Era un pessimista piagnucoloso e sprezzante. Era malato di tubercolosi ossea: la sua statura si fermò a 142 cm con due grosse
gibbosità nella parte anteriore e posteriore del torace. Il suo aspetto lo portava a non curarsi della propria igiene e quindi puzzava
(di Cesare Lanza per LaVerità) Premetto che Giacomo Leopardi, per me, rappresenta fin da quando ero ragazzo, un autentico idolo. E la sua poesia più celebre, L’Infinito, è un capolavoro, a mio modesto parere, insuperabile. Debbo tuttavia aggiungere che – forse esageratamente – quando nutriamo entusiasmo per un idolo, in qualsiasi settore, vorremmo infantilmente che fosse una creatura coerente e perfetta, anche nella vita privata, d’ogni giorno. E le aspettative sono molto spesso deluse. Perciò, soprattutto per Leopardi, sono rimasto molto deluso. La famosa siepe con cui ci ha incantato nei versi sull’ infinito, non gli piaceva affatto, comunque non più di quel tanto che gli bastò per ispirarsi a comporre l’indimenticabile poesia. Fin da piccolo, Giacomino detestava con tutto il cuore Recanati (oggi celebre in tutto il mondo grazie a lui, pilastro della poesia europea nel primo Ottocento), come un paese odioso e noioso, soffocante, privo della pur minima attrazione. Leopardi, nella sua breve vita, fu ben diverso da come lo immaginiamo, leggendo le sue poesie o i suoi, profondissimi, scritti. Era un pessimista piagnucoloso e fastidioso. Altezzoso, superbo, supponente, sprezzante. Eppure, nei suoi Pensieri, troviamo una riflessione che sarebbe valida ancor oggi, duecento anni dopo, proprio nelle miserie di questi giorni: «… i politici antichi parlavano sempre di costumi e di virtù; i moderni non parlano d’altro che di commercio e di moneta, diventando schiavi del materialismo e di ciò che posseggono».
È così Leopardi è considerato uno dei primi poeti ad aver analizzato i rapporti tra l’uomo e il denaro. Era gracile, malaticcio, un povero gobbetto, purtroppo per lui. Ma non ebbe mai il coraggio, la forza d’animo di ribellarsi alla sua condizione (come invece hanno saputo fare milioni di altre persone, colpite da disgrazie o tragedie ben più gravi) con pazienza e tenacia, soffrendo senza lamentarsi. E il suo malmesso fisico ha profondamente condizionato la sua esistenza. Si dice, e Giacomo stesso così si è lagnato, che all’origine ci fosse il suo «studio matto e disperatissimo»: «[…] perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando… E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendendomi l’aspetto miserabile […]». Infatti, l’immagine di Leopardi come quella di un uomo con un’accentuata gobba, negli ultimi due secoli lo ha reso oggetto di scherno da parte di varie generazioni di studenti. Ma «se davvero si fosse incurvato col solo studio, allora si dovrebbe parlare di cifoscoliosi dell’età evolutiva: una patologia che vede implicati anche fattori genetici e ambientali». «Gobbus esto / Fammi un canestro! / Fammelo cupo / Gobbo fottuto!», questa era la filastrocca con cui veniva deriso dai compaesani al suo passaggio, secondo le biografie. Il suo aspetto, inoltre, lo portava a non lavarsi e a non curarsi affatto della propria igiene personale, cosa che ovviamente irritava chi gli stava vicino. Una giovane Matilde Serao chiese un giorno a Fanny Targioni Tozzetti come fosse riuscita a resistere al fascino di un grande poeta come Leopardi, che ne era innamorato. Rispose seccamente con una sola parola: «Puzzava!».
Durante tutta la sua vita, ha sviluppato problemi di salute di tipo neurologico: formicolìi, cefalee, alterata sensibilità negli arti, problemi respiratori e cardiovascolari. Insomma, il suo quadro clinico era complicato e delicato. Leopardi era un malconcio genio, la sua sofferenza era tale da indurlo a pensare di essere sul punto di morire già nel 1816. Antonio Ranieri, un suo amico, scrisse che Giacomo era una vera e propria enciclopedia di stranezze e vizi; faceva colazione nel pomeriggio e pranzava anche a mezzanotte, pretendendo che si cucinasse esclusivamente per lui a qualsiasi orario. Ha inoltre lasciato un elenco di 49 piatti da lui desiderati: maccheroni alle zucche fritte, pastefrolle al frappé, fegatini alle polpette. È tanta la sua passione per il cibo, e soprattutto per i dolci, che una delle supposizioni sulle cause della sua morte riguarda un’indigestione di gelati e confetti. Questa versione è condivisa da studiosi e biografi. Una dissennata e avida passione per i dolci! È stato il primo a scrivere un verso in onore di un pasticcere, Vito Pinto, i cui taralli e gelati erano la sua passione; e anche un sonetto per la cuoca Angelina di cui amava le lasagne. Durante il suo soggiorno a Napoli, la città in cui il poeta morì, egli ricordò «les glaces a la napolitaine», cioè i tarallucci zuccherati che lo mandavano in visibilio. Amava i dolci tanto quanto odiava la minestrina e scrisse un sonetto, intitolato A Morte la Minestra, dedicato all’abominio che gli suscitava. E aveva anche una predilezione per il vino: ne esalta il potere quasi terapeutico. Scrive: «Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze, e se non altro brillare nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura». Era altezzoso, pieno di sé e non mancava di manifestarlo pubblicamente, disprezzando coloro che lo circondavano e attirandosi molte antipatie. Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798. Egli stesso scrisse: «La mia faccia aveva, quando io ero fanciulletto e anche più tardi, un non so che di sospiroso e serio che essendo senza nessuna affettazione di malinconia le dava grazia (e dura presentemente cangiata in serio malinconico), come vedo in un mio ritratto fatto allora con verità». Non amava guardarsi allo specchio. Nei giochi con i fratelli, Giacomo combatteva i tiranni come Cesare e Napoleone, scegliendo le parti di Ettore e di Pompeo. Quando fu colpito dalla malattia, cominciò a identificarsi con Achille. Quando aveva 3-4 anni, seguiva sempre «questa o quella persona», perché gli raccontasse delle favole. E appena più grande s’innamorò dei racconti. Poi divenne l’aedo di famiglia. Nei mattini di festa, disteso a letto nella stanza condivisa con Carlo, improvvisava un lungo poema eroicomico, continuandolo per settimane. C’erano anche molte ombre. Non sopportava il rumore dei temporali. Appena vedeva o sentiva l’avvicinarsi dei lampi o dei tuoni, nascondeva il capo sotto le coperte o accendeva una lucerna, e la lasciava accesa. La notte poteva essere un supplizio: ombre, larve, spettri, fantasmi, visioni, timori, tenebre, sudori freddi, orrori, lugubri immaginazioni, chimere, spasimi, apparizioni di un altro mondo. Era inquieto: perennemente inquieto; e quell’inquietudine si traduceva nel movimento incessante delle mani. Giacomo odiava profondamente Recanati; non parlava con nessuno, nemmeno col padre. Si sentiva disprezzato, schernito, escluso. I genitori gli ripetevano che Recanati era fatta apposta per lui: lì aveva i libri, la tranquillità, la calma, la protezione, mentre fuori, nel mondo, si sarebbe perduto. Ma Giacomo voleva conoscerlo, il mondo. Dopo il tentativo di fuga dell’estate 1819, si chiuse deliberatamente nel suo carcere: prese il suo posto al tavolino della biblioteca, dove scriveva lo Zibaldone. Qualche volta usciva di casa, percorreva Recanati, guardava attraverso la finestra o una porta o una loggia, o si perdeva nello spazio del cielo. Il marchese Filippo Solari di Loreto, frequentatore di casa Leopardi, aveva lasciato Giacomo «sano e diritto» attorno ai 16 anni. Quando lo rivide qualche anno dopo, lo trovò «consunto e scontorto». Attorno al 1819 Giacomo si descriveva «deforme»; e più tardi, quando lo conobbe a Napoli, August von Platen diceva che egli aveva «qualcosa di assolutamente orribile». Sappiamo solo oggi che la sua malattia era la tubercolosi ossea (o «morbo di Pott»), come per primo suppose Giovanni Pascoli. Il suo corpo cominciò a non crescere più: la statura si fermò a 1 metro e 42 cm; la parte alta rimase esilissima; i femori e le gambe si svilupparono, mentre due grosse gibbosità si formarono sia nella parte anteriore sia in quella posteriore del torace. Attorno a queste due gobbe si sviluppò il mostruoso sistema della tubercolosi. I nomi delle malattie si accumulano come in un’enciclopedia degli orrori: impotenza (mentre i desideri erotici accrescevano la loro forza), oftalmia, lacrimazione, stitichezza, disturbi dell’apparato digerente e del basso ventre, insufficienza respiratoria, reumi di testa, di gola e di petto, emorragia al naso, asma, idropisia, bronchite, dolori addominali, gonfiore delle ginocchia e delle caviglie, versamento pleurico, inattività ghiandolare, acutissima sensazione di freddo d’inverno, per via della debolezza cardiocircolatoria. Nessun medico tentò un’analisi 0 un rimedio qualsiasi. Il vero medico fu Giacomo stesso, che applicò al suo organismo moribondo una serie di attenzioni oculatissime.
Se, specie negli ultimi anni, dormiva di giorno e restava alzato la notte, non lo faceva per qualche capriccio, ma perché non sopportava la luce del sole. Se amava appassionatamente i dolci, gli zuccheri, il cioccolato e il tabacco da fiuto, era perché il suo organismo di ipoteso ne aveva bisogno. E se non faceva bagni e non si lavava, era perché il suo corpo gli faceva orrore. Ne distraeva lo sguardo come per una visione insopportabile. Oltre che dalla tubercolosi ossea, Leopardi era torturato dalla depressione psicotica: parlava di un’«ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora», di una «notte fittissima, e orribile», di un «veleno» che lo aveva torturato per lunghissimi mesi. Leopardi comprese che la malinconia cresceva se egli leggeva, studiava, scriveva. Ma cresceva anche se non faceva niente. Furono ricorrenti i suoi tentativi di fuga da Recanati: la prima volta, da ragazzo, addirittura sulla base di un tentativo di furto, in danno del padre: un po’ di denaro per sopravvivere. Ma fu scoperto e bloccato. Provò poi a trasferirsi a Milano, Pisa, Firenze, Roma, Bologna, infine a Napoli, dove si spense il 14 giugno 1837. A Napoli all’epoca infuriava il colera, ma si disse, e si dice, che il grande poeta fu fulminato da una indigestione di gelati. È verosimile, considerando le pessime condizioni a cui Leopardi si era ridotto. Così scrisse, durante il fascismo, Alberto Savinio nella rivista Omnibus: ucciso dalla «cacarella», disse con realistica impertinenza. Benito Mussolini si infuriò e chiuse la rivista.