C’è forse un altro periodo che ha visto l’Italia muoversi nel Mediterraneo e in generale nei Paesi fuori dai blocchi geopolitici mondiali con la stessa forza di queste settimane e mesi. Si deve risalire agli anni Sessanta per avere un’idea di che cosa significa tessere le fila di alleanze, muoversi affinché l’evoluzione geopolitica globale sia pacifica e al tempo stesso garanzia di sviluppo per i Paesi e le relazioni economiche. Erano gli anni in cui Paesi come l’Algeria, l’Egitto la stessa Libia che si stavano affrancando dalla dominazione coloniale, cercavano interlocutori nel mondo occidentale. Anni in cui si erigevano muri-simbolo della Guerra fredda. Oggi la guerra è purtroppo reale e vissuta drammaticamente dal popolo ucraino all’indomani dell’invasione russa. Le sue conseguenze economiche sono però diffuse in ogni angolo del mondo e si misurano in termini di bollette elettriche, e in genere energetiche, che aumentano, in prezzi che corrono alimentando l’inflazione.
Avere antenne su quanto sta accadendo dell’energia, della sicurezza energetica, degli approvvigionamenti, è quanto mai prezioso. Claudio Descalzi dal 2014 è a capo dell’Eni dopo 30 anni trascorsi prima coordinando i lavori direttamente sui giacimenti e poi via via con responsabilità crescenti nel gruppo. Un tempo si definiva petrolifero e oggi è molto di più con attività che vanno dalla ricerca alla decarbonizzazione, dalle rinnovabili passando per i servizi, il nucleare da fusione. Descalzi è appena tornato da Washington dove prevede di tornare a giorni. Nella capitale Usa ha ricevuto, primo italiano del mondo imprenditoriale, il Distinguished Business international award dell’Atlantic Council, nello stesso giorno nel quale è stato premiato il presidente del Consiglio Mario Draghi. Un riconoscimento che arriva per la trasformazione tecnologica dell’azienda orientata alla completa decarbonizzazione, all’indomani degli importanti accordi firmati dall’Italia con Algeria, Egitto Congo e Angola per «ottenere nuove opportunità di forniture energetiche per il nostro Paese e per l’Europa».
È evidente che in Europa si sia sottovalutata la situazione. Ma nuove opportunità significa riuscire a potersi sganciare dalla forniture da un partner poco affidabile come la Russia?
«Facciamo un passo indietro. Già prima del conflitto eravamo nel mezzo di una crisi dei prezzi del gas derivante dalla drastica riduzione degli investimenti nella ricerca e sviluppo di idrocarburi, che sono passati da 800 a circa 400/350 miliardi di dollari all’anno e da una conseguente carenza d’offerta a fronte del rimbalzo economico del post Covid».
Guerra o non guerra ci saremmo trovati in questa situazione…
«Il rimbalzo delle economie era evidente. Ma senza energia si fermano industria, sanità, persino l’educazione».
E quindi?
«E quindi il traino delle economie asiatiche, le manovre di stimolo alle economia sia fiscali sia monetarie hanno permesso una cosa alla quale in ogni angolo del mondo si puntava: la crescita. Il post Covid ha determinato una correzione nell’offerta delle fonti. Tenga conto che ancora oggi il 37% dell’elettricità mondiale proviene dal carbone, peraltro producendo il 72% di emissioni di C02».
Immagino che con la guerra…
«Con la guerra la crisi si è accentuata, con una volatilità e picchi di prezzo che peraltro non riflettono i flussi reali del mercato. Oggi la Russia esporta di più di prima».
C’è stata anche speculazione insomma…
«Come sempre accade in questi casi nel mondo della finanza. E’ evidente però che l’emergenza di una potenziale e improvvisa mancanza di gas russo ci ha nuovamente messi di fronte a una sicurezza energetica mondiale non scontata».
E per averla stiamo pagando prezzi elevati.
«Siamo a 5-6 volte quello che si pagava il gas in tempi normali se è questo che intende».
In Europa però si sta accettando perlomeno di discutere la proposta italiana di un tetto ai prezzi del gas.
«E’ evidente che oggi, ripeto, paghiamo 100 quello che pagavamo ieri 20. Chi è preoccupato di provvedimenti distorsivi del mercato dovrebbe riconoscere che in realtà il mercato è già distorto».
Un tetto aiuterebbe?
«Se ben studiato e architettato, potrebbe. Certo, dovrebbe trattarsi di una misura temporanea. Si permetterebbe di riempire più velocemente gli stoccaggi di gas oltre che calmierare i prezzi. A una situazione speculativamente eccezionale si deve rispondere con misure eccezionali intervenendo a monte dove si realizzano ingiustificati superprofitti. Altrimenti il rischio è distruggere il mercato».
E anche imprese e famiglie che ne stanno pagando le conseguenze.
«Eh sì, non dobbiamo dimenticare che siamo in una realtà fatta di sistemi economici e industriali ancora in buona parte legati ai modelli energetici tradizionali. E’ chiaro che ne derivino inflazione, prospettive di crisi economica, imprese che rischiano di chiudere, impoverimento delle famiglie».
Ma la politica, il governo hanno fatto abbastanza per contrastare questo processo?
«Il governo è intervenuto tempestivamente. Le misure di contrasto ci sono state e sono state opportune».
Il conto è stato salato, dagli 8 ai 14 miliardi solo per le bollette… E voi? Cosa avete fatto?
«Abbiamo investito. Ci siamo adoperati per poter dare il nostro contributo alle nostre istituzioni sfruttando al meglio e accelerando la produzione delle ingenti risorse di gas che abbiamo scoperto negli ultimi anni, dirottandole verso l’Europa e verso l’Italia. Con una strategia consolidata da decenni».
Ma tutto questo ci aiuterà a renderci autonomi dal gas russo?
«Tutto questo ci consentirà di sostituire interamente il gas russo nell’inverno 2024-2025».
E questo come può accadere?
«Ogni compagnia ha la sua strategia. Noi vogliamo avere rapporti consolidati con le popolazioni al di là della politica del momento. Le nostre scoperte di giacimenti in Egitto, Libia, Algeria, Ghana, Nigeria, Congo, Indonesia, sono state condivise. Le risorse rimangono in buona parte dove sono state scoperte. Non solo. Ci siamo preoccupati di fornire infrastrutture e tecnologie per garantire lo sviluppo di quei Paese. Un solo esempio: in Libia l’80% del gas scoperto resta nel Paese. E’ un messaggio che l’Europa dovrebbe fare suo pensando soprattutto all’Africa».
Che c’entra l’Africa?
«L’Europa è ancora un continente di Stati, è forse il mercato più grande del mondo. Ma non ha risorse proprie. Chi le ha? L’Africa, che è anch’essa un continente fatto di Stati che stanno seguendo in parte la via dell’unione, dell’Europa. Ma non riesce ad avere l’energia necessaria allo sviluppo perché non dispone di infrastrutture e tecnologia. Che l’Europa può dargli. Una complementarietà tra due attori che possono tornare ad avere un ruolo nella geopolitica mondiale».
Il sogno di Mattei che riteneva la geopolitica decisiva. Ma tutto ciò non rallenta la transizione energetica?
«No se si investe in modo massiccio nell’innovazione e nello sviluppo tecnologico, nonché nella velocizzazione del time to market sia di tutte quelle tecnologie in grado di generare energia completamente pulita, sia di quelle volte a decarbonizzare le fonti tradizionali, come la cattura e lo stoccaggio della CO2, che comunque necessariamente ci dovranno accompagnare nella transizione verso la completa decarbonizzazione».
Scusi ma qui si tratta di parlare soprattutto di soldi, investimenti…
«Ovvio, noi come Eni stiamo seguendo percorso basato sulla leadership tecnologica, nella quale Eni ha investito 7 miliardi di euro negli ultimi sei anni, e che punta ad affrontare la transizione energetica non soltanto puntando fortemente sulle rinnovabili (con obiettivo di 6 GW installati nel 2025 e di 60 GW a fine percorso di decarbonizzazione), ma intervenendo in ogni ambito di decarbonizzazione del sistema, dai settori hard to abate fino alla mobilità sostenibile, anche dove rinnovabili ed elettrificazione non sono — per tecnologia o efficienza — in grado di arrivare. Solo per fare alcuni esempi, produrremo energia non solo sviluppando le rinnovabili, solare ed eolico, ma con idrogeno verde e blu, bio carburanti nelle bioraffinerie, nonché metanolo e idrogeno dai progetti di valorizzazione dei rifiuti; faremo chimica sostenibile sfruttando i materiali da riciclo e materie prime rinnovabili, e produrremo bio metano da processi di upgrading del biogas. Il tutto potendo indirizzare i prodotti decarbonizzati che genereremo verso un vasto parco clienti retail, commerciale e industriale, e relativo alla mobilità sostenibile».
E il nucleare così divisivo? Voi avete investito in una startup con uno spin off del MIT di Boston (il CFS) che sembra promettente.
«Precisiamo che stiamo parlando di fusione a confinamento magnetico, qualcosa completamente diverso dal nucleare attuale basato sulla fissione. Non parliamo di fantascienza ma di una tecnologia pulita, in grado di generare energia pressoché infinita e che all’inizio del prossimo decennio potrebbe avere le prime versioni industriali. E’ per questo che stiamo progressivamente aumentando il nostro impegno nella traduzione industriale di questa tecnologia destinata a diventare il vero game changer della transizione energetica. Il CFS di cui Eni è il primo azionista ha fatto un aumento di capitale da 1,8 miliardi raccolti in pochi giorni. Ciò significa che il mercato ci crede».
Daniele Manca, Corriere.it