Anche se le regole non sono sempre così chiare; anche se ci dicono che siamo circondati di gente che non le rispetta ed è pronto ad approfittarsene. Perché se è pur vero che nel gioco e nello sport bisogna battere qualcuno, questa volta siamo tutti nella stessa squadra. E la posta in gioco è molto alta.
Con la riapertura di negozi, bar, ristoranti e di altri servizi “non essenziali”, oggi entreremo compiutamente nella “fase 2”. Cominceremo a “convivere” davvero col virus, e non solo a sopportarlo da “separati in casa”. Chi più chi meno, ognuno di noi in molte delle cose che farà sarà condizionato dalla paura di essere contagiato, dall’apprensione di rispettare le regole e dalla necessità di re-integrarsi in un panorama sociale mutato. E senza sapere quanto a lungo durerà questa convivenza forzata.
Saremo all’altezza della sfida? Sapremo rispettare le regole? Trovare un nuovo equilibrio tra i bisogni di sociali e quelli di sicurezza? Sapremo convivere senza dividerci tra bande? Senza cedere alla tentazione di spiarci l’un l’altro? Di commiserare noi stessi e criticare gli altri? Di lanciare un titolo di giornale o un post sui social alimentando un dibattito pubblico insano – vedi il caso dei navigli di Milano?
È lecito dubitarne. Anzi, molti penseranno che l’esito sia già scontato: non ce la faremo. Perché ognuno pensa al suo tornaconto, e se può ottenere qualcosa non ci penserà un secondo ad aggirare le regole. Eppure, non è sempre così. Anzi. E una delle prove più eclatanti è la storia della sharing economy.
Sembrerà strano citare la sharing economy come un esempio da seguire proprio nei giorni in cui molti dei suoi più popolari ed emblematici servizi hanno l’acqua alla gola: AirBnB, Uber e Lyft, per esempio, stanno licenziando migliaia di dipendenti.
Ma questo non ci deve distrarre dal fatto che, oltre a un modello economico – o sarebbe meglio dire finanziario? – di successo, la sharing economy è stata forse il più grande esperimento sociale mai condotto. Un esperimento che ha portato una grande lezione, per quanto spesso ignorata: che le persone, se messe nelle giuste condizioni, condividono, collaborano, sono civili e responsabili. Molto più di quanto non sembrerebbe ragionevole aspettarsi.
Non è un mistero che aziende ora quotatissime come AirBnB o BlaBlaCar ai loro inizi siano state rifiutate da moltissimi investitori e partner. D’altronde, chi avrebbe mai pensato che milioni di persone sarebbero state felici di dare le chiavi di casa a perfetti sconosciuti? Chi avrebbe mai scommesso che due ragazze minorenni si sarebbero fidate di salire nell’auto di uno sconosciuto per fare un viaggio notturno di trecento chilometri (come accadde nel primo passaggio BlaBlaCar che offrii anni fa)? Nessuno, o quasi. Eppure, tra le milioni e milioni di transazioni e condivisioni create dalla sharing economy, i casi di furti o violenze si contano sulle dita di poche mani.
Cosa ci dimostra tutto questo? Che le persone non sono tanto responsabili, civili o altruiste (o il contrario) per loro natura, come spesso ci è facile credere, ma che le loro scelte e i loro comportamenti sono enormemente influenzati dal contesto in cui sono inserite. “Per-sona”, d’altronde, deriva da “per-sonare”, “suonare attraverso”: le persone quindi “risuonano” in maniera differente a seconda della “cassa di risonanza”, pur mantenendo un loro peculiare “suono”. Un po’ come degli strumenti musicali.
E cosa serve per far “risuonare” bene le persone? Principalmente due cose: regole di ruolo chiare e mentalità dell’abbondanza. Ogni attore coinvolto deve avere chiaro quali sono le aspettative sul suo comportamento e – soprattutto – deve avere la buona convinzione che le risorse a cui mira non sono una “materia scarsa”, ovvero che ce n’è per tutti, senza bisogno di sgomitare o sopraffare gli altri.
Poste queste due condizioni, le persone quasi sempre si rasserenano, collaborano e creano valore aggiunto: come succede nel gioco o nello sport, per esempio, in cui le regole sono chiare e condivise e il valore abbondante è il divertimento, la competizione, lo stare insieme.
Lo abbiamo visto anche durante questa quarantena: a dispetto della retorica imperante sugli italiani menefreghisti e indisciplinati, la stragrande maggioranza degli italiani si è comportata più che civilmente. Perché c’era – c’è ancora; almeno per un po’ – un senso condiviso di bene comune, di una risorsa “non scarsa” come la salute da preservare, e le regole da seguire erano tutto sommato chiare: stare in casa.
Il problema di solito nasce quando si sceglie la strada semplice, e nell’emergenza si punta sulla paura e sulla coercizione: un approccio che permette maggior controllo immediato, ma che presto fa pagare un conto salato. Perché il senso di un bene condiviso da tutelare svanisce in fretta – specie se il nemico è invisibile o sembra allontanarsi -, e perché presto i membri della comunità chiedono sempre più chiarezza nelle regole e inflessibilità nella loro applicazione. Inevitabilmente prima o poi le persone si impauriscono, non capiscono più “a che gioco si gioca”, e la comunità si sfalda.
Faremo quindi bene a “metterci in gioco”: a giocare la partita della “fase 2” senza pensare di controllare e giudicare in ogni momento gli altri. Insomma, fidarsi. Anche se le regole non sono sempre così chiare; anche se ci dicono che siamo circondati di gente che non le rispetta ed è pronto ad approfittarsene. Perché se è pur vero che nel gioco e nello sport bisogna battere qualcuno, questa volta siamo tutti nella stessa squadra. E la posta in gioco è molto alta.
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