Sono ottant’anni fiduciosi, seri, impegnati, sorridenti, generosi, ottimisti mai spensierati quelli che Ernesto Pellegrini conteggia al settimo piano della torre al Lorenteggio, mischiando un po’ le carte della vita, rievocando emozioni e ricordi, lasciandosi dietro una scia pulita di sentimenti che sembrano all’antica ma sono invece di straordinaria attualità. C’è la campagna dei nonni, la povertà dell’infanzia, la madre che offre un piatto caldo allo spazzacamino che non mangia da due giorni, il sogno del ragioniere diventato imprenditore, il traguardo dell’Inter, la stretta di mano che vale come un assegno circolare e c’è il coraggio di guardare avanti con due insostituibili parole: tenacia e onestà. È così che è diventato presidente di un gruppo internazionale con 9.400 dipendenti e 700 milioni di fatturato, ed è così che si prepara a nuove sfide, aziendali e magari calcistiche, perché non bisogna mai fermarsi, bisogna sempre lottare, soprattutto oggi, contro la pandemia che spaventa e contro la tentazione di tirare i remi in barca, visto che dei suo ottant’anni almeno sessanta li ha passati al timone. «Cerco di trasmettere agli altri quel che ho imparato dalla vita», dice davanti alla figlia Valentina, di cui è orgoglioso perché sa che prenderà il suo posto mantenendo l’italianità di un’azienda che guarda oltreconfine e investe in ricerca e innovazione. «Ne apprezzo le capacità e gli ideali, sarà lei il futuro della Pellegrini», annuncia.
La città
Si vede Milano dal suo ufficio, un po’ grigia, quasi cupa nei giorni d’inverno, stordita da mesi di lockdown. Ce la farà a riemergere dal buio di questa pandemia?
«Milano ce la farà, ce l’ha sempre fatta. Ricordo gli anni del Dopoguerra, le fatiche, la fame, la città era come desertificata. Ma c’era anche la voglia di fare, di migliorarsi, e c’era la solidarietà, a casa si divideva quel poco che c’era..».
Anche oggi è un po’ così per il presidente che rifornisce le mense aziendali di mezzo mondo e nell’89 ha cucito sulla maglia dell’Inter lo scudetto dei record. «Ogni mattina, quando arrivo in azienda, passo davanti a Ruben e penso alle persone che la crisi lascia in strada: il nostro ristorante solidale non ha mai smesso aiutare i poveri». Ruben è la restituzione di qualcosa del tanto che Pellegrini ha avuto, un risarcimento destinato a chi è rotolato in basso nella classifica della vita. Menu completo e prezzo simbolico di un euro, per salvare la dignità e allontanare l’idea dell’elemosina. Dedicato a un bracciante della sua infanzia, morto assiderato nella baracca: Ruben, dimenticato da tutti. «Avevo il rimorso di non aver potuto fare nulla per lui e l’ho ricordato così, facendo qualcosa di utile agli altri».
Il nuovo welfare
Dal 10 novembre 2014 le cene sono state 329 mila e i posti a tavola da 300 sono diventati 500. Ruben è una case history tra il cuore di Pellegrini e la responsabilità d’impresa: indica la via di un nuovo welfare. Con la pandemia la solidarietà si è allargata a intere comunità: il gruppo ha offerto gratis 55 mila pasti alle persone in difficoltà di 20 Comuni lombardi. «È lo spirito di famiglia: ci si stringe per superare le difficoltà», dice il presidente. Spirito che guarda alle cose che contano e riporta a dove tutto è cominciato: periferia milanese, Morsenchio, campi e cascine intorno a Linate. Pellegrini è nato lì. Oratorio, colonia estiva, tiri al pallone e bagni nelle cave: il mondo di ieri. «Si viveva di poco e si sognava in grande», ricorda. Genitori ortolani, le prime lire con i mazzetti di rosmarino venduti al Verziere, il mercato degli ambulanti. «Ero bravino nelle trattative arabe sui prezzi». Milano poi. Milano che vuol dire amore, come la moglie Ivana. «È stata la mia fortuna averla incontrata». Primo appuntamento nel 1968. Dove? Un ristorante, segno del destino. Ma niente è casuale nell’ascesa del futuro cavalier Pellegrini: contabile alla Bianchi, la prima mensa da gestire, il salto nell’impresa, le nuove acquisizioni. I segreti del successo? Laurà, laurà, laurà, come scrive Camilla Cederna per spiegare gli anni del boom. Ma dietro al lavoro c’è la solida base degli affetti e la capacità di fare squadra. Crede nell’amicizia, Pellegrini. Ne farà un club, per condividere ricordi e sentimenti. Il club degli amici. La domenica mattina, per anni, raduna i vecchi compagni con una partitella nel campo dove è nato: maglie, palloni e pranzo in osteria a carico suo.
Il calcio
E l’Inter? Si avvicina. Gli piace Nacka Skoglund, il mancino svedese che dribbla anche la bandierina del corner. «Lo vedevo in piazza Mercanti dove andava a farsi lucidare le scarpe e mi luccicavano gli occhi per l’emozione». È un sentimentale, ma sogna un posto in consiglio e in tribuna d’onore. Prima però compra Villar Perosa, il centro dove la Juventus di Agnelli va in ritiro e si presenta a Fraizzoli, presidente nerazzurro, con questa lettera: «Sono un giovane imprenditore che gestisce Villar Perosa, ma il mio cuore è nerazzurro…». Il presidente lo chiama e lo porta nel sancta santorum della Beneamata. Che cosa ha significato nel 1984 prendere il suo posto? «È stato come toccare il cielo. Ci siamo accordati con una stretta di mano. Basta questo, mi disse. Sapevamo entrambi che la parola data è un valore». Lo scudetto, le coppe, Rummenigge, Matthaus, Brehme, Klingsmann, la squadra dei panzer.
Con Maradona nel sottopassaggio
Indimenticabile. Nostalgia? «Un rimpianto: potevamo vincere di più, dopo quello dell’89, considero moralmente dell’Inter lo scudetto del 91-92. Dopo la partita persa con la Fiorentina mi telefonò a casa Franco Zeffirelli: presidente, le stanno rubando uno scudetto…». Emozioni e delusioni. «A San Siro ogni volta che ci torno il cuore batte forte. È la mia seconda casa. Mi ha commosso l’applauso dei mille tifosi alla ripresa del campionato, mentre passavo sotto le tribune. È stato un regalo». Rewind: anno dello scudetto. Inter-Napoli, 2-1. Dall’altra parte c’è Maradona. «Ci siamo incontrati nel sottopassaggio. “Presidente, scudetto meritato”, mi disse. La lealtà nel calcio e nella vita è sempre un bel gesto». Abbatteranno San Siro? «Mi auguro di no. Io sono per tenerlo. San Siro è un monumento che parla, come la Scala. È un pezzo della nostra storia».
Cosa diremo del 2020 ai nipoti?
Quanto valgono i ricordi, presidente Pellegrini? «A ottant’anni contano molto, sono valori ed esperienze: non vanno in pensione. Ci sono quelli belli, e sono tanti. Ma ci sono anche quelli tristi. Io prego, l’ho sempre fatto, a mezzogiorno e la sera. Trovo nella fede una spinta a guardare avanti». La pandemia ha reso più difficile il futuro aziendale? «In momenti come questi bisogna darsi da fare, cercare dei salvagenti. Questo è il tempo di agire, di non mollare. Quando i miei nipotini sfoglieranno le cronache di questo matto 2020 immagino che mi chiederanno: nonno, come avete fatto ad uscirne?». E lei cosa risponderà: «Il nonno con Valentina e Ivana, la tua famiglia, hanno fatto tutto quello che hanno potuto». Riassunto: nel 2020 la Pellegrini nonostante il calo di fatturato ha fatto nuove acquisizioni, ha accelerato la digitalizzazione, ha allargato i suoi confini e incrementato il business nel settore pulizie e servizi, ha messo in sicurezza e garantito stipendi a lavoratori e famiglie, ha acquistato a fianco della sede una cascina del ‘400 dove realizzare un’Accademia per cuochi con una Galleria d’arte. Infine: due istituti di ricerca l’hanno definita la migliore azienda in cui lavorare.
La speranza
Pillole di speranza. «Io credo che insieme ce la faremo a uscire da questa tempesta. Vedo molta povertà, troppa gente senza lavoro, tanti che chiedono aiuto. Come nel Dopoguerra: in cascina rubavano la legna per scaldarsi e la verdura per mangiare. Mi sento predisposto ad aiutare, ma faccio fatica a star dietro a tutti. Ci salverà l’umanità, come dice Papa Francesco, dobbiamo seminare anche la speranza». (L’ottimismo deve aver contagiato il nipotino. Si chiama Guglielmo Ernesto e alla domanda: che cosa farai da grande, risponde: «Voglio diventare come il mio amato nonno, il presidente dell’Inter». Pellegrini non smentisce. Perché l’ha venduta nel 1994? Risposta: «Sarà uno scoop, ma glielo dirò un altro 14 dicembre, quando compirò novant’anni»).
Giangiacomo Schiavi, Corriere.it