Nel corso del 2020 saranno 1.416 gli alloggi popolari che il Comune renderà disponibili e che, uniti ai 1.134 di proprietà Aler, porteranno a 2.550 il totale dell’offerta abitativa pubblica a Milano. Questi i numeri indicati dal Piano annuale dell’offerta ‘Sap’, Servizi abitativi pubblici, come approvato dalla Giunta, che dovrà poi passare al vaglio del Consiglio comunale, in linea con quanto stabilito dalla legge regionale in materia (16/2016). “Stiamo arrivando al raddoppio della disponibilità alloggiativa rispetto agli ultimi anni – dice l’assessore alle Politiche sociali e abitative Gabriele Rabaiotti – e questo grazie all’ingente stanziamento economico sostenuto dal Sindaco e da tutta la Giunta fin dall’inizio del mandato, 120 milioni in tre anni, oltre che dal grande sforzo di potenziamento degli uffici che seguono le istruttorie di assegnazione”. Il primo bando aperto con i nuovi criteri ha raccolto circa 10 mila domande, che andranno ora verificate dagli uffici: “ci auguriamo che il modello regionale non rappresenti un ostacolo nel percorso di assegnazione che in tutti i modi abbiamo cercato di accelerare. E, a questo proposito, aggiungo che inizialmente utilizzeremo i Servizi abitativi transitori soprattutto per far fronte a quelle domande in deroga raccolte negli ultimi anni che il nuovo regolamento regionale non prevede più”, aggiunge Rabaiotti. Dei 2.550 alloggi previsti dal Piano annuale, il 20% sarà riservato ai nuclei familiari che si trovano in condizioni di indigenza (ovvero con Isee non superiore ai 3mila euro), come già deciso per l’ultimo bando utile, chiuso il 6 dicembre scorso, e un altro 10% sarà invece dedicato ai familiari delle Forze dell’Ordine. Oltre a queste quote già stabilite, per volontà dell’Amministrazione il Piano definisce una terza categoria di persone di particolare rilevanza sociale cui riservare in via prioritaria gli alloggi: nuclei familiari in uscita da strutture di protezione sociale e assistenziale (come Comunità genitore/figlio, residenzialità leggera e Comunità educative per minori provenienti da Enti con accreditamento regionale, Rst, inquilini di alloggi convenzionati con il Comune per emergenza abitativa) o da strutture di reclusione. Rispetto agli anni scorsi, la programmazione 2020 evidenzia quindi un notevole incremento della disponibilità di case popolari, frutto degli sforzi messi in atto dall’amministrazione per cercare di rispondere ai bisogni abitativi pubblici, sia attraverso un’accelerazione dei lavori di recupero degli immobili, sia con l’implementazione del personale incaricato della verifica delle pratiche: nel corso del 2019, infatti, sono stati assegnati 1.637 alloggi, di cui 739 Aler e 898 del Comune, nel 2018 il dato era fermo a 1.187, nel 2017 a 1.123 e nel 2016 a 883. Il Piano quantifica anche il numero degli alloggi da destinare ai Sat, i Servizi abitativi transitori, che l’anno prossimo saranno 100 di proprietà comunale (pari al 7,1% dell’intero patrimonio abitativo) e altri 100 di proprietà Aler (pari all’8,8%). Si tratta sempre di unità abitative che fanno parte del patrimonio pubblico, cui è possibile accedere se in possesso degli stessi requisiti richiesti per la domanda di case popolari, come definito dal regolamento per l’istituzione e il funzionamento del nucleo tecnico incaricato di valutarne l’opportunità di assegnazione, anch’esso approvato dalla Giunta. Il contratto per questa tipologia di alloggi può durare al massimo un anno, rinnovabile solo una volta per un altro anno. I destinatari sono in particolare nuclei familiari sfrattati o il cui appartamento è stato pignorato, con provvedimenti già eseguiti o in via di esecuzione.
Il primo fiocco rosa del nuovo decennio di Brescia è quello di Elizabeth, bimba di 2,620 kg, che ha emesso il primo vagito sei minuti dopo la mezzanotte all’ospedale di Desenzano. Il secondo posto spetta a un bimbo nato alla Poliambulanza mentre la terza arrivata è una bimba nata alle 2.13 all’ospedale di Manerbio. A Brescia nella notte di Capodanno sono nati sei bimbi.
Frontista e autonomista, repubblicano e socialista, giacobino e uomo di stato. Raramente un partito si è identificato nel proprio leader, come è accaduto al Psi con Pietro Nenni. In tutte le svolte e le politiche del Partito socialista, dal 1922 al 1969, c’è la sua impronta. E ieri è caduto il quarantennale della scomparsa di Nenni, avvenuta nella notte tra il 31 dicembre 1979 e il 1° gennaio 1980, l’uomo politico che più ha voluto e lottato per la Repubblica. Nato a Faenza il 9 febbraio del 1891 in una famiglia povera, ha cinque anni quando perde il padre. Il piccolo Nenni cresce tra l’insofferenza verso le rigide regole dell’orfanotrofio e la voglia di tuffarsi nelle battaglie sociali che agli inizi del ‘900 sconvolgono l’Italia. Ha solo nove anni quando, subito dopo l’attentato mortale a re Umberto I da parte dell’anarchico Gaetano Bresci, scrive sui muri dell’orfanotrofio: “Viva Bresci”. Quel giorno comincia la sua militanza repubblicana. Appena maggiorenne organizza scioperi nella sua terra e viene ripetutamente condannato per i suoi articoli al vetriolo e i discorsi infuocati contro la monarchia. Durante un ‘soggiorno’ nel carcere di Forlì conosce Benito Mussolini, entrambi erano stati arrestati per una manifestazione contro la guerra in Libia. Allora il futuro Duce è un socialista, rivoluzionario e massimalista, tra i più influenti del Paese. La Grande Guerra è il primo spartiacque della sua vita. Quando cominciano a sparare i cannoni Nenni è ancora repubblicano, ma a guerra finita si avvicina al Partito socialista. In molti lo guardano con sospetto, ma Serrati, il leader della corrente massimalista, gli spalanca le porte dell’Avanti! e del partito. Ironia della sorte vuole che la prima grande battaglia politica nel partito, Nenni la conduce proprio contro Serrati. Quest’ultimo, dopo aver espulso i riformisti di Turati, intende fondere il Psi con il Pci per essere accettato nell’Internazionale comunista. Nenni non ci sta e lo accusa di voler liquidare il partito. Nel 1923 si tiene il XX Congresso e le due linee si scontrano. Vince Nenni e l’autonomia del Psi è salva.
Tre anni dopo fonda il Quarto Stato, un giornale socialista clandestino, assieme a Carlo Rosselli. Pochi mesi dopo, però, l’emanazione delle Leggi Fascistissime lo costringe a lasciare l’Italia e a riparare in Francia. Comincia un lungo esilio che dura quasi 20 anni. Nenni non si abitua mai alla vita dell’esule e continua a pubblicare l’Avanti! a Parigi e a Zurigo. Nel 1930 è il maggiore protagonista della ritrovata unità fra riformisti e massimalisti e nel 1934 è in prima fila per la firma del Patto d’unità d’azione con il Pci.
Quando allo scoppio della seconda guerra mondiale la Francia cade ed è invasa dalle truppe naziste, Nenni si stabilisce sui Pirenei, vicino al confine con la Spagna. Stampa “Il Nuovo Avanti!” e lo distribuisce clandestinamente. “Non è solo la coscienza del dovere a farmelo fare, ma la vergogna che avrei di me a stare con le mani in mano”, scrive sul diario. Non ha intenzione di fuggire, ma intende proseguire la lotta: “Ci sono nella vita – spiega – delle testimonianze da rendere, alle quali non ci si può sottrarre”. Alla vigilia del suo 52esimo compleanno viene arrestato dalla Gestapo. Dovrebbe essere deportato o fucilato, e invece, dopo un mese di spasmodica attesa in carcere, viene spedito in Italia e mandato al confino a Ponza. È stato il suo vecchio amico Mussolini a salvarlo da una morte sicura? Forse, ma non ci sono documenti ad accertarlo. Non appena gli anglo-americani sbarcano in Sicilia torna libero e si dedica alla riorganizzazione del partito socialista, del quale viene nominato segretario. A guerra finita è sconvolto da una tragica notizia: la figlia Vittoria è morta circa un anno prima ad Auschwitz. Nenni è distrutto dal dolore ma continua la sua battaglia per la repubblica e il socialismo con una decisione estranea a tutti gli altri leader politici, tanto che di lui Francesco Saverio Nitti dice: “In Italia c’è un solo rivoluzionario: Nenni. Per fortuna c’è Togliatti a moderarlo”.
Alle elezioni del 1946 per l’Assemblea Costituente il partito socialista ottiene il 20,7% dei voti, mentre il Pci il 18,9%. Solo la Dc va più forte con il 35,2%. La scelta di Nenni senza ambiguità per la Repubblica, che trionfa sulla monarchia, ha premiato. L’anno dopo, però, iniziano i problemi. Il disaccordo sull’alleanza con il Pci porterà la minoranza riformista di Saragat ad uscire dal partito e a dare vita al Psli (poi Psdi). Nenni, davanti alla grave emorragia di quadri dirigenti, pensa di rimediare dando vita a liste uniche con i comunisti, ma è un disastro. Alle politiche del 1948 l’alleanza, ribattezzata Fronte popolare, ottiene il 31% dei voti, ma su 183 deputati eletti solo 45 sono socialisti. È l’inizio di una sudditanza ideologica del socialismo italiano al comunismo, che dura fino al 1956. Quell’anno, dopo che Kruscev denuncia i crimini di Stalin e che i carri armati sovietici sedano nel sangue la rivolta di Budapest, Nenni decide di rompere l’alleanza con il Pci e condanna l’intervento di Mosca.
L’alleanza con la Dc e il ‘centrosinistra’ all’inizio degli anni ’60 per Nenni è una ‘dolorosa necessità’. Il leader del Psi coltiva l’idea di uno splendido isolamento del Psi per accreditarsi come valida alternativa di governo, ma i fatti non gli consentono di mantenere a lungo questa tattica. Il governo Tambroni e le continue minacce di una svolta autoritaria nel Paese impongono a Nenni una scelta: o rischiare di perdere la democrazia o traghettare i socialisti nella “stanza dei bottoni”. E fra le due strade Nenni sceglie la seconda. Qualche anno dopo è ancora il protagonista, assieme a Saragat, della fusione di Psi e Psdi nel Psu. L’esperimento si rivela però un fallimento, anche a livello elettorale, e dopo appena due anni i due partiti di scindono di nuovo. “Ho sbagliato tutto”, disse pochi giorni prima di morire nella notte di San Silvestro. In realtà almeno la battaglia per la Repubblica è riuscito a vincerla e non è stata poca cosa.