Meglio premettere, visto i tempo che corrono: nessun allarmismo da corsa agli sportelli o previsioni apocalittiche. Ma nel giorno in cui il governo collocava 6,5 miliardi di Bot a sei mesi a un rendimento solo in lieve aumento dall’asta precedente (0,163% contro 1,159%) e alla vigilia dell’asta a medio lungo termine del 29 novembre, la vera notizia sul fronte obbligazionario italiano arriva dalla prima banca del paese, Unicredit. E non è una notizia totalmente positiva.
Perché se è vero che l’istituto milanese ha collocato tutti i 3 miliardi di bond a 5 anni denominati in dollari, è altresì cronaca il fatto che per farlo abbia dovuto pagare un rendimento equivalente a 420 punti base sopra il tasso euro-swap, sei volte i 70 punti base extra-swap corrisposti per il bond senior sempre quinquennale non-preferred collocato solo a gennaio di quest’anno, come mostra il grafico qui sotto.
Insomma, una concessione di quasi 150 punti rispetto ai tassi attuali di mercato, pessimo segnale proxy di un già prezzato peggioramento delle condizioni di finanziamento per le nostre banche, dopo settimane di spread in rialzo e tensioni politiche fra governo e Commissione Ue. Insomma, un bel guaio, perché al netto del miglioramento della condizione di capitale e della ratio subordinata di cui Unicredit godrà grazie all’emissione (circa 73 punti base per gli attivi ponderati per il rischio, Rwa), a lasciare interdetto il mercato ci ha pensato un altro dato: ovvero, il fatto che l’intero pacchetto sia stato collocato presso un unico compratore, Pimco, il principale fondo obbligazionario del mondo.
E, incidentalmente, anche uno dei due acquirenti del pacchetto di Npl da 20 miliardi venduti da Unicredit a inizio anno per venire incontro alle raccomandazioni della supervisione bancaria europea. Ma al di là delle cifre e della loro interpretazione, restano alcuni dati di fatto incontrovertibili. Primo, se il principale e più solido gruppo bancario italiano deve pagare un extra-rendimento di questo livello per finanziarsi, quale sarà il prezzo richiesto a soggetti più piccoli e patrimonialmente fragili?
Non a caso, i dati parlano chiaro: da inizio anno ad oggi, le banche italiane hanno emesso bond solo per un controvalore di 60,5 miliardi di euro, il minimo dal 2013. Di più, visto che da qui a un mese, salvo sorprese, alla prossima riunione del board Bce verrà a mancare del tutto anche l’architrave del Qe (Quantitative easing) come compressore artificiale dello spread sovrano, il tasso pagato da Unicredit rappresenta un ulteriore motivo di tensione per la platea degli istituti di credito, ancora stracarichi di Btp, il cui valore eventualmente in calo potrebbe incidere sui loro bilanci.
E non caso, quanto accaduto ha visto intervenire a tempo di record il vice-presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, a detta del quale l’aumento del rendimento dei bond collocati da Unicredit, “è una conseguenza delle turbolenze sui mercati: per i titoli e per i debiti sovrani c’è stato un aumento sostanziale dello spread rispetto a un anno fa e questo ha effetti sull’economia reale”. Insomma, se la nuova “politica del sorriso” del premier Conte e l’arte mediatoria del ministro Tria avevano portato un raggio di distensione nel dialogo fra governo e autorità europee, ecco che l’Ue – tramite il suo “falco” più intransigente – non ha perso occasione per inchiodare l’esecutivo italiano alle sue responsabilità politiche rispetto ai mercati. Pessimo segnale.
E se sempre Dombrovskis ha ribadito che l’allargamento dello spread “ha aumentato il costo di finanziamento per le famiglie e le imprese e avrà affetto sugli indicatori di fiducia”, un giudizio apparentemente meno negativo rispetto all’emissione di Unicredit è stato rilasciato dallo strategist di Abn Amro, Tom Kinmonth, che però conferma un medesimo timore di medio termine per la stabilità italiana: “Il prezzo pagato, ben superiore al tasso di mercato, impatterà sulla profittabilità di Unicredit ma ha messo la banca in una posizione migliore nell’ottica della capitalizzazione per un prolungato periodo di tempo”.
Questo perché “la possibilità di un ulteriore downgrade del rating italiano potrebbe aver giustificato il timing scelto da Unicredit per emettere e anche le condizioni fuori mercato accettate”. La banca non ha commentato l’esito del collocamento, né la composizione del maxi-bond, ufficialmente, di fatto lasciando aperto l’interrogativo rispetto alla natura stessa dell’operazione. Ovvero, private placement concordato con Pimco o, di fatto, operazione di funding sul mercato – valida in ottemperanza al nuovo standard prudenziale Tlac (Total Loss Absorbing Capacity) – attraverso un bond senior non-preferred esattamente come quello emesso a gennaio, che però ha visto solo il fondo d’Oltreoceano interessato?
La seconda ipotesi pare confermata. Paradossalmente, però, anche la prima ipotesi – la più benigna nel quadro di tensione finanziaria italiana – non porterebbe implicitamente con sé buone notizie, poiché potrebbe essere letta dagli operatori non solo come una rincorsa non certo tranquillizzante verso l’ultima finestra di quiete sui mercati prima di un 2019 che già ora si prospetta sfidante (esempio che, se così fosse, potrebbe a breve essere seguito anche da altri soggetti di mercato) ma anche come una sorta di do ut des implicito con dopo la cessione di Npl avvenuta qualche mese fa. Di fatto, Pimco avrebbe operato come “Bce privata” – ma ben più esigente in fatto di prezzo – di Unicredit, prima che il Qe finisca e il mercato resetti e riprezzi i rendimenti.
Una sola cosa è certa, come fece notare a fine ottobre Mario Draghi: le parole del governo fanno danni. Certificato da Valdis Dombrovskis. Ora, la strada della trattativa con l’Ue non pare solo in salita, rispetto alle timide aperture finora fatte filtrare dal governo ma addirittura sempre più connotata dall’immagine di una pistola alla tempia.
BusinessInsider