Comico, pessimista e fissato con la salute mi riempiva di ricette ma lui non le seguiva
Macché snob. Avevamo gli stessi acciacchi e il papà di Fantozzi temeva solo per me: «Non capisci che puoi morire nel sonno?»
(di Cesare Lanza per LaVerità) Ah, Paolino caro! Mi mette malinconia leggere a volte che aveva un brutto carattere. Scorbutico. Altezzoso. O addirittura superbo. Ma quando mai? Ma con chi? Paolo Villaggio (Genova, 30 dicembre 1932 – Roma, 3 luglio 2017) con me è sempre stato dolce, affettuoso, complice, ironico. E altruista. Qualche volta ci incontravamo in piazza Verbano a Roma, un piccolo cerchio in cui c’è tutto: un bar con i tavolini all’aperto, il cinema, la farmacia, i taxi, i fioristi per strada, i negozi utili. E un’edicola che ho sempre adorato, quando abitavo nei pressi. Lì Villaggio e io prendevamo i giornali e nel bar, Amelie, facevamo colazione. Fu l’edicolante a darmi per prima la notizia: «Il suo amico sta molto male, è andato a trovarlo?». No, non sono andato e non ho rimorsi. Se c’è una cosa che mi spezza il cuore e butta via ogni possibile senso della vita (che ho sempre inutilmente cercato), è proprio veder spegnersi le persone a me care, mio padre e mia madre con i quali ho avuto non solo un rapporto conflittuale, ma anche i personaggi importanti che ho avuto, grazie al mio mestiere, il privilegio di conoscere. Alcuni li ho amati, altri più semplicemente ammirati e stimati. L’elenco sarebbe lungo, e un posto speciale ce l’ha Paolo Villaggio. Per un motivo particolare: è stato l’unico che non ha mai parlato di sé stesso, eppure quante cose avrebbe potuto raccontare, e quanti giudizi esprimere, brillante e caustico – intelligente! – com’era. Paolo ascoltava, osservava, e quando parlava, almeno con me, era generoso, spontaneo, altruista. Eravamo di Genova (lui c’era nato, io ci avevo vissuto per decenni), tutti e due avevamo studiato al mitico liceo D’Oria. Un anno fummo compagni, opinionisti, a Domenica in: lui la star, la gemma del programma; io, che di mestiere ero autore, fui «punito» per divergenze con la grande conduttrice, Mara Venier. Quisquilie! Mara mi voleva bene, ricambiata: mi chiamava il suo Porthos, però avevamo due caratteracci e lei non sopportava (non so se oggi sia cambiata) dissensi e osservazioni critiche. Era un’amicizia importante, ma impervia. Comunque indimenticabili, per me, erano in quelle stagioni le chiacchiere con Paolo. Non stava bene, sia pur senza gravi problemi, ed era sinceramente preoccupato, a volte quasi angosciato per le mie simili condizioni, la mia indifferenza per la mia salute. Tutti e due eravamo sovrappeso, tutti e due faticavamo a muoverci e a camminare. E, di notte, uguali per la difficoltà a respirare. Per di più, tutti e due avevamo il diabete. Ogni domenica, nei camerini e nei corridoi, ma anche in scena, sottovoce (Mara ci sgridava…), seduti fianco a fianco, Paolo mi consigliava un medico o una clinica, una terapia. Quasi un’ossessione.
L’APPARECCHIO PER LA NOTTE
Dubitavo che lui applicasse su di sé i consigli che elargiva a me, pensavo che le raccomandazioni che affettuosamente riservava a me inconsciamente le rivolgeva a sé stesso. E si incazzava se qualche comprimario del cast, senza il coraggio di prendersela con lui, mi sfotteva – per il mio peso super quintalina – con qualche battutaccia. («Imbecilli», commentava, «non sanno cosa sia la vita, vivono senza esistere»). Raggiunse la sua massima cura quando mi informò che gli avevano ordinato un oggetto per riuscire a respirare, la notte, senza difficoltà. Non ci fu verso di sottrarmi. Mi obbligò a seguire il suo esempio. Purtroppo si trattava di un ordigno collegato alla corrente elettrica e io, a letto, non potevo girarmi e rigirarmi senza staccare i fili. L’esperimento durò un paio di notti. Lui la prese come un’offesa personale. Poi si irritò di brutto: «Non capisci che puoi morire nel sonno?». Gli risposi: «Magari, sarebbe la morte migliore». Lo vidi furioso, ma nello sguardo intravidi un velo di consenso. Perciò aggiunsi: «Meglio morire nel sonno senza accorgersene piuttosto che morire essendo coscienti, senza riuscire a prendere sonno». Gli strappai una risatina: «Forse hai ragione tu». Aveva dieci anni più di me e all’epoca non eravamo poi messi tanto male. Ma la salute era una sua ossessione. Eravamo simili per pessimismo e cinismo, ma forse lui (anche se era con evidenza malinconico, come quasi tutti i grandi comici) aveva voglia, molta voglia, intimo desiderio di vivere.
LA DISTANZA DEI COLLEGHI
Leggendo le tante interviste rivolte allo storico cast della saga di Fantozzi, mi colpisce che forse solo Milena Vukotic sia stata in grado di esprimere parole di reale affetto nei suoi confronti come uomo, mentre la maggior parte delle persone che avevano lavorato con lui si sono limitate a tessere le sue lodi in quanto attore, ma attribuendo sempre a Villaggio una certa incapacità di intrecciare rapporti umani, o un atteggiamento freddo e distante nei loro confronti. Già nel 2014, durante un intervento in un talk show, Anna Mazzamauro aveva definito Villaggio «un attore straordinario, come uomo un po’ meno». La Mazzamauro, attrice romana interprete tra le altre cose della signorina Silvani, l’amore proibito del ragionier Ugo Fantozzi – aveva ricordato, riferendosi al suo rapporto con Villaggio fuori dal set, come Paolo fosse «uno snob spaventoso». E che lui le avesse giustificato quell’atteggiamento con le testuali parole: «Io sono amico solo degli attori ricchi e famosi». Non era vero: era una delle sue micidiali e paradossali battute. Comunque io certamente non ero né ricco né famoso, e si creò come con altri un bellissimo rapporto. Oggettivamente riferisco che, oltre alla Mazzamauro, anche Plinio Fernando (interprete della figlia grottesca di Fantozzi, Mariangela) aveva, sia pure in modo più discreto, fatto riferimento al carattere chiuso di Villaggio, e alla loro conoscenza «superficiale», nonostante tanti anni trascorsi insieme sul set. Lascio la parola a lui, il magistrale inventore di Fantozzi: «C’erano due bambini molto belli, biondi, figli di ricchi; tutti i figli dei ricchi sono biondi e eguali, i figli dei braccianti calabresi sono scuri e diseguali». «Sono inviperito per questa tendenza che esiste soprattutto in Italia, forse per le sue radici cattoliche, di riconoscere i meriti degli artisti solo dopo la morte. Come se la morte nobilitasse». «Con Fabrizio De André ho passato l’infanzia e la gioventù, poi vent’anni con Gassman, altri venti con Tognazzi, poi Ferreri, Volonté, Fellini… Insomma… parlo solo “di” qualcuno, non “con” qualcuno… mah!». «Ogni impiegato ne ha una. Sono nuvole maligne che stanno celate dietro le montagne anche 12 mesi, ma quando s’avvedono che il loro uomo sta per andare in ferie gli piombano sulla testa scaricandogli in nuca un quadrato di grandine in un metro per un metro e lo accompagnano implacabili». «Con Fantozzi ho cercato di raccontare l’avventura di chi vive in quella sezione della vita attraverso la quale tutti (tranne i figli dei potentissimi) passano o sono passati: il momento in cui si è sotto padrone. Molti ne vengono fuori con onore, molti ci sono passati a vent’anni, altri a trenta, molti ci rimangono per sempre e sono la maggior parte. Fantozzi è uno di questi».
L’AMICIZIA CON FRESCO
E cosa hanno detto e scritto di lui? Il Secolo XIX nel giorno della sua morte: «È morto a Roma, intorno alle 6. Aveva 84 anni e da alcuni giorni era ricoverato nella clinica privata Paideia della Capitale. Villaggio soffriva da tempo di diabete, e negli ultimi mesi aveva avuto anche problemi respiratori, che per settimane lo avevano costretto al ricovero ospedaliero; qualche giorno fa, all’aggravarsi delle sue condizioni, il trasferimento in clinica». Il grande manager Paolo Fresco: «Quando è morto De André, lui disse “mah, insomma, se uno potesse contare sui funerali che ha avuto Fabrizio, potrebbe valere la pena di morire…”». E per Paolo Fresco, compagno di classe di Villaggio ai tempi del liceo, «con quello che sta succedendo, con il tributo pubblico che da stamattina sta ricevendo, se da qualche parte dell’universo Paolo lo sta guardando, sarà soddisfatto di quello che vede». Il manager internazionale, in passato numero due di General electric e presidente di Fiat, e Villaggio si erano conosciuti a 14 anni sui banchi del liceo Andrea D’Oria di Genova: un’amicizia durata 70 anni. Paolo ha avuto accanto a sé sino all’ultimo i figli Elisabetta e Pierfrancesco: sono stati loro a spiegare come sarebbe stata allestita in Campidoglio la camera ardente per ricordarlo. «Un rapporto complesso»: così tutti e due hanno riassunto la relazione col padre Paolo, spiegando che «non è stato facile, perché era assente, come molti di quelli che fanno questo mestiere – ha detto Pierfrancesco – Ultimamente ho avuto occasione di stare vicino a lui, perché abbiamo lavorato insieme. E questo ci ha permesso di instaurare un rapporto che non c’era mai stato». Anche Elisabetta ha parlato di un rapporto complesso, che però «mi ha insegnato a essere più forte: non era una persona semplice in senso assoluto». Quanto a «come papà vorrebbe essere ricordato? Con un funerale a San Pietro», hanno detto con un sorriso tutti e due i figli: «Diceva spesso scherzando che “se devo avere un funerale in chiesa… lo voglio a San Pietro”».
RAGIONIERE UNIVERSALE
Il suo successo è stato eccezionale: un elenco infinito di film, decine di libri, gli interventi e i programmi televisivi… Ma la sua grandezza è stata quella di aver creato Fantozzi, un personaggio di valore universale: l’impiegato sfigato, vile, meschino, pauroso, in ginocchio di fronte ai capi. Una figura, una maschera presente e uguale in ogni Paese del mondo. Vi ho già detto che non parlava volentieri di sé. Una volta gli dissi: «Se tu fossi nato in America, saresti celebrato come Charlot, grazie a Fantozzi». Da parte sua, neanche un sorriso. Aggiunsi che pensavo la stessa cosa di Totò. Annuì: «Su Totò hai ragione». Non dimenticherò mai quegli attimi di malinconia. Mormorò: «Ma che senso ha parlarne? In vita? Ci sono cose più urgenti». Bene, ora che è morto, riconfermo la mia convinzione. Avrebbe anche meritato il premio Nobel, assai più di quello scandalosamente assegnato a Dario Fo.