L’attore-regista-sceneggiatore pugliese compie 60 anni
AUGURI A SERGIO RUBINI (60) Il GRAN FUGGIASCO DI BARI
(di Cesare Lanza per il Quotidiano del Sud) Auguri (non solo) terroneschi a Sergio Rubini, nato a Grumo Appula, in provincia di Bari, il 21 dicembre 1959 (60 anni). Attore. Regista. Sceneggiatore «Interprete deciso e sensibile di personaggi in bilico tra una certa inadeguatezza esistenziale, una personale rivolta sociale e un eroico bisogno di riscatto, Rubini è anche regista di film dal taglio individuale, perlopiù legati ai temi e agli scenari meridionali» (Massimo Causo, Enciclopedia del Cinema, 2004). Con il Sud, che considera “uno spazio mentale”, ha un rapporto dialettico: «ci vado con grande entusiasmo, ma dopo tre giorni scappo». Gli è rimasto, per scelta, un vago accento che, impastato con la voce nasale, è un tratto della sua personalità d’attore: «Da ragazzo sono andato a scuola di dizione e a 18 anni ho cambiato il timbro vocale. Poi, a un certo punto, ho compreso che dire ‘cosa’ con la ‘o’ aperta oppure chiusa significava cambiare il modo di vedere il mondo. Sono tornato ai suoni di prima, anche per darmi un’identità alternativa… E poi ho messo varie delle mie storie nei miei luoghi, nonostante siano posti dove non ho più vissuto» (Fulvia Caprara, La Stampa)
• Tra i suoi film: Intervista (Fellini, 1987); La stazione (1990, David di Donatello e Nastro d’argento come miglior regista esordiente); Una pura formalità (Giuseppe Tornatore, 1993); Nirvana (Gabriele Salvatores, 1996); Panni sporchi (Mario Monicelli, 1999); Tutto l’amore che c’è (2000); La passione di Cristo (Mel Gibson, 2004, fa la parte di uno dei due ladroni); La terra (2006); Colpo d’occhio (noir del quale è regista e sceneggiatore, 2008); Qualunquemente (Guido Manfredonia, 2011); La scoperta dell’alba (Susanna Nicchiarelli, 2012, tratto da un romanzo di Walter Veltroni); Mi rifaccio vivo (girato da lui, 2013); Che strano chiamarsi Federico (Ettore Scola, 2013); La nostra terra (di Giulio Manfredonia, 2014), La stoffa dei sogni (Gianfranco Cabiddu, 2015); Non è un paese per giovani (Giovanni Veronesi, 2017), Moschettieri del re (Giovanni Veronesi, 2018). «Il cinema m’ha dato una grande opportunità: quella di conoscere, e conoscermi». Parla quasi sempre di sé, nei suoi film? «Certo, ma con mistificazioni. Nel senso che mi viene da raccontare ciò che avrei voluto che fosse successo, incontri come non sono mai avvenuti. I film più ‘miei’ sono anche menzogneri» (Rodolfo Di Giammarco, la Repubblica). In televisione: ha recitato nella fiction Rai La contessa di Castiglione (Josée Dayan, 2006). A teatro è stato impegnato nella stagione 2013-2014 con il dramma di Cechov Zio Vanja, diretto da Marco Bellocchio. «Tutto sta nei capelli. Il fatto che non misono maipettinato genera una serie di equivoci. Io scomposto, caotico, scapigliato, zingaro, casinista del sud. E invece poi sono uno regolare, molto meno meridionale di come sono visto» «Rubini parla col suo tono pacato un po’ filosofale, sornione, anche bonariamente grifagno. Ha i capelli (effettivamente) molto in disordine» (Di Giammarco).
VALERIA GOLINO, LA CONTESSA CON LA GIOVANE IN FIAMME
Valeria Golino (Napoli, 22 ottobre 1965) è tra i protagonisti di “Ritratto della giovane in fiamme” di Céline Sciamma, con Noémie Merlant, Adèle Haenel, Luàna Bajrami e Cécile Morel. Paolo Mereghetti ha scritto sul Corriere della Sera: «Con Portrait de la jeune fille en feu (Ritratto della giovane in fiamme) Céline Sciamma ci mette di fronte a cosa voglia dire concretamente un “cinema delle donne”. E non certo perché manchino totalmente i personaggi maschili, ma perché nel raccontare l’incontro, nella seconda metà del Settecento, tra due sensibilità femminili respiri una tensione e provi una emozione che solo una donna sa trasmettere. Questione di distanza, di empatia, di reattività, il cui merito va diviso equamente anche con le attrici, e che sa rendere emozionante una storia che poteva rischiare la banalità o,peggio, la volgarità.Raccontata in un lungo flashback (che ne accentua il senso di rimpianto e di perdita), seguiamo la pittrice Marianne (Noémie Merlant), chiamata in Normandia da una contessa (Valeria Golino) perché faccia il ritratto alla figlia Heloïse (Adèle Haenel): serve per concludere il matrimonio della giovane con un pretendente italiano, di Milano, che però la giovane non vuole, e per questo si rifiuta di posare. Marianne dovrà presentarsi come una specie di dama di compagnia e studiarsela ben bene per poi dipingerla di nascosto. Compito non facile, che urta anche con la strana tensione che nasce ben presto tra le due. Sciamma, che ha scritto anche la sceneggiatura, punteggia la storia di allusioni e riferimenti alla condizione femminile (il destino del convento per chi non può contare su una dote, i matrimoni combinati e il suicidio come via per evitarli, l’odissea dell’aborto), e intanto fa crescere la tensione tra le due protagoniste, entrambe in difficoltà nell’esprimere quello che sentono e provano. E che l’espediente delle sedute di posa (perché a un certo punto Heloïse torna sui suoi passi), con i suoi silenzi e i suoi tempi apparentemente morti, finisce per trasformare in una specie di bomba a scoppio ritardato. Sia la Merlant che la Haenel sono perfette nel restituire la passione trattenuta di queste due donne che scoprono sentimenti allora considerati proibiti, mentre la messa in scena sa inquadrare perfettamente le due giovani in un mondo che le ingabbia ma che nasconde anche piccoli spazi di libertà. Così quello che ne esce alla fine è un elogio della sensibilità femminile, del suo bisogno (e diritto) di esprimersi, ma anche la coscienza di una condizione destinata a subire ancora a lungo costrizioni e divieti. Come svela perfetta