di STEFANO LORENZETTO
(L’Arena)
Si chiamano refusi. In origine erano caratteri sbagliati per stile o corpo che s’intrufolavano in un testo durante la composizione. I giornalisti li attribuivano a un diavoletto vagante di notte in tipografia. Poi, search per estensione, sono stati classificati così tutti gli errori che la casta degli scribi inanella giorno dopo giorno. A scovarli provvedevano i benemeriti «corruttori di bozze», come li chiamava Cesare Marchi, figure professionali oggi quasi scomparse, ahinoi. Al Giornale feci in tempo a conoscere Angelo Palatella, che per anni aveva riletto gli editoriali di Indro Montanelli prima di mandarli in stampa. Possedeva un’erudizione smisurata e un radar infallibile per le cappellate, incluse quelle del gigante di Fucecchio – talvolta anche il buon Omero si appisola – e dei direttori che gli succedettero. Non vi è testata grande o piccola che sia esente da refusi. Quando uscì l’enciclica Laudato si’, discount feci una scommessa con Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, dicendogli: diventerà un derby fra laudato sì e laudato no, vedrai quanti colleghi scambieranno quell’apostrofo per un accento e trasformeranno «sii», imperativo del verbo «essere» (troncato in «si’» nel Cantico delle Creature di San Francesco), nella particella affermativa «sì». Previsione fin troppo facile: ci sono cascati un po’ tutti, dalla Repubblica al Corriere della Sera (22 settembre, pagina 12,MassimoGaggi),dalSecolo XIX all’Arena (3 ottobre, pagina 25, titolo sbagliato ma testo per fortuna esatto), da Nigrizia ai ciellini (vedere il sito ufficiale del Meeting di Rimini),dall’Expo2015alla Luiss (sarebbe – è – un’università). I più divertenti sono i refusi concettuali. Il 26 agosto sul Resto del Carlino è comparso questo titolo:«Muore prima del funerale». La notizia sarebbe stata ancora più ghiotta se il triste evento fosse accaduto a esequie avvenute (trattandosi però del parroco di Brisighella,fulminato da un infarto mentre si accingeva a celebrare lamessa per un defunto,la cantonata assumeva un qualche significato). Per restare in tema ecclesiastico, ai tempi in cui il giornale della Santa Sede era diretto dal candido Biagio Agnes,comparve questo titolo bogartiano,nel senso che richiamava alla mente un tizio di spalle mentre spalanca l’impermeabile indossato dal protagonista di Casablanca: «Dire Cristo e farlo vedere». Una frase di Vladimir Putin è stata così sunteggiata in un sommario sulla prima pagina del Corriere della Sera: «Noi minacciosi? Ci sono sommergibili su navi americane che in 17 minuti possono raggiungere Mosca». Nemmeno Jules Verne, pur dotato di avveniristica fantasia,avrebbe immaginato sotto marini trasportati su corazzate in grado di navigare fino alla capitale russa addirittura via terra. Infatti nel testo era precisato che sitrattava di missili. Deliziosi anche i doppi sensi involontari. Titolo sulla Stampa: «Muore dopo la discoteca, è giallo». Ittero? Titolo sull’Eco di Bergamo: «Violenza sessuale, la Camera dice sì». Sotto a chi tocca? Titolo sull’Avvenire: «“Non si fa l’abitudine ai cadaveri”.Parla il medico dei migranti: “Facciamoli arrivare in modo idoneo”». Surgelati? Un bravo inviato speciale ha scritto che «a provocare la deflagrazione potrebbe essere stata l’esplosione», circostanza in cui il rapporto causa-effetto sembra in effetti probabile. Un noto direttore ha infilato in un editoriale la frase «a indotto in errore», senza la «h» (vabbè, è lo stesso che in tv, riferendosi al governo di Atene, parlava dei «grechi»). Un altro, che gli è stato maestro,ha scritto che«il comunismo e il nazismo sono morti 70 anni or sono», alla faccia della caduta del Muro di Berlino, avvenuta nel 1989. L’ho presa un po’ larga solo per arrivare a segnalare che i refusi, però, non sono un monopolio dei giornalisti. Con l’aggravante che, mentre i nostri errori alle 11 di mattina spesso si rivelano già utili per incartarci le uova, quelli su metallo restano di norma visibili per anni. Mi riferisco alle castronerie, sempre più frequenti, che capita di leggere sulla segnaletica stradale. Basta uscire dalla A4 al casello di Verona Est e subito la città si presenta con un biglietto da visita che non la qualifica di sicuro per cultura geografica: alla prima rotonda, quella con l’obelisco nell’aiuola, due frecce riportano l’indicazione «Lessina». Forse un omaggio alla Sicilia,un ponte ideale gettato fra la città dello Stretto e il lesso con la pearà. Percorri appena 1.400 metri, entri nella rotatoria di San Michele Extraet’imbatti in altri due «Lessina» al posto di «Lessinia».Incredibile. Seperò vai a controllare le vecchie foto archiviate da Google Street View, trovi la seconda versione: quindi sono riusciti nell’impresa di togliere i cartelli esatti per mettere quelli sbagliati (evvai con le spese!). Diabolico. Non è finita. Rientri in tangenziale est, direzione Valpantena, e 1.800 metri più avanti ecco un cartello a sfondo marron, il colore che segnala luoghi d’interesse storico-artistico: «Villa La Mattarana Sec. XIII°». Esci a quello svincolo (per Borgo Venezia) e ne trovi un altro identico. Ora, è vero che anni fa i giornali e i muri d’Italia furono riempiti di inserzioni e manifesti che reclamizzavano lo spumante «Maximilian I°» e che fior di laureati scrivono «Giovanni XXIII°», ma non è obbligatorio copiare dagli asini. Basta aprire lo Zingarelli alla voce «numero» e leggere la relativa nota d’uso: «Attenzione: è opportuno ricordare che l’esponente (°) va segnato a fianco del numero arabo ma non a fianco del numero romano. Quindi bisogna scrivere Vittorio Emanuele II (e non II°)». Capisco che un operaio possa dimenticare la«i»di«Lessinia»(non quattro volte, però). Tuttavia debbo presumere che quel «Sec. XIII°» gli sia stato trasmesso nero su bianco da un ente pubblico. Chi dirige l’ufficio preposto alla segnaletica?Chi controlla gli ordini inviati alla ditta? Chi verifica che le scritte siano prive di errori ed eseguite a regola d’arte prima di farle installare e, soprattutto, di pagarle? Nessuno. Lo testimonia il fatto che dopo 3.800 metri, allo svincolo per la Valpantena, s’incontra la freccia «Villa Arvedi Sec. XVII°». La media finale è sbalorditiva: uno strafalcione ogni 1.000 metri, visto che se ne contano ben 7 in appena 7 chilometri. Ne traggo due conclusioni. 1) C’è un illetterato recidivo delegato a queste pratiche: urge cambiargli mansione. 2) I nostri amministratori, nonostante viaggino con l’autista e siano perciò esonerati dall’incomodo di doversi concentrare sulla guida, non guardano più in là del loro naso e neppure fuori dai finestrini. Beati loro. Così sulla Transpolesana non vedranno mai il ciclopico tabellone per «Ca’ delgi Oppi» (forse l’autore si diletta in orario d’ufficio con «La Pagina della Sfinge» della Settimana Enigmistica) e le innumerevoli altre sviste disseminate a ogni crocevia. Purtroppo sono passati i tempi dell’editore Mario Formenton, che aveva l’ufficio a due passi dalla villa del «Sec. XIII°»e, fra tante buone abitudini, coltivava quella di accompagnare in incognito i malatia Lourdes come barelliere dell’Unitalsi sui treni violetti. Avendo ereditato dal suocero Arnoldo Mondadori la passione per l’arte tipografica, era solito redarguire i direttori dei numerosi periodici della casa per ogni corbelleria che beccava in pagina. Formenton considerava il refuso un evento mortifero, come dimostra un episodio raccontato da Eugenio Scalfari. Sul finire del 1986, il fondatore della Repubblica chiamò al telefono il capo della Mondadori. Avvertendo un’incrinatura nella voce, e ignaro del terribile destino che incombeva sull’amico, chiese: «Mario, che cos’hai? Ti sento così strano. Stai male?». E Formenton, rassicurante: «Ma no, va tutto bene. Ho soltanto un refuso». Era un tumore al fegato.
Stefano Lorenzetto
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