Nei giorni scorsi la Camera Nazionale della Moda Italiana (CNMI) ha lanciato un’iniziativa ideata da CNMI Fashion Trust, che ha come obiettivo sostenere i giovani designer e le nuove piccole aziende del fashion che, a seguito dell’emergenza sanitaria ed economica, rischiano seriamente di non riaprire più i battenti.
Per quanto ad alcuni possa sembrare inopportuno parlare del mondo della moda in un momento critico come quello attuale, è proprio per la criticità del momento che è opportuno ricordare che quel mondo costituisce uno dei settori trainanti dell’economia italiana. Un settore che non è fatto solo di grandi brand – da Armani a Zegna a Prada a Cucinelli, solo per citarne alcuni – ma anche di giovani creativi che si candidano a prenderne il testimone in futuro.
Giovani che non si improvvisano imprenditori della moda con uno schioccare di dita, ma che investono prima in studi specialistici e poi in un’attività imprenditoriale. Sono nuove piccole aziende, nate da pochi anni, che hanno assunto dipendenti da pagare, stipulato contratti di finanziamento da rimborsare, comprato materiali per ordini da evadere. Realtà produttive in genere ancora bisognose di affermazione, che la crisi rischia di stroncare, non avendo ancora solidità finanziaria e spazio mediatico, e ora nemmeno più le occasioni e il tempo per costruirsi visibilità. Proprio come tutte le piccole aziende del nostro Paese: la moda non fa eccezione.
Un Paese come l’Italia che della moda ha fatto uno dei suoi settori distintivi e una delle filiere più incidenti sul PIL, non può permettersi di perdere un’intera generazione di attività emergenti, che sono le sole a poter assicurare un ricambio di medio periodo nelle griffe e nelle intelligenze. Per questo è necessario attivarsi velocemente, senza attendere provvidenze pubbliche difficili sia da ottenere sia da distribuire nei tempi stretti dell’emergenza.
Ben venga, allora, la raccolta fondi lanciata dalla Camera Moda Fashion Trust – e in particolare dalle co-chairs Umberta Gnutti Beretta e Warly Tomei – a sostegno dei giovani designers e del loro potenziale per il Made in Italy. Ma perché non utilizzarla come base per un intervento di più ampia portata?
Il denaro raccolto potrebbe confluire in un “Fashion Bond” dedicato alle giovani imprese della moda. Il bond, o altro strumento finanziario innovativo, attirerebbe quegli enormi risparmi privati sensibili verso investimenti socialmente e finanziariamente sostenibili e finalizzati a una causa meritoria.
Non si tratterebbe di solidarietà o beneficenza, ma di un investimento di sostenibilità ESG, attuativo dell’Agenda 2030 dell’Onu, su cui potrebbero puntare in primis i grandi brand della moda stessa. Anziché andare in ordine sparso ciascuno con iniziative spot, rilevanti ma limitate nella loro portata, i giganti della moda potrebbero far convergere gli sforzi in modo coordinato, dimostrando lungimiranza e capacità collettiva di reazione.
Il bond potrebbe essere ingegnerizzato da una banca o da un pool di banche, eventualmente con una compartecipazione pubblica (Cassa Depositi e Prestiti, Invitalia), e attrarre anche investitori istituzionali. Alla eccezionalità degli eventi non si può rispondere con strumenti routinari e vecchi. Serve capacità di innovare profondamente a livello sia di elaborazione concettuale della risposta sia di coraggio nella scelta di strumenti poco o nulla praticati prima. Il mondo della moda può fare da apripista, anche in nome della creatività che lo contraddistingue.
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