati dagli organizzatori (Wild Card) e a quanti si affermino nelle qualificazioni.
È in uso per stabilire gli accoppiamenti ed impedire che il caso metta di fronte subito o troppo presto i più forti il sistema delle Teste di serie naturalmente basato sulle posizioni in atto nelle citatissime graduatorie.
E quindi;
Detto che
la prima vittoria di Roger contro un giocatore inserito nelle classifiche tra i cento migliori è datata 30 settembre 1998…
che il primo torneo vinto (a Milano) si concluse il 4 febbraio 2001…
che la vittoria rivelatrice contro Pete Sampras a Wimbledon è del 2 luglio 2001…
che vince il suo primo Slam (ovviamente sull’erba londinese) il 6 luglio 2003…
che arriva al vertice della classifica mondiale il 2 febbraio 2004…
che riuscirà a catturare il Roland Garros completando il Career Grand Slam (i quattro ma in anni diversi) sulla per lui davvero ostica terra parigina il 7 giugno 2009…
che contribuisce alla conquista elvetica della Coppa Davis 2014 la cui giornata conclusiva si svolge il 23 novembre…
che la vittoria numero mille è datata 11 gennaio 2015…
che il suo ventesimo titolo Slam (è il primo a toccare questo numero) è australiano e si concretizza il 28 gennaio 2018…
che il centesimo torneo è conquistato il 2 marzo 2019 a Dubai…
che l’ultima sconfitta (incredibilmente a Wimbledon, nei quarti) data 7 luglio del 2021, avversario che per questo resterà nella storia, Hubert Hurkacz (due giorni avanti invece l’ultima vittoria su Lorenzo Sonego),
ecco
il breve testo e le annotazioni tecnico critiche specifiche.
Sono l’unico al mondo al quale Roger Federer sia sempre apparso un tennista straordinario e nel contempo, udite, udite, deludente?
Al di là della sua complessiva ‘forza’ (altri sono da considerare nell’insieme probabilmente migliori, come limitatamente ai Cinquanta, il ‘canguro’ Lew Hoad), il basilese è pressoché certamente il giocatore dai gesti bianchi più naturalmente dotato ed elegante sceso da decenni e decenni in campo.
Ma non è mai stato in possesso della necessaria ‘ferocia’ agonistica.
A ben guardare, per questa grave mancanza, ha perso numerosi tornei che avrebbe non solo potuto ma dovuto vincere.
Avesse avuto la determinazione dei suoi epocali competitori Rafael Nadal o di Novak Djokovic – dei quali è altresì fisicamente meno resistente – dove sarebbe arrivato?
Comunque, ovviamente, nel salutarlo oggi 15 settembre 2022, giorno nel quale annuncia a quarantuno anni il ritiro, come si dice, mi tolgo il cappello.
Ribadito che per i propri limiti in particolare relativi alla terra rossa (un solo e fortunato Roland Garros, nessun Montecarlo, mai Roma…) non ha avuto una reale possibilità di mettere a segno il mitico, vero, Grande Slam:
le finali dei quattro massimi Campionati disputate da Roger Federer sono trentuno e quelle vincenti venti.
Raffael Nadal ne ha giocate trenta alzando il trofeo in ventidue circostanze.
Percentuale del basilese sessantacinque per cento.
Percentuale del maiorchino settantatre.
Anche rispetto al belgradese Novak Djokovic l’elvetico è sotto.
Il totale dei tornei ATP – sigla della Associazione internazionale che raggruppa e regola i tennisti maschi – vinti (centotre) da Roger è inferiore a quello di Jimmy Connors (centonove) delle cui altre numerose affermazioni si tiene conto relativamente, nonché in generale, di grandi del passato, oggi – oltre il due volte Grande Slam Rod Laver – obliati, alla stregua del citato Lew Hoad, perché ai loro tempi trascorsi al professionismo (Ellsworth Vines o Pancho Gonzales, magari?).
‘Jimbo’ lo precede anche nel novero delle partite vinte: milleduecentosettantaquattro a milleduecentocinquantuno.
Se un tennista (Roger Federer) arriva quarantasei volte in semifinale nei tornei dello Slam e poi vince il titolo in venti occasioni, a quel livello quante sconfitte ha incassato?
Ventisei?
Pertanto perdendo all’incirca il sessanta per cento delle partite?
Non ha mai vinto la medaglia d’oro olimpica nel singolo uscendo battuto da Andy Murray nella sola finale raggiunta, per di più giocata a Wimbledon sulla amata erba.
Nel doppio, benché con Stan Wawrinka campione nel 2008 a cinque cerchi, è stato relativamente poca cosa e mettendo assieme le due specialità risulta già in campo maschile lontanissimo da John McEnroe che vanta in totale centosessantuno coppe conquistate.
Nei confronti diretti è in svantaggio sia con Rafael Nadal (ventiquattro a sedici per lo spagnolo e quattordici a dieci nelle finali) che con Novak Djokovic (ventisette a ventitre per il serbo e tredici a sei nelle finali).
Quanto ai testa a testa con David Nalbandian, con il quale non si trovava bene, nelle finali e nei Mille, non pertanto in totale, è dietro.
Guardando proprio ai Mille, ne ha riportati ventotto e, come sopra scritto parlando di Montecarlo e Roma, non tutti, contro i trentotto di Djokovic capace di trionfare dovunque si giocasse per di più almeno due volte.
Non pochi dei record che detiene non sono come viene detto ‘assoluti’ ma relativi al circuito maschile.
Così per dire le otto vittorie a Wimbledon (Martina Navratilova è a nove).
Così ancora le settimane di permanenza al numero uno della classifica visto che il primato in questione (trecentosettantasette) è di Steffi Graf.
Negli Slam è come accennato terzo per affermazioni (venti, dopo Nadal ventidue e Djokovic ventuno) tra i maschi nel singolo e più di lui in termini ‘assoluti’ sempre in tale specialità hanno vinto Margaret Smith Court (ventiquattro), Serena Williams (ventitre) e la citata Steffi Graf (ventidue).
Beppe Fezzardi (il ‘Fez’)
1962, arrivo della ‘Tre Valli Varesine’ allo stadio di Masnago.
Un pienone, e va bene così perché è proprio il ‘Fez’ a vincere.
Prima dell’ingresso in pista dei fuggitivi, l’altoparlante aveva annunciato “al comando il belga Hoevenaers e Giuseppe Fezzardi” e avevo seguito la volata con trepidazione ma certo in cuor mio (pur sapendo che quel benedetto fiammingo era un osso duro) che il besanese ce l’avrebbe fatta.
Un giro e mezzo lenti, tenendosi d’occhio, quasi un surplace, il guizzo e il colpo di pedale giusti et voila, sia pure per un soffio.
Una della rarissime volte nelle quali un varesino riusciva a far sua la ‘nostra’ corsa.
Un’infinita soddisfazione!
Fezzardi è di Besano – qui, sopra Porto Ceresio, a un tiro di schioppo – e, a quel che sembra, di lui e delle sue imprese ci siamo dimenticati.
E dire che nei Sessanta aveva messo a segno altri colpi importanti.
L’anno dopo quella ‘Tre Valli’, ha conquistato nientemeno che il ‘Giro della Svizzera’.
Nel 1965 una delle più celebri e dure tappe del ‘Tour de France’, sul percorso classico delle ‘Alte Alpi’ Carpentras/Gap.
Buoni piazzamenti, inoltre, sia al ‘Tour de Romandie’ (secondo nel ’61 dietro quel passistone di Louis Rostolland) che alla ‘Tirreno/Adriatico’ (terzo nel ‘69).
Ecco che, una infinità di anni dopo (primo di una serie di felici incontri, quasi sempre in pubblico, in occasione dei quali si propone come ottimo e simpatico narratore) quella lunga e vittoriosa volata sulla pista del Franco Ossola masnaghese, per una serie di circostanze e soprattutto per mia volontà, finalmente mi è dato di parlargli.
In macchina e diretti a Luino, lo tempesto di domande.
Voglio sapere dei suoi tempi, dei compagni, degli avversari, dei direttori sportivi…
E mi va bene perché ha corso con e contro tutti, si direbbe.
Da Vittorio Adorni a Felice Gimondi, da Gianni Motta a Franco Balmamion, da Jacques Anquetil a Eddy Merckx, fino a Beppe Saronni che, lui presente, per l’affetto che gli porta si scioglie…e, proprio agli inizi di carriera, agli ordini nientemeno che di Gino Bartali.
Tante belle storie, ma una sopra tutte perché riguarda il tradimento della parola data, quanto cioè nell’ambito sportivo non dovrebbe mai accadere e che, di contro, ad ogni pié sospinto, si ripropone.
“Era il 7 luglio del 1965”, mi dice il ‘Fez’, “Una di quelle tappe del Tour di mezza montagna anche se nel finale c’è un colle di tutto rispetto: il Sentinelle.
Ieri abbiamo fatto il Ventoux e domani ci aspettano le Alpi più dure.
Partiamo da Carpentras che fa già caldo e dopo andrà peggio.
Pronti vie e ce ne andiamo in una decina.
Il gruppo lascia fare.
Chilometri dietro chilometri e molti mollano.
Alla fine, proprio all’attacco del Col du Sentinelle, restiamo in due.
Io e il belga Gilbert Desmet (non un ‘frillo’, era arrivato quarto in generale l’anno prima).
Lui mi dice che è cotto e mi prega di non staccarlo in salita che tanto non disputerà la volata.
Gli basta arrivare con me.
Ci casco, eccome se ci casco.
Faccio il Sentinelle alla mia andatura e senza strappi.
E lui dietro.
Scollino e mi butto in discesa senza rischiare troppo.
E lui dietro.
Lo guardo a un chilometro dal traguardo.
Mi fa cenno che è tutto a posto.
E poi, ai duecentocinquanta metri dallo striscione d’arrivo, scatta.
Mi maledico per avergli creduto e nello stesso tempo riparto.
Per fortuna ho il rapporto giusto e lo rimonto.
Sai, la foto di quell’arrivo ce l’ho a casa.
Desmet che sta alzando le braccia al cielo ed io che con un ben aggiustato colpo di reni lo infilo nettamente.
Per una volta, la fortuna ha guardato dalla parte giusta!”
Sento che ha finito e mi volto.
Gli occhi ancora gli fiammeggiano.
E’ giusto, penso.
Passare per primo su un colle, pirenaico o alpino che sia, e vincere una tappa al Tour – e il ‘Fez’ ha fatto tutte e due le cose – vuol dire vivere per sempre!
Laurent Fignon
A volte detto ‘il professore’, ve lo ricordate?
Quel ciclista francese con gli occhiali cerchiati in oro e che per questo veniva ritenuto un intellettuale?
Ebbene, nei trascorsi giorni il Nostro ha presentato a Parigi la sua autobiografia, un libro dal titolo decisamente accattivante: “Eravamo giovani e spensierati’.
Nell’occasione, Fignon ha svelato di essere gravemente malato: un cancro all’apparato digerente, purtroppo già in fase avanzata.
Considerato che, come dovrebbero fare tutti i ciclisti se sinceri, nel volume, Laurent ha ammesso l’uso del doping ai suoi tempi per migliorare le prestazioni sportive, nel corso della conferenza stampa gli è stato chiesto se i medici ritengano che la sua infermità possa in qualche modo dipendere dalla sostanze ingurgitate per vincere.
“Se così fosse”, ha risposto, “noi ex ciclisti saremmo tutti ammalati”.
Facendo al vecchio campione ogni possibile augurio, nella mente ripercorro la sua carriera: di rilievo, indubbiamente, ma non in assoluto.
Ecco, Laurent è uno di quelli che sono arrivati a un solo passo dalla vera gloria e sono stati respinti.
Vincitore di due Tour de France, di un Giro d’Italia e di due Milano Sanremo, Fignon va, soprattutto e malauguratamente per lui, ricordato per le imprese eccelse che gli sono sfuggite per un pelo.
Per cominciare, in due differenti occasioni (1984 e 1989), ha mancato la ‘doppietta’ Giro/Tour perdendo la maglia di leader all’ultima tappa.
Nel 1984 (anno nel quale, subito dopo, vincerà il Tour), Moser lo sconfisse nella corsa rosa nella conclusiva cronometro.
Nel 1989 (quando aveva già riportato il Giro), Lemondgli impedirà di indossare la maglia gialla finale sottraendogliela per pochissimi secondi anche qui nella corsa contro il tempo terminale.
Di più, arrivando secondo nel 1986 alla Vuelta spagnola, Fignon non è riuscito a completare il trittico dei grandi giri a tappe che solo Anquetil, Gimondi, Merckx, Hinault e Contador hanno vinto tutti almeno una volta in carriera.
Uomo da medaglia di legno (quella che, si dice per sfotterlo, spetterebbe al quarto arrivato alle Olimpiadi) il Nostro, sempre vicino al podio assoluto e alla fine respinto.
Anton Geesink.
Il Judo rappresenta per me, da sempre, disciplina, ritualità, serietà.
Soprattutto, educazione.
È nel bianco e nero della appena nata televisione che – anni Cinquanta del trascorso Novecento – uomini in perfetta tenuta chiara con una cintura che ne dichiarava studio, competenza, capacità, sacrificio, inchinandosi dapprima, rispettando regole in fondo romantiche, si affrontavano.
Era il judo allora – io undicenne o poco più – uno degli sport, non a caso ma a fini educativi evidenti, maggiormente introdotti nelle dimore degli Italiani dal novello mezzo.
Sport straniero, e contava lo fosse.
Di più, giapponese e quindi nei dettagli coordinato e regolato.
E, nella regola – l’ho detto – romantico, come solo i mitici figli del Sol Levante le cui storie guerriere conoscevamo per due essenziali ragioni (la comunque recente fine di un conflitto mondiale nel quale i combattenti nipponici si erano dimostrati eccezionali in ogni caso e pronti al sacrificio e, nelle sale cinematografiche europee, l’inattesa apparizione di film nipponici di altissimo livello che non poche volte proponevano figure eroiche più antiche, i Samurai, il cui ‘codice’ comportamentale, forse prefigurante, apprendemmo), erano stati capaci di ideare e concretizzare.
Ebbero dipoi da quegli anni a trascorrere non peraltro lunghi tempi meno significativi durante i quali, distratto, la disciplina, ahimè, retrocesse nel mio interesse.
Fino a quando seppe proporre all’universo mondo qualcosa (qualcuno) di unico o quasi nella Storia dello sport: il Campione assoluto, praticamente imbattibile.
Incredibile a dirsi, non un Giapponese.
Apparve difatti per sbaragliare in particolare nei primi anni Sessanta e – una tragedia! – proprio alle Olimpiadi di Tokyo i grandi combattenti dell’arcipelago ‘the Dutchman’, l’olandese, gigantesco, Anton Geesink.
All’elevatissimo livello di Rocky Marciano nel Pugilato.
Del futuro re del Salto con l’asta Sergy Bubka.
Del Rod Laver capace di due Grandi Slam nel Tennis.
Di quasi nessun altro a ben vedere.
Da allora, sconsideratamente, una mia lontananza colpevole della cui disavvedutezza mi rendo oggi conto e pento!
Lou Gehrig.
Lungi dall’essere – come molti pensano a seguito dei numerosi casi che negli ultimi anni hanno riguardato e riguardano più o meno famosi atleti e, in specie, calciatori – una malattia ‘nuova’, la SLA (una sclerosi laterale amiotrofica che distrugge le cellule nervose dedicate alla stimolazione dei muscoli) è nota da lungo tempo considerato che era stata ‘identificata’ in Francia già nell’Ottocento.
Negli Stati Uniti, negli anni Trenta del trascorso Novecento, ebbe un momento, se così si può dire, di particolare notorietà visto che colpì e portò a morte un vero asso del baseball, Lou Gehrig.
Nato il 19 giugno del 1903 a New York, Lou – da molti ritenuto la miglior ‘prima base’ di sempre – giocò negli Yankees, purtroppo per lui, lungamente assieme al mitico Babe Ruth, capace di rubargli la scena.
La sua stella brillò maggiormente a partire dal 1935 quando Ruth lasciò la squadra della quale il Nostro diventò leader e capitano.
Ammalatosi appunto di SLA, Gehrig fu costretto a lasciare i campi nel 1939 e morì il 2 giugno 1941.
Da allora, la terribile malattia portò anche il suo nome ed è tutt’oggi nota come ‘morbo di Lou Gehrig’.
Talmente forte la partecipazione popolare al dolore per la drammatica dipartita dell’asso che solo un anno dopo era nei cinema del Paese ‘L’idolo delle folle’, film nel quale Gary Cooper lo impersonava.
Imperniata soprattutto sull’uomo e sulla sua umana avventura, la pellicola diretta da Sam Wood non poteva comunque trascurare il gioco che aveva reso ‘immortale’ l’atleta.
Cooper, però, era un destro naturale e non sapeva assolutamente giostrare con la sinistra.
Un vero guaio visto che Gehrig era invece un mancino.
Per superare l’impasse la produzione decise di stampare al contrario i negativi delle riprese, di ricamare sulle maglie dei giocatori nomi e numeri al contrario, di invertire addirittura il senso di corsa sul campo da gioco!
Raphael Geminiani
Raphael Geminiani!
Punto esclamativo (userò qui molti punti ‘ammirativi’, come si diceva una volta).
Il duro e arcigno scalatore d’Oltralpe d’un tempo – quanto alle due ruote, il figlio prediletto di Clermont Ferrand – ha lasciato oggi il campo ad un simpatico Signore nel giugno scorso inquadrato in ottima forma intento a festeggiare con un bella fetta di torta i compiuti novantasette anni.
Briscola!
Di lui adesso si parla appunto per la longevità (ha esordito al Tour de France addirittura nel 1948: quasi tre quarti di secolo fa!), ma per davvero lunghi anni lo si riscopriva ricorrentemente solo per essere stato il compagno di Fausto Coppi nella sfortunatissima spedizione africana di fine 1959 che portò il Campionissimo a morte il 2 gennaio successivo a causa di una non riconosciuta dai medici italiani malaria alla quale invece Raphael sopravvisse per via del somministrato chinino.
Nel mio Pantheon, quello che lo colloca e lo fa restare è però quanto ‘le Clermontoi’ combinò nel 1958.
Dovete sapere che a quegli anni Cinquanta e da una pezza, il Tour si correva per squadre nazionali.
(Avevamo nel Commissario Tecnico Alfredo Binda – ex eccezionale campione – un ‘mostro’ visto che riusciva a far correre insieme e spesso vincere in maglia azzurra sulle strade della Grande Boucle i due ‘nemici’ Gino Bartali e Fausto Coppi).
Dato il fatto che al di là dei dieci o dodici selezionati non pochi altri ciclisti locali chiedevano di correre, al via si presentavano anche tre componenti formate da ‘galletti’ e definite ‘regionali’: la Centro-Midi, l’Ovest-Sud/Ovest e la Parigi Nord/Est.
Orbene, considerato a trentatre anni ‘vecchio’ dal selezionatore ufficiale, Raphael corse nella circostanza per la prima delle tre compagini citate dichiarando che avrebbe battuto alla grande il leader della Nazionale che gli era stato preferito: Louison Bobet.
(Se Geminiani era anziano perché non altrettanto Louison nato invero qualche mese prima? Mah?)
Fu quella una edizione tra le più lottate della corsa a tappe francese.
In tre la disputarono a sciabole sguainate fino alla quasi conclusiva (infinita: settantaquattro chilometri!) tappa contro il tempo: il lussemburghese Charly Gaul, l’italiano Vito Favero e Raphael.
Al termine, racchiusi in poco più di tre minuti, nell’ordine sul podio parigino.
Pagò nell’evenienza Geminiani la nota carenza quanto al detto cronometro, rifilando comunque al combattuto e strabattuto Bobet quasi mezz’ora!
Aveva dimostrato quanto si prefiggeva ed è questo che davvero conta.
Chapeau!
Ito Giani.
Giani, Cavallazzi, Raile, Vimercati.
Non ricordo in quale preciso ordine, ma erano questi i componenti della mitica staffetta quattro per cento metri piani che, almeno sessant’anni orsono, vinceva per i colori del ‘mio’ liceo scientifico di Varese tutte le gare regionali e nazionali alle quali partecipasse.
Tra i quattro (e non me ne voglia ‘Peppo’ Vimercati che, del resto, sarà senza dubbio d’accordo con me), il più dotato – anche un incompetente, vedendolo in pista, se ne rendeva subito conto – era Ito Giani.
Schivo oltre misura, capace di nascondersi e quasi quasi di sminuire le sue grandissime imprese, Ito era una di quelle persone che sei orgoglioso di aver visto in azione o anche solo di aver conosciuto.
So benissimo che in atletica si emerge attraverso un duro e costante lavoro, che occorrono sacrifici ai quali per i più è impensabile sottoporsi, ma – ed è questa, a ben vedere la ragione della mia considerazione per lui – Ito correva con una tale naturalezza da far credere che sprintare e vincere fosse cosa facilissima.
Nazionale (ovviamente), campione italiano, plurimedagliato alle Universiadi laddove ebbe a guadagnarsi anche l’oro, Giani raggiunse il massimo della forma nel 1968 e, per la miseria!, proprio in vista dei Giochi Olimpici di Città del Messico.
Ora, la vicenda che vado a raccontare – devo fare questa premessa, conoscendolo – è vera, ma se lo aveste interrogato al riguardo, avrebbe cercato di glissare e se aveste insistito ne avrebbe diminuito grandemente la portata.
Fatto è che nei ‘suoi’duecento metri (la distanza che gli permetteva di distendersi e di esprimere tutta la potenza che aveva in corpo) al Messico semplicemente volava.
Al punto che, al termine di una gara tra sprinter olimpici di differenti nazionalità messa insieme quasi per passare il tempo ma nella quale tutti i partecipanti, orgogliosamente, avevano dato il massimo, primissimo si può dire ‘per distacco’, fermo ad assaporare tra sé e sé il momento oltre il filo di lana, si era visto avvicinare dall’australiano Norman che, largamente battuto, complimentandosi, gli aveva detto “Ci vediamo in finale”.
Immagino che tutti ricordino il celeberrimo podio della premiazione di quei benedetti duecento metri: sul gradino più alto, con un pugno guantato di nero alzato verso il cielo, il vincitore americano Tommy ‘Jet’ Smith.
Su quello riservato al terzo, nel medesimo gesto, John Carlos.
Negri – come allora si diceva senza alcun intento offensivo – quali entrambi erano, protestavano in quel modo contro le discriminazioni che la loro patria ancora riservava ai ‘coloreds’.
Secondo, con la medaglia d’argento al collo, proprio il ‘canguro’che Ito aveva pochi giorni prima strapazzato.
Uno strappo muscolare rimediato durante un allenamento, un dolore che ti coglie improvvisamente e ti piega ancor più nell’anima che nel fisico e tutte le speranze che ti accompagnano, i sogni che giustamente fai, finiscono al tappeto.
Un colpo da ko e la medaglia che ti spettava, che ‘doveva’essere tua, è di un altro.
Guardi la corsa dalle tribune e pensi…
Io lo so.
Per certo lo so, Ito.
Uno di quei tre gradini doveva essere tuo e magari il più alto.
Chissà, forse, avessi vinto tu, Smith e Carlos, sconfitti, non avrebbero avuto la forza di mettere in atto la loro protesta e, in qualche sia pur piccolo modo, la Storia (con la esse maiuscola) sarebbe stata diversa.
È per questo che il maledetto inconveniente ti ha messo fuori gioco?
Può darsi.
Sappi, comunque, che, per quanto mi riguarda, al Messico, i duecento, li hai vinti tu!
Bernard Hinault.
Sapete le ‘classiche monumento’, come vengono chiamate nel ciclismo (qui elencate nell’ordine temporale di programmazione annua), la Milano/Sanremo, il Giro delle Fiandre, la Parigi/Roubaix, la Liegi/Bastogne/Liegi e il Giro di Lombardia?
Le corse spalmate sulle tre settimane (Italia, Francia, Spagna a distanza ma una dopo l’altro) escluse, sono il massimo per i professionisti delle due ruote.
Orbene, la storia che segue mi è stata narrata da un vincitore (nel 1982) della Liegi, la ‘Doyenne’, come viene chiamata essendo la decana tra tutte.
Dal davvero ottimo Silvano Contini, leggiunese come ‘Rombo di tuono’ Gigi Riva, e che aria buona doveva esserci in quelle bande.
Orbene di nuovo, era accaduto nel precedente 1979 a Silvano di classificarsi secondo nel Lombardia battuto in una volata a due dal bretone Bernard Hinault, un crack assoluto, in grado prima quello stesso anno di conquistare il Tour de France e nel 1978, esordendo nelle corse a tappe, di fare la doppietta Tour/Vuelta (e in futuro di collezionare in soli dodici anni ben più di duecento affermazioni di ogni genere e tipo).
Eccoci quindi alla partenza del Giro di Lombardia del 1984.
È in quella occasione che Hinault cerca Contini e memore del 1979, gli dice: ‘Se vuoi arrivare ancora secondo stammi dietro’, dopo di che parte e vince, stavolta per distacco!
È guardando a questa vicenda fiore all’occhiello – come alla Liegi 1980 stradominata (oltre nove minuti su Hennie Kuiper arrivato dopo di lui), alla Roubaix 1981, alla vittoria in volata sul gruppo ai Campi Elisi nel Tour 1982 con i velocisti che lo maledicevano, al Mondiale di Sallanches 1980, ai complessivi cinque Tour, ai tre Giri e alle due Vuelta, alle altre accoppiate – che conferma l’assoluta conoscenza delle proprie straordinarie capacità che considero Bernard il più grande di sempre con buona pace perfino di Eddy Merckx.
Leone Jacovacci.
Non starò di certo qui a raccontarvela di bel nuovo se non per una particolare storia.
Lo sapete: all’incirca alla fine degli anni Settanta, in gravi difficoltà economiche e familiari, ne ho provate di cotte e di crude e, fra l’altro, nel continuo, rutilante susseguirsi di mestieri che duravano l’espace d’un matin, per qualche mese tra la primavera e l’estate del…, grazie ad un caritatevole amico, mi è capitato perfino di assumere una consulenza commerciale presso una ditta milanese di elettrodomestici che, probabilmente anche in ragione del mio intervento, di lì a poco avrebbe chiuso i battenti in via definitiva.
Con una vecchia Alfasud – in qualche modo rimediata – mi partivo, così, molto presto al mattino ad evitare code e conseguenti perdite di tempo, da Varese, piegavo verso l’uscita autostradale di Cormano e, percorsi un numero infinito di rettilinei e svolte, quasi magicamente, mi ritrovavo in una larga piazza della Milano periferica, ancora, data l’ora, deserta o quasi.
Corriere della Sera alla mano, immancabilmente poco avanti le sette, posteggiata agevolmente l’auto, avendo quasi due ore da far trascorrere, eccomi quindi per cinque giorni la settimana, infilare l’ingresso di una linda latteria che, stendendosi per lungo verso l’interno del palazzo nel quale apriva i battenti, bancone a sinistra, collocava un unico tavolinetto con due sedie sul fondo, proprio davanti l’ingresso della toilette.
Era la cadrega che guardava all’esterno invariabilmente occupata (e pareva fosse stato lì tutta la notte) da un anziano signore, di colorito scuro tanto che da subito avevo pensato potesse essere un mezzosangue.
Sedeva, il desso, Gazzetta dello Sport e un bicchiere di latte via, via meno caldo davanti, quasi sempre con lo sguardo perso nel vuoto.
Evitando per quanto possibile di interpormi tra i suoi occhi marroni e la luce che entrava dalla porta d’accesso, spostata leggermente l’altra sedia, borbottato un ‘Buongiorno’ al quale non veniva data risposta, a mia volta, mi accomodavo.
Subito o pressappoco, mi accorsi che la sua ‘rosea’ era tutte le mattine aperta alla pagina che si occupava di pugilato, quasi che l’unico sport che davvero interessasse quel tale fosse la nobile arte.
Forte al riguardo delle mie conoscenze, feci presto a convincermi di avere incontrato nientemeno che Leone Jacovacci, il mulatto adottato negli anni Venti dai romani capace di conquistare il titolo italiano dei medi battendo in un memorabile incontro il milanese Mario Bosisio.
Mio padre, seduto in prima fila nell’occasione, mi aveva più volte narrato del match e di come, forzando la rima, da allora e per anni, a Roma fosse nell’ambiente di bordo ring in voga la poesiola “Attento, attento caro Bosisio che Jacovacci ti rompe il viso”.
Un paio o tre settimane, ed ecco che l’amico sparisce.
Aspetto due giorni prima di chiedere informazioni.
“Ah, lei parla del portiere di notte dell’87?”, risponde il lattaio.
“Ogni tanto si assenta: pare abbia qualche parente nei dintorni…”
Jacovacci – del tutto ignoto in quanto ex pugile e campione – portiere di notte a Milano?
Mi intriga e, trascorsa una settimana, mi fermo questa volta di sera in zona.
L’87 è un bel palazzetto, di quelli che vengono definiti ‘signorili’.
Suono a ‘Portineria’.
Entro e me lo trovo davanti.
Non è stato facile cavargli fuori qualcosa.
Non gli andava né di parlare dei bei tempi andati né del suo oggi.
Non gli dispiaceva l’avessi individuato, ma neppure gli faceva bene.
Alla fine, poche parole e, da me forzata, una stretta di mano della quale riferire a mio padre.
E’ da allora che penso che la gloria e la fama vanno raggiunte in tarda età o per lo meno quando si è abbastanza in là con gli anni, perché il trascorrere inesorabile del tempo non ne cancelli memoria, perché non si possa, non si debba soffrire, come capita in particolare ai campioni dello sport ma non solo, della dimenticanza, dell’abbandono delle un tempo plaudenti folle.
Wladimir Klitcko.
È il 14 luglio del 2010.
Nelle trasformate e per la bisogna, con fiducia, acquisite, vesti di organizzatore sportivo, incontro a Luino – nei locali e nel parco dell’elegante albergo Camin – il grande pugile Ucraino, Campione del Mondo dei Pesi Massimi, Wladimir Klitcko.
Ho presente quanto occorso nel Regno delle dodici corde dopo le Olimpiadi di Melbourne del 1956.
Medaglia d’Oro nella circostanza, nella categoria maggiore, era stato l’americano Pete Rademacher.
Al quale – con una operazione sportiva ed economica di particolare rilevanza ed unica nella intera storia del pugilato – al debutto, l’anno successivo tra i professionisti, era stato organizzato, titolo in palio, niente meno che un incontro (perso, ma questo non importa ora) con Floyd Patterson, il detentore a quei tempi della cintura.
È su tale scorta, che all’immediatamente interessato statuario Campione propongo di incrociare i guantoni con il nostro Roberto Cammarelle, due anni avanti, in quel di Pechino 2008, appunto Gold Medalist.
Pone Klitcko una condizione che mi aspetto e conto di superare: l’adeguata consistenza della a lui nel caso spettante borsa.
Molte le foto che, mostrandoci sorridenti e fiduciosi, immortalano il nostro vis a vis.
Non se ne fa nulla, come certamente sapete.
I quattrini – grosso modo mezzo secolo prima facilmente trovati, sia pure in America, per la ricordata impresa – nel 2010 risultano pressoché nulli.
Briciole, come avrei dovuto ipotizzare essendo la Boxe oramai in Italia (e non solo) negletta ed espressione della brutalità umana solamente considerata.
Ero e sono, come sempre mi capita, con i tempi e i momenti del vivere, del tutto e, per fortuna!, irrimediabilmente sorpassato.
Kim Soo Ki.
Come tutti sanno, nel 1966, esattamente il 19 luglio, l’Italia calcistica subiva l’onta forse peggiore della propria storia facendosi eliminare dalla Corea del Nord nel corso del Mondiali londinesi.
Ma a ben guardare, già meno di un mese prima – il 26 giugno – un altro clamoroso accadimento sportivo aveva stupefatto il nostro Paese.
La sconfitta con la conseguente perdita del titolo di Campione del Mondo dei pesi medi junior di Nino Benvenuti in quel di Seul ad opera dello sconosciutissimo Coreano Km Soo Ki.
Era costui uno degli avversari che lo stesso Benvenuti aveva trovato e battuto nelle Olimpiadi romane del 1960 nella galoppata trionfale che lo aveva portato alla Medaglia d’oro dei pesi welter.
Sconfitto per la prima volta in carriera con verdetto non unanime e in campo avverso, Nino ebbe buon gioco, una volta tornato in Italia, nell’affermare di essere rimasto vittima di un vero e proprio furto.
Del resto, di quel match ben pochi sapevano qualcosa e le giustificazioni addotte stavano abbastanza in piedi.
Il povero Kim, per conseguenza, fu ritenuto un usurpatore non degno di una Corona mondiale.
Meno di due anni, ed ecco che il 28 maggio 1967 il misterioso coreano arriva in Italia.
Una cospicua borsa (l’organizzatore dirà, parlando di lui ‘ho reso ricco un povero’) lo convince ad accettare di incrociare i guantoni sul ring appositamente collocato al centro del prato dello stadio di San Siro con Sandro Mazzinghi.
I numerosissimi spettatori nell’occasione si spellarono le mani assistendo a uno dei più combattuti e spettacolari incontri mai disputati tra le dodici corde.
Il nostro Sandro prevalse, ma Kim Soo Ki vendette molto cara la pelle dimostrandosi pugile durissimo e tenace, di certo non indegno del titolo che aveva detenuto un paio d’anni e che ora lasciava al toscanaccio dopo spietata lotta.
Nicolas Mahut.
Hai presente il grande Coburn?
James, dico, non il vecchio caratteristica Charles?
Ecco, è lui che nel pre finale del mitico ‘Hard Times’, film d’esordio di Walter Hill datato 1975, spogliato all’azzardo di ogni quattrino, se ne esce con
‘La cosa più bella a questo mondo è giocare e vincere.
La seconda cosa più bella è giocare e perdere!’
Frase che incredibilmente o
quasi mi fa venire in mente Nicolas Mahut e quello che ha combinato.
Parlo del match che l’ottimo doppista francese ha giocato in singolo contro l’americano John Isner a Wimbledon nel 2010.
Quello che mentre ha reso il gigantesco tennista USA il recordman assoluto e certamente insuperabile nel campo dello ‘sport dei gesti bianchi’ qual’era allora per regolamento il tennis solo sull‘erba londinese più famosa, ha fatto sì che il ‘galletto’ sia e resti ‘il perdente migliore della storia’, probabilmente in generale, ogni attività sportiva compresa.
Questo perché Nicolas
- è uscito dal campo sconfitto dopo una battaglia durata più di undici ore spalmate su tre giorni dal 22 al 24 giugno, come detto del 2010
- perché ha vinto nel corso del perduto match la bellezza di novanta game e un tie break
- perché ha messo a segno centotre ace
- perché ha perso il quinto e decisivo set 68 a 70, mai nessuno in grado come lui di arrivare tanto lontano per lasciarci le penne.
Facile – e lo fanno da allora tutti – esaltare John Isner per avere vinto.
Difficile – e lo faccio qui io – lodare Mahut per avere perso a questo straordinario modo!
Rocky Marciano.
Philadelphia, 1926.
‘Sesquicentennial’, ovvero ‘cento cinquantesimo anniversario’ della Dichiarazione di Indipendenza.
Tra le molte iniziative, la costruzione del ‘Sesquicentennial Stadium’.
Alla maniera d’allora che, quanto ai campi dedicati anche se non maggiormente all’atletica, prevedeva la forma a ferro di cavallo.
Tappeto d’erba (dominante all’epoca: non si giocavano infatti su quella superficie tre prove su quattro del futuro – sarà così chiamato nel 1933 – Grande Slam tennistico?).
Centoduemila possibili posti a sedere, mica male.
È in quella mitica sede – dal 1964 dedicata a John Kennedy e demolita ventotto anni dopo – che il 23 settembre del 1952 l’italoamericano Rocky Marciano ha conquistato il titolo mondiale dei pesi massimi mettendo giù con un colpo che rimane tra i più limpidi e romantici di sempre il forte detentore Jersey Joe Walcott.
Impresa memorabile e immortale portata a compimento con un imparabile gancio destro alla mascella dopo avere subito e sopportato la in qualche momento straripante superiorità del rivale.
Perché parlarne anche a quanti di pugilato e boxeur non hanno mai sentito parlare e pensano che sia semplicemente pazzo chiunque posse definire un volgare cazzotto ‘romantico’ come poche righe fa ho fatto?
Perché fu al tredicesimo round che il fulmine si abbatté sul malcapitato campione spedendolo nel mondo dei sogni.
Perché non molti anni dopo gli incontri per il titolo mondiale avrebbero subito una limitazione quanto ai round previsti che da quindici furono ridotti a dodici.
Perché se il match si fosse concluso appunto al dodicesimo la giuria avrebbe certamente decretato la vittoria di Jersey Joe e la carriera di Rocky (che chiuderà invitto) avrebbe avuto una battuta d’arresto forse fatale.
Perché dimostra quanto profondamente le regole, non certamente solo nella boxe o nello sport, incidano sul destino.
E fa pensare a quanti mai magnifici o tragici accadimenti e imprese non abbiamo potuto vedere, sentir narrare, leggere, apprezzare o piangere, per mutazioni regolamentari dipoi rivelatesi errate.
In non pochi casi un tredicesimo round, andare oltre il canone, sarebbe stato, sarebbe opportuno.
Per quanto mi riguarda, sono andato al di là delle regole mille volte e conto di continuare a farlo.
Sandro Mazzinghi.
L’intervista – integro, intatto il testo – che ho fatto il 28 maggio 2013 al grande, quasi imbattibile, boxeur, purtroppo passato a miglior vita nell’agosto del 2020.
(Come tutti i varesini della mia età,
infiniti anni orsono, ho molte volte incontrato in città Sandro Mazzinghi.
Boxava per la ‘colonia Ignis’ ed era un protetto del commendator Giovanni Borghi.
Con lui, spesso, il fratello maggiore Guido.
L’ammiravo da lontano, non osando importunarlo.
Ci siamo, invece, conosciuti una quindicina d’anni fa, in occasione di una cerimonia commemorativa proprio del mitico ‘Cumenda’.
Tengo, da allora, tra i miei più cari cimeli la foto che ci ritrae vicini e sorridenti.
Grazie, Sandro, per l’amicizia dipoi coltivata.
Grazie per essere stato ed essere l’uomo che sei!)
‘Ero molto povero e con il pugilato ho trovato il pieno riscatto’.
‘Eravamo dei trascinatori, uomini di tempra
e, se me lo permetti, di grande carisma’.
‘Rifarei tutto allo stesso modo’.
‘L’importante, alla fine, è stare bene!’
D. Comincerò con una domanda particolare e articolata, dettata dall’invidia.
Devi sapere che nel 2005 sono stato finalista del Premio Bancarella Sport ma non l’ho vinto.
Tu invece sì e con un libro dal titolo davvero speciale, ‘Pugni amari’.
Immagino la tua soddisfazione.
Cosa ti aveva spinto allora a prendere la penna in mano?
Quale urgenza?
Perché ‘amari’, quei pugni?
R. Beh, intanto sono lusingato di destarti invidia, ma scherzi a parte ho scritto ‘Pugni Amari’ grazie anche al giornalista Michelangelo Corazza perché avevo ancora molto da dire al mio pubblico e perché ho subito molte ingiustizie nella vita.
Sono sempre stato un uomo pulito ed onesto e forse proprio per questo mio carattere schietto non andavo giù a qualcuno.
E’ stata una soddisfazione enorme l’uscita della mia biografia, con ampi consensi sia di pubblico che di critica.
‘Pugni amari’ perché ho visto l’ingratitudine di tutte quelle persone che finché ero ‘il Campione’ con la c maiuscola avrebbero fatto carte false pur di starmi vicino per abbandonarmi invece quando non sono più stato il Mazzinghi che strappava caratteri cubitali sui giornali e questo non è bello.
D. La ‘nobile arte’ – lo si chiamava così il pugilato in tempi oramai lontani – è ai nostri giorni negletta.
Viene considerata da molti, se non dalla più parte della gente, come qualcosa di brutale e di selvaggio.
Ha perso quell’appeal, quel seguito entusiasta sul quale poteva contare senza timore.
Tu hai riempito San Siro: sessantamila spettatori.
Oggi, non è nemmeno pensabile che chiunque possa anche solo riuscire a far programmare nello stadio milanese un qualsiasi incontro.
Cosa, a tuo parere, ha causato questo tramonto?
R. Devo dire che le cause sono molte.
Una di queste è il troppo benessere (per carità, meglio così).
Noi si proveniva da situazioni particolari.
Io ero molto povero e con il pugilato ho trovato il pieno riscatto.
Oggi riempire uno stadio come quello di San Siro con sessantamila persone per un incontro di pugilato è vera utopia.
Eravamo trascinatori, uomini di tempra e, se posso permettermi, con grande carisma.
Il pugilato è una disciplina bellissima.
Può sembrare brutale, ma ti assicuro che non è così.
Basta vedere quando termina il match: i due gladiatori si abbracciano ed è la cosa più bella del mondo
D. Credo te l’abbiano chiesto in molti, ma cosa ti ha spinto sul quadrato?
Quale la tua motivazione?
I successi – non all’altezza dei tuoi, per carità – di tuo fratello maggiore Guido?
Un qualche desiderio di rivalsa?
Il bisogno?
R. Hai detto giusto: tutte e tre queste cose.
Vedevo mio fratello combattere e lui all’epoca era un bel campione, e io ero piccolo e mi immaginavo che un giorno sarei stato come Guido.
Mi affascinava talmente tanto che lo volevo copiare in tutto.
Poi, le condizioni economiche in cui la mia famiglia versava.
Erano momenti difficili e io con il pugilato ho avuto il riscatto di tutto.
Con il pugilato ho reso felice la mia famiglia che tanto aveva sofferto e sacrificato per crescere noi figlioli.
D. E come hai affrontato gli infiniti sacrifici che una carriera pugilistica di altissimo livello in qualche modo impone?
A cosa, a quali affetti, hai dovuto rinunciare?
R. Caro Mauro, e se ti dicessi che non ho rinunciato a nessun affetto?
Ti spiego.
Ho avuto una carriera ad altissimi livelli e quando dovevo affrontare immensi sacrifici, li affrontavo con totale naturalezza perché amavo il mio lavoro più di qualunque altra cosa e per me era appunto naturale il sacrificio.
Se rinascessi rifarei tutto allo stesso modo.
Sono stati momenti irripetibili, immensi, profondi, che non si possono dimenticare.
D. Hai capito subito, ‘sapevi’, di essere destinato alla gloria sul ring?
Cosa ha voluto dire per te il vincere da dilettante i Mondiali militari in America?
Fu la conferma?
R. Volevo diventare un campione a tutti i costi.
Oltre ad emulare mio fratello, amavo Roky Graziano e mi affascinava la sua storia che vidi da bambino in un cinema della mia città.
‘Lassù qualcuno mi ama’, la pellicola, interpretata dal grande Paul Newman.
E dentro di me, dopo aver visto quel magico film, ripetevo in continuazione: “Alessandro, anche tu un giorno diventerai un campione”.
E quando da dilettante vinsi i Mondiali militari in America fu la conferma che ce la potevo fare.
D. Cosa si prova a dare e prendere pugni?
Quale mai forza ti faceva restare in piedi e reagire superbamente quando colpito duramente?
R. Quando salivo sul ring ero talmente concentrato che a volte non sentivo neanche i colpi.
Avevo una grande preparazione atletica.
Ero meticoloso nel prepararmi.
Addirittura andavo in ritiro tre/quattro mesi prima dei match e questo influiva moltissimo quando c’èra da incassare colpi durissimi e credimi ne ho incassati non so quanti.
D. Sessantanove combattimenti – e che combattimenti – e tre sole sconfitte, due delle quali con Nino Benvenuti.
Penso che la seconda volta non avessi perso, ma, questo a parte, come hai affrontato e superato – tanto da riconquistare il mondiale – l’amarezza conseguente?
E con Nino, quali, dopo e oggi, se ci sono, i rapporti?
R. Hai ragione, il secondo match con Benvenuti l’avevo meritatamente vinto, ma purtroppo le cose andarono come sappiamo e non voglio star qui a rifar polemiche chi mi conosce sa come andarono i fatti.
Il dopo Benvenuti per me è stato il ripartire da capo.
Riconquistai l’europeo per ben quattro volte con degli avversari durissimi. L’ultimo a Stoccolma con quella furia di Bo Hogberg.
Fu un match fantastico.
Ma la più grande soddisfazione l’ho avuta quel 26 maggio del 1968 a San Siro, con sessantamila spettatori, contro il coreano Kim So Kim.
Fu un incontro durissimo: due tori nell’arena, quindici intensissime riprese di pura follia e ritornai in possesso del titolo del mondo.
Quel titolo che era stato già mio tre anni prima e che la sorte beffarda mi aveva portato via ingiustamente.
Con Benvenuti sono anni che non ci vediamo.
Lui ha la sua vita ed io la mia.
L’importante, alla fine, è stare bene!
D. Hai terre nella tua Toscana, produci olio e vino.
Ti appaga la terra?
Hai ancora dentro di te quel fremito, quell’ardore, quella voglia, quel desiderio infinito di prevalere?
Se così è, come lo domi?
R. Si, nella mia proprietà ho molta terra e coltivo un buon vino rosso e bianco.
Coltivare le viti mi è sempre piaciuto.
Lavorare la terra mi appaga moltissimo perche la lavori con amore e lei con amore ti da i suoi frutti.
E’ bellissimo.
In gioventù avevo un carattere abbastanza esuberante, tipico di noi toscani.
Avevo quel desiderio di prevalere sempre, perché la voglia dentro di arrivare era tanta.
Oggi sono un po’ più pacato, ma il cavallo di razza è sempre dentro di me.
D. Sai di essere per molti – ed io tra loro – una leggenda?
R. Non mi fare arrossire.
Se voi tutti dite che sono una leggenda, grazie per me è un onore saperlo. Vuol dire che ho lasciato un buon ricordo per quel che ho fatto.
Io so solo che sono Sandro, una persona semplice…
D. Sei, amico mio, credente?
R. Certo, sono credente.
La fede per me è sempre stata importante sia sul quadrato che nel cammino della vita.
Se non avessi avuto fede, forse non avrei superato quei momenti difficili che la vita a volte ti presenta……………
Un abbraccio a tutti
Sandro Mazzinghi
Dino Meneghin.
Arrivato a Varese ottenne nel 1958, Dino Meneghin – leggenda vuole – fu selezionato anni dopo ma ancora alle medie dall’allora allenatore della Ignis solo a seguito di una dimostrazione davvero particolare.
Lungo era già lungo, ma per verificarne la dinamicità il tecnico gli chiese di correre con il cappotto addosso e fu osservando i suoi movimenti in quel modo costretti che decise per il sì.
Che fosse speciale fu praticamente subito chiaro.
Che fosse un ‘alieno’ non solo sportivamente parlando fu invece constatazione operata dalla segretaria dell’istituto per geometri della città dal Nostro frequentato.
Era la Signora assolutamente convinta che gli extraterrestri si interessassero a lei e che di quando in quando la rapissero per poi riportarla sana e salva sulla Terra.
Orbene, fu quella gentil Dama a dirgli che gli alieni suoi sequestratori in fondo cortesi erano proprio alti come lui.
Ha raccontato Dino Meneghin di recente di quegli oramai lontani colloqui rammaricandosi di non avere allora chiesto ulteriori dettagli.
Pietro Mennea.
Caratteristica di Pietro Mennea, barlettano (città che ha dato i natali a gente in gamba Barletta: oltre allo straordinario campione, almeno Giuseppe De Nittis, Carlo Maria Giulini, Carlo Cafiero…), una determinazione assoluta.
Fisicamente non eguagliava certamente la gran parte degli avversari che sui prediletti duecento metri piani, per anni ed anni, era però capace di rimontare fino a piegarli sul filo.
Quando Usain Bolt ebbe modo di incontrarlo – sapendolo per decenni (dal 1979 al 1996, atleticamente un tempo infinito) detentore del record mondiale sulla distanza — stupefatto, abituato come era a velocisti di tale eccezionale portata esclusivamente neri, esclamò: “Ma tu sei bianco!”
Ho di Mennea e della Medaglia d’Oro che conquistò alle Olimpiadi di Mosca un ricordo davvero peculiare.
Partito in nave quel lunedì 28 luglio 1980 alla mattina per Ponza con un festoso gruppo non solamente familiare dal porto di Terracina e trascorsa colà una piacevolissima giornata, verso sera, sul ponte del natante imbarcato per il ritorno – soddisfatto ma in qualche modo come in queste circostanze accade con la mente vagante altrove – ristavo del tutto dimentico dell’impegno che sulla pista moscovita il Nostro in quelle ore affrontava.
Erano quelli gli anni delle radioline.
A prua, un gruppetto di ragazzi ne ascoltava una.
Colsi come un qualcosa e mi avvicinai.
Fu così che del tutto per accidente ascoltai la cronaca di quella dapprima apparentemente persa e infine gloriosamente vinta finale.
Guardavo il mare ascoltando.
Il Sole piegava verso il tramonto.
Quanta bellezza alla vista.
Quanta, partecipe gioia nell’anima!
Vinicio Nesti.
Vinicio?
Per anni, direi per tutti o quasi gli Ottanta del trascorso Novecento, ci siamo quotidianamente frequentati.
Amici?
Certo che lo siamo stati, e in qualche modo fraterni.
Lo ricordavo nella mitica Pallacanestro Varese.
Lo ricordavo campione d’Italia.
Lo ricordavo in Nazionale.
Ma non erano le memorie a unirci.
Era l’affetto.
Era la pacca sulle spalle.
Era il comune sentire.
Burbero, apparentemente scontroso, il Nesti, come tutti i toscani e ancora di più pronto all’ira ma con quel particolare lampo negli occhi che mi diceva “Ti voglio bene”…
E dipoi, per qualche bivio dove io sono andato da una parte e lui dall’altra, non ci siamo più frequentati.
E mi sento per questo in colpa.
La terra ti sia lieve, amico mio!
Carlo Raffo.
Complicato per via delle differenze d’età tra le precedenti generazioni il nostro rapporto parentale.
Resta che il del sottoscritto di poco più giovane Aldo Bontemps de Montreuil è nipote del fratello – a sua volta di davvero molti anni minore e di secondo letto – della bisnonna materna Corinna Bontemps de Montreuil, a suo tempo consorte di Omero Raffo e pertanto genitrice di Gino Raffo, padre di Manlio Raffo, mio procreatore.
Stipite comune, Carlo Bontemps de Montreuil – eroico militare ottocentesco di antica Famiglia Lorenese un cui celebrativo busto è al Gianicolo – bisnonno di Aldo e mio trisavolo.
Aldo ed io ci siamo ritrovati da pochi anni ed è con particolare piacere che, quando scendo a Roma, lo incontro al Circolo degli Scacchi, del quale è socio l’ottimo di lui figlio Bruno Bontemps de Montreuil.
Conserviamo invero non numerosi ricordi comuni risalenti all’infanzia.
Entrambi abbiamo però certamente – al punto di averne rimembrato con un particolare, sbigottito e addirittura impaurito?, stato d’animo – forte memoria di lontani incontri con Carlo Raffo, mio prozio (in quanto fratello minore di nonno Gino) e di Aldo cugino/zio, se così si può dire.
È stato costui un prestigioso atleta, il maggiore sportivo afferente alle nostre due congiunte Famiglie.
Rugbista ‘di grande potenza’ come riportano gli annali e le cronache, più volte Campione d’Italia con il Rugby Roma del quale era tra i fondatori, convocato in Nazionale già dal primo ‘test match’ datato 1929, è da ricordare altresì come ottimo boxeur due volte vincitore – pressoché ai declinanti anni Venti e ai primi Trenta – del mitico torneo dilettantistico romano di pugilato del ‘Guanto d’Oro’.
Fisicamente Carlo Raffo – incidente di certo il fatto che entrambi lo incontrammo da bambini ‘vedendolo’ come i piccoli percepiscono i grandi – era un gigante.
Come tale, personalmente (in qualche modo analogo per quanto in un altrove il ricordo di Aldo), lo rivivo entrare in casa di nonno Gino – consapevole, massiccio, spallato, poderoso, con un sorriso appena accennato, in fondo brusco – porgermi una mano forte e ferma dicendo con voce profonda e da allora per me indicante assoluta mascolinità
‘Come stai?’
‘Bene!’
Meglio, ‘Benissimo!’ la risposta che, non altrimenti, quel naturale ‘duro’ aspettava non essendo in quel momento – neppure mai? – lontanamente possibile pensare ad alternative.
Vado oggi – è dopo avere scritto per differenti ragioni ad Aldo che m’accade – cercando di Carlo Raffo altre notizie, in particolare quanto alle sue qualità pugilistiche, certo come sono che fu pensando a lui che, sedicenne, mi proposi di salire sul ring, cosa che una miopia della quale, conoscendola, non mi avrebbe mai perdonato, mi impedì di fare.
Sessanta e passa anni dopo di quella impossibilità sono ancora a soffrire.
Zio Carlo!!!
Gigi Riva.
Fine anni Novanta.
Autunno.
Una di quelle serate da tregenda.
Lampi, tuoni, vento, pioggia scrosciante e, all’improvviso, una lama di luce che, di sbieco, si fa largo tra i nuvoloni: il Maggiore mi appare, se possibile, ancora più bello.
Chissà perché, sono a Laveno e, godendomi appieno lo schiaffo in faccia delle raffiche gelate e umide, in piedi, guardo le acque agitate da sotto la tenda collocata all’esterno di uno dei tanti caffè che aprono i loro battenti sul lungolago.
Un traghetto (e mi immagino quanto difficile per i viaggiatori debba essere stata la traversata) si sta avvicinando faticosamente al pontile d’attracco…
Nel quasi buio (la luce dà incredibilmente sul viola scuro), mi accorgo che una decina di metri più avanti, seduto a un tavolino, solo e con l’eterna sigaretta in bocca, malinconico, come del resto ho sempre immaginato che sia, c’è Gigi Riva.
Immobile, anche lui si gode la furia degli elementi.
Freno l’impulso di avvicinarmi e di quando in quando l’osservo di sottecchi.
Verso ovest, per quanto il tramonto incomba, la luce del sole sembra costringere le nuvole ancora piene di pioggia a ritirarsi.
Ancora dieci minuti e sarà possibile andare alla macchina e mettersi in viaggio per Varese.
Questo, a ben vedere, il mio unico incontro ravvicinato con Gigi Riva, il migliore calciatore di sempre all’attacco, in grado di compiere gesti atletici assoluti e inimitabile per la capacità che aveva, in specie se schierato in nazionale, di fare gol ogni qual volta il pubblico, in piedi ad applaudirlo entusiasticamente ‘sentendo’ che qualcosa di bello stava per accadere, glielo chiedeva a gran voce.
‘Rombo di tuono’ – come giustamente lo aveva nomato Gianni Brera – pur nato in pieno Varesotto, non ebbe mai a giocare tra i biancorossi del capoluogo essendo stato scartato ad un provino da insipienti esaminatori (leggenda vuole che uno tra questi, dopo averlo visto all’opera, abbia detto “Non va bene: ha solo il sinistro”!).
Approdato dopo Legnano (dove già aveva fatto vedere di quale pasta fosse) al Cagliari, si ‘vendicò’ segnando al povero Varese caterve di gol, in particolare al Franco Ossola di Masnago.
Frequentatore all’epoca degli stadi, mi occorse di seguirlo in molteplici occasioni e di verificarne una particolarità: da noi, invariabilmente, insaccava i suoi tremendi sinistri o le sue forti zuccate nella porta che dà verso il Sacro Monte trascurando quasi sempre quella opposta.
Accadde infine che, oramai prossimo a chiudere la sua carriera e purtroppo menomato dai gravissimi incidenti alle gambe che aveva dovuto sopportare in maglia azzurra, Riva, ovviamente con il Cagliari, approdasse ancora una volta a Masnago.
Le due squadre, trascorsi i felici anni di gloria, militavano poco decorosamente.
In tribuna, prima del fischio d’inizio e avendo constatato che solo nel secondo tempo gli isolani avrebbero attaccato appunto verso la porta incriminata, dissi ai vicini di sedia che speravo che il Varese, in quella prima parte di gara, segnasse almeno due gol perché, di certo, nei quarantacinque minuti successivi, Gigi almeno uno lo avrebbe messo a segno.
Ahinoi! Il primo tempo finì invece zero a zero e verso il quindicesimo della ripresa il vecchio ‘Rombo di tuono’, leggermente sulla destra, palla al piede, si avvicinò all’area di rigore biancorossa.
Tutti, portiere compreso, aspettandosi che entrasse nei sedici metri e si portasse la sfera sul mitico sinistro, si apprestavano a contrastarlo nel modo più acconcio.
Ma non si è grandi se non si è capaci di stupire ed è con il destro e dal limite che Riva segnò indirizzando il tiro esattamente nell’angolino.
Unico tra i varesini (spiace ricordarlo), mi alzai in piedi ed applaudii a lungo.
La porta verso il Sacro Monte era stata ancora una volta violata da quel vero’ figlio del cielo’!
Sportivamente parlando, raramente sono stato altrettanto felice!
John Vigna
‘Ho uno chassis di ferro!’
È per via di John Vigna che ho potuto dirlo.
E, soprattutto, che ancora oggi, andando verso gli ottanta e certamente non più allenato, è.
Capita allora che ho dieci, dodici anni e sono grasso e molliccio.
In cartolibreria – quella stretta e lunga dei Pontiggia, in centro, con gli scaffali in fondo, oltre il bancone – scovo il suo ‘Muscoli e bellezza’.
Ha in copertina un tipo davvero tosto, in grande forma, ed è una ‘Bibbia’ della cultura fisica (scorrendo le prime pagine e vedendo le illustrazioni degli esercizi, accerto).
Il massimo per quanto riguarda l’educazione del corpo, disciplina della cui esistenza neppure sospettavo.
Certo, molto sarebbe scemato e forse perfino scomparso l’immediato mio interesse se quell’opera – negli Stati Uniti stava buttando gli avversari fuori dal ring Rocky Marciano, mica balle! – fosse apparsa a firma Giovanni Vignarelli, vero nome (decisamente, basta un niente, meno affascinante e per fortuna, solo decenni dopo venni a conoscerlo) dell’autore, un torinese, che nella quarta di copertina si presentava quale ‘italoamericano’, selezionato nella formazione Rugby a quindici internazionale, qualunque cosa questo significasse.
Ho penzolato da quel momento per una decina d’anni dalla parte superiore delle porte delle camere in casa, su e giù a forza di braccia.
Ho fatto milioni di saltelli e corsette.
Piegamenti e torsioni a pioggia, un diluvio.
E, come dicevo, è così che ho messo mano e definito la mia struttura portante, lo chassis.
Formavo e definivo a quel mentre leggendo onnivoramente altresì passioni di ben differente cultura.
Prevalente – a conferma della cui verità è il fatto che, per dire, avendolo a piacimento sotto mano, ho trovato subito nei miei scaffali il favoloso ‘Le quarantotto Americhe’ (diventò ‘Le cinquanta…’ dopo l’ingresso nell’Unione d’oltreoceano di Alaska ed Hawaii nel 1959) di Raynond Cartier e non so dove sia ‘Muscoli… – quella per la storia politico istituzionale USA.
Sto in queste ore – alle viste le Mid Term Elections di novembre – scrivendo in proposito la centomillesima pagina.
A pareggiare, nel lampo del subitaneo ricordo di Vigna, esercito le braccia contro la spalliera del letto
Un paio o tre minuti.
Non di più.
È dura!
Yuri Vlasov.
Muoiono incredibilmente tutti.
Superuomini non di cartapesta compresi.
Avevo sedici anni e alle Olimpiadi di Roma l’atleta per me eponimo non fu la ‘gazzella’ italiana dei duecento metri piani Livio Berruti.
Resistendo altresì a quel già ‘artista’ tra le dodici corde di nome Nino Benvenuti…
perfino al carisma, ancora sul ring, dell’allora medio massimo Cassius Clay, futuro Muhammad Ali…
alla ‘croce’ che il ‘re degli anelli’ di sempre Albert Azarjan nel bianco e nero televisivo rese immortale…
alla estremamente affascinante affermazione del ‘maratoneta scalzo’ etiope Abebe Bikila…
a quell’eccellenza assoluta, collocai un sollevatore di pesi sovietico di nome Yury Vlasov, in grado di alzare oltre duecento chili nello slancio – una misura assolutamente sovrumana a quei tempi – e naturalmente vincere l’Oro.
Imbattibile tra Mondiali ed Europei (per sconfiggerlo quattro anni dopo a Tokyo un compagno di squadra, che per questo comportamento non merita d’essere citato, ricorse a un inganno), Vlasov si issò nella Città Eterna – con apparente estrema naturalezza, senza, sembrava, nessuno sforzo – sul gradino più alto del podio dei massimi del sollevamento per occuparlo nella mia memoria per sempre.
Non che, malgrado il suscitato entusiasmo, mi sia venuto in mente – come un anno dopo a Vienna occorse ad un giovanissimo Arnold Schwarzenegger che sportivamente se ne innamorò – di imitarlo.
Non limitato allo sport – aveva altre frecce all’arco – divenuto col tempo scrittore di successo e intrapresa una carriera politica rilevante, Yury ha vissuto fino al trascorso 13 febbraio 2021 decisamente ‘comme il faut’, come si conviene.
Quello che non va è che – di ferro quale era – sia morto, dicono le cronache, ‘per cause naturali’ quando, di tutta evidenza, per lui, proprio non poteva essere ‘naturale’ andarsene!
Serena Williams.
Finalmente!
Lo so, sono antipatico a dir poco.
Ma finalmente (non se ne poteva più di questa preagonica faccenda) Serena Williams – il 3 settembre 2022 – appende la racchetta al chiodo.
Quanto al luogo, New York e al Campionato, Flushing Meadows – lei americana – quello più giusto e sul campo più importante (dedicato a quella magnifica persona che è stato Arthur Ashe, e definire Arthur come individuo, Uomo, ‘magnifico’ è veramente poco).
Quanto all’avversaria – una australiana di non eccezionale valore di origini slave (Alja Tomljanovic) che in futuro sarà ricordata soprattutto per questa sua circostanziale affermazione – una che comunque va bene.
Quanto al turno, il terzo – il che vuol dire con due precedenti vittorie – relativamente buono.
Tutto ciò detto, guardando alla carriera, non considero affatto Serena ‘la più grande di sempre’!
Per varie ragioni e pur ribadendo che i risultati ottenuti in tempi tennisticamente del tutto diversi e contro avversarie della propria epoca non sono ovviamente paragonabili, ritengo Margaret Smith Court molto più forte e non solo per il famoso ventiquattresimo Slam in singolo vinto contro i ventitre della statunitense.
Per avere compiuto il Grande Slam nel 1970 (cosa che la mitica Roberta Vinci ha impedito di fare a lei), per avere vinto più doppi, un numero pazzesco di misti (due volte mettendo a segno il
concernente Grande Slam) e in totale sessantaquattro affermazioni al massimo possibile livello.
Per avere ottenuto questi risultati in molti meno anni di attività mettendo al mondo nel frattempo due o tre figli.
Penso poi che certamente la germanica Steffi Graf sia stata ben più grande.
Che Martina Navratilova e Chris Evert, senza dimenticare Monica Seles pre attentato, sia pure non altrettanto, anche.
Che dal punto di vista della intelligenza tennistica, la da lei dominata – come molte altre non altrettanto virili – sul piano fisico Martina Hinghis sia stata superiore.
Per non andare a disturbare Suzanne Lenglen e compagnia bella.
Fra l’altro, come costantemente accade in questo mondo in ogni ambito, quasi si dovesse riparare a chissà quale peccato, nera quale è, la stampa in genere e il pubblico debitamente indottrinato l’hanno celebrata come la prima tennista di colore di calibro assoluto.
Così non è affatto storicamente stato perché in anni infinitamente più difficili per i neri americani, ben in precedenza delle aperture e riforme nell’ambito dei diritti civili che si devono a Lyndon Johnson, Althea Gibson aveva vinto e stravinto negli anni Cinquanta (undici Slam, cinque dei quali in singolo).
Tutto ciò detto, un doveroso inchino e tutti gli auguri di questo mondo!