La sconfitta di Kamala Harris è un capitolo amaro per il Partito Democratico. Appare inevitabile, l’inizio di un momento di riflessione profonda. Non tanto per la sconfitta, nella vita si vince e si perde (fa parte del gioco), ma per le crepe che hanno rivelato l’architettura fragile del partito. La responsabilità della sconfitta non si può apporre su un’unica figura. Eppure Joe Biden sembra essere il nome che riecheggia nelle conversazioni, nei corridoi del partito, nelle pieghe di una sconfitta che ha assunto il sapore di una resa dei conti tanto annunciata quanto inaspettata. Ricordiamo che, come gira su molti giornali, una fonte della campagna elettorale della Harris ha addossato tutta la colpa al presidente uscente.
La sua decisione di restare in corsa per un secondo mandato, nonostante l’età avanzata e il declino della sua popolarità, è stata una mossa che, al di là delle sue intenzioni, ha costretto il partito in una sorta di gioco di sopravvivenza politica. Biden ha difeso la sua posizione con energia, ma la sua ostinazione ha sollevato frizioni tra le file democratiche, spingendo, alla fine, Harris in una campagna che le è parsa più un’imposizione che una scelta strategica. La sua lotta per farsi spazio come alternativa credibile non è riuscita a trovare il sostegno che avrebbe potuto garantirle un minimo di autonomia, mentre il peso di Biden e la sua eredità politica hanno appesantito ogni passo.
Questa è la grande contraddizione di una campagna che doveva rappresentare un’aspirazione al cambiamento, ma si è ritrovata a fare i conti con il passato. Harris, pur con l’appoggio di figure di spicco come Barack Obama e di tante (troppe?) celebrity, non è riuscita a creare una rottura decisiva con il vecchio establishment. La sua campagna, pur essendo intrisa di buone intenzioni, ha finito per riflettere le fratture interne del partito, l’incapacità di costruire un vero rinnovamento. Le minoranze, che avrebbero dovuto costituire la spina dorsale del suo sostegno, si sono rivelate un mosaico fragile, lontano dall’unità sperata. Non si trattava solo di una debolezza politica, ma di un’incapacità profonda, quasi esistenziale, del Partito Democratico di parlare con la stessa intensità e chiarezza a chi, ogni giorno, combatte contro il peso del costo della vita, la paura della sicurezza e le sfide di un’economia che sembra sempre più lontana dalla realtà delle persone. Una politica che si perde nel linguaggio degli intellettuali e delle élite, incapace di entrare nelle vene di chi vive la vita di tutti i giorni.
Nel frattempo, Donald Trump ha vinto, non solo con il supporto del suo popolo, ma con una capacità straordinaria di raccogliere i consensi delle periferie, dei ceti medi e delle minoranze che la retorica democratica aveva troppo spesso dato per scontati. Trump ha trovato nella sua campagna la sintesi perfetta di una narrazione che, pur facendo leva su temi controversi e divisivi, ha risposto a un bisogno di identità e di protezione che i democratici non sono riusciti a intercettare.
Eppure, in mezzo a tutto questo, c’è una nota personale che sfuma nel panorama politico. Joe Biden, in questi giorni di burrasca, ha appreso della notizia che sua nipote Naomi aspetta un bambino. Il contrasto tra l’intensità del momento politico e la dolcezza di una vita che inizia è forse l’unica, piccola, impercettibile consolazione in un giorno molto difficile, per lui. Un giorno che ha visto l’America, per l’ennesima volta, spaccata e confusa. Il futuro marcia sempre su ritmi diversi, vedremo cosa ci riserverà.