L’effetto più evidente dell’operato di Jean Pierre Mustier al vertice di Unicredit è la discontinuità con il passato. In tre anni e mezzo, è arrivato a Milano il 30 giugno 2016 diventando amministratore delegato il successivo 12 luglio, il manager francese ha cambiato i connotati alla banca che Federico Ghizzoni gli aveva consegnato, logica evoluzione, quella, dell’istituto cresciuto a passo di carica avendo Alessandro Profumo alla guida. Oggi Unicredit è una cosa diversa. Difficile dire se migliore o peggiore, certamente più adatta al tempo incerto che stiamo vivendo e il piano industriale presentato la settimana scorsa prosegue nella direzione del cambiamento, tenendo presente due fattori condizionanti: l’invasività delle tecnologie digitali e un perimetro normativo in evoluzione. Il co-responsabile dei mercati di Italia, Austria e Germania, Olivier Khayat, su queste pagine lo aveva anticipato due settimane fa: faremo un piano che cercherà di fare banca al tempo dei tassi negativi, con margini stretti, nell’epoca dell’attenzione febbrile verso i requisiti di capitale. Così è stato.
Focus
Il nuovo piano quadriennale di Unicredit, denominato Team 23, punta a focalizzarsi sulla clientela, offrendo, ha detto Mustier, servizi più evoluti, con un maggior contenuto digitale e un approccio consulenziale alle esigenze della clientela. Industrialmente, completata una importante operazione di de-risking, che ha visto finalmente allocate al di fuori del perimetro della banca tutta una serie di posizioni difficilmente esigibili che erano entrate all’epoca della acquisizione di Capitalia, il focus è su una gestione prospettica del rischio, non solo alla luce delle previsioni economiche, ma soprattutto delle evoluzioni normative che negli anni scorsi hanno fortemente impattato i bilanci dell’industria del credito. L’attenzione è poi rivolta agli investitori. A questi Mustier promette 16 miliardi di euro da qui al 2023, di cui 6 miliardi in dividenti cash, prospettando una attività di riacquisto di azioni proprie e negando risolutamente ogni possibile operazione di fusione e acquisizione, sulle quali comunque la banca è stata impegnata in complesse valutazioni nei mesi scorsi.
L’occupazione
Uno dei temi caldissimi nelle ore successive alla presentazione del piano riguarda l’occupazione. Le prospettate uscite di 8 mila dipendenti, di cui 5.500 in Italia, a cui andranno ad aggiungersi i 500 che usciranno da qui a fine anno in forza di accordi già raggiunti, portando il totale a 6 mila, hanno scatenato le reazioni dei sindacati, risvegliando anche il sopito interesse delle organizzazioni confederali di ogni fede. Non poteva essere diversamente. È però opportuno andare oltre il fuoco di sbarramento della prima ora, guardando alle poche certezze, sebbene il dettaglio sull’occupazione sia estremamente vago, inconsistente quasi, al momento. Qualche mese fa si lanciò l’allarme per la prospettata uscita da Unicredit di 10 mila dipendenti. Oggi siamo a 8 mila e questo è un fatto. Poi, Unicredit conta oggi in totale 85 mila dipendenti, di questi 38 mila lavorano in Italia. L’uscita toccherebbe il 14,4 per cento del totale dei lavoratori italiani nell’arco di quattro anni. Non pochi, ma neppure una catastrofe, perché vanno considerate due variabili: le probabili assunzioni di nuove figure professionali che andranno a dare corpo alla banca pensata da Mustier e il fatto che, naturalmente, oggi, un datore di lavoro come Unicredit da 85 mila dipendenti vede ogni anno avviarsi alla pensione un numero di lavoratori che varia tra le 2 mila e le 2.500 unità. Molti di questi raggiungeranno naturalmente la pensione, altri saranno agevolati da scivoli e da aiuti propri della categoria, come il celebre Fondo esuberi. Diventa strategico capire quindi quante assunzioni il gruppo prospetterà in arco di piano, visto che fortunatamente le tutele (autofinanziate) al settore non mancano.
Cambiamento
Resta la discontinuità operata da Mustier, su cui nessuno, in un Paese immobile come l’Italia, può aver dubbi. Una delle massime istituzioni finanziarie italiane ha infatti rovesciato i parametri della propria attività in 40 mesi. Vale la pena ricordare le tappe principali.
Nel luglio del 2016 Unicredit era presieduta da Giuseppe Vita e contava su tre vicepresidenti (Vincenzo Calandra Buonaura, Luca Cordero di Montezemolo e Fabrizio Palenzona), oltre a ulteriori 12 consiglieri (lo stesso Mustier, Mohamed Hamad Al-Mehairi, Sergio Balbinot, Cesare Bisoni, oggi presidente, Henryka Bochniarz, Alessandro Caltagirone, Lucrezia Reichlin, Clara C. Steit, Paola Vezzani, Alexander Wolfgring, Anthony Wyand ed Elena Zambon). Totale 16. Oggi sono in 13, con un solo vicepresidente. In questi 40 mesi si è poi di molto ridotto il peso delle fondazioni di origine bancaria, protagoniste nel caso di Unicredit e a differenza di quanto è accaduto in Intesa Sanpaolo, di un percorso tutt’altro che virtuoso che le ha portate, come nel caso di Verona, ai margini del consiglio di amministrazione in occasione dell’aumento di capitale da 13 miliardi cash realizzato a inizio 2017. L’operazione di rafforzamento patrimoniale, la più ampia mai realizzata in Europa, è un altro dei momenti di discontinuità imposti da Mustier, a cui vanno poi aggiunte le criticate cessioni del risparmio gestito targato Pioneer, di Fineco, della polacca Pekao, della turca Yapi, di un importante portafoglio immobiliare e della quadreria della casa, oltreché della partecipazione in Mediobanca. Era meglio tenere tutto? Per Fineco sono in molti a pensarlo. Mentre la cessione di Pioneer è stata determinata dalla necessità di rafforzare, in quell’inverno, il capitale senza superare la soglia monstre dei 13 miliardi di aumento cash. Dei brutti colpi, che hanno diminuito le fonti di reddito. Ma al di là delle singole partite quello che appare chiaro in questa discontinuità è l’interrompersi del racconto di una finanza di relazione che prima ha fatto grande e poi ucciso lo sviluppo del Paese. Unicredit si è tirata fuori e ora cerca una nuova dimensione. Qualcuno la definisce paneuropea. Forse è solo più moderna.
Stefano Righi, Corriere.it