Luca de Meo, 57 anni, un tempo il più importante collaboratore di Sergio Marchionne alla Fiat, è oggi uno dei manager italiani in assoluto più influenti al mondo. Presidente e amministratore delegato di Renault, dal 2023 de Meo è anche presidente dell’Associazione dei costruttori europei di automobili (Acea). A maggior ragione peserà molto quel che lui dice in questa intervista al Corriere e a un gruppo ristretto di quotidiani europei: l’Europa è in ritardo in vista dell’obiettivo di transizione piena all’auto elettrica nel 2035 e per questo servirà « flessibilità ».
Crede ancora alla fine della vendita delle nuove auto termiche nel 2035 in Europa? L’opposizione a questo obiettivo si è rafforzata negli ultimi mesi…
«Quando si è deciso, due anni fa, la posizione della Francia e quella del Gruppo Renault era che il 2035 era troppo presto e che avremmo dovuto puntare piuttosto al 2040. Chiedemmo anche di rispettare il principio della neutralità tecnologica e che il per il calcolo delle emissioni di CO2 si considerasse l’intero ciclo di vita dell’auto, dalla culla alla tomba. E non solo la CO2 che esce dal tubo di scappamento. Su questi tre argomenti non ho cambiato idea. Abbiamo bisogno di un po’ più di flessibilità nel calendario delle scadenze. Ma non va strumentalizzato l’attuale rallentamento del mercato per abbandonare in modo puro e semplice l’obiettivo. Sarebbe un grave errore strategico».
Perché sarebbe un errore?
«L’industria europea dell’auto ha investito decine di miliardi di euro in questa transizione. Li buttiamo dalla finestra? No. Il potere politico non può cambiare idea in un momento in cui tutti i nostri sforzi si stanno concretizzando con l’arrivo sul mercato di nuovi modelli. Non dobbiamo rifiutare il progresso».
Che intende dire?
«Le società che hanno rifiutato il progresso nel corso della storia hanno sempre perso. E l’elettrificazione delle automobili fa parte del progresso. Le auto di nuova generazione, quelle che regalano un’esperienza completamente diversa grazie a nuove architetture software, con possibilità di fare aggiornamenti da remoto, sono tutte auto elettriche al 100%. La questione è il ritmo. Rispetto ciò che decide il legislatore. Ma passare dal 10% di quota di mercato per i veicoli elettrici al 100% in 12 anni è davvero molto complicato. E non siamo gli unici a dirlo».
Cosa intende esattamente quando parla di flessibilità nel calendario? Rinviare un po’ la scadenza del 2035 o dire che l’obiettivo non è auto elettrica al 100%?
«Parlate tutti del 2035, ma prima bisogna guardare alle scadenze del 2025 e del 2030. La gran parte dei paesi finora non ha superato una quota di mercato del 5% con i modelli elettrici, mentre ai produttori si chiede di superare il 20% l’anno prossimo e il mercato europeo in generale è al 15%. L’ecosistema deve andare avanti insieme, tutti insieme. Parlo di questo, quando chiedo flessibilità e agilità».
Pensa che l’Europa rifiuti il progresso?
«I cinesi sono in vantaggio, chiaramente. I regolatori, i mercati finanziari e le imprese in Europa devono spingere sul progresso tecnologico. Questa trasformazione è uno sport di squadra: i costruttori hanno bisogno dell’intero ecosistema con loro in questa corsa».
Quando lei è diventato presidente dell’Acea, ha dato l’allarme sui «rischi di deindustrializzazione del continente». Che risposte ha avuto?
«La realtà è che purtroppo le normative europee sull’auto sono state fatte senza un’analisi esaustiva degli impatti. Oggi l’idea di una strategia industriale è più presente: mi dà speranza. Sono un ottimista e un combattente per natura, altrimenti non sarei il capo del Gruppo Renault, ma è chiaro che non possiamo perdere altro tempo».
Quando si vedrà un desiderio di auto elettriche da parte dei consumatori tale da raggiungere quote di mercato dell’80 o 90%? Oggi non si vede. Oppure bisogna pensare ad altri percorsi per la decarbonizzazione?
«L’auto elettrica è solo una delle soluzioni. Non dimentichiamo che le norme sulla CO2 riguardano i nuovi modelli, mentre non si considera mai il numero di auto in circolazione. Anche se vendessimo 15 milioni di auto elettriche in dieci anni, il parco auto in Europa sarà comunque di 280 milioni. Serviranno almeno 20 anni per completare la transizione. Avrebbe dunque senso, allo stesso tempo, accelerare la ristrutturazione del parco auto esistente».
Che intende dire?
«Tra gli standard Euro 1 e 6 abbiamo ridotto gli inquinanti del 90% e l’efficienza energetica è notevolmente migliorata. Va quindi reso più semplice per i consumatori rinnovare la propria auto. E dobbiamo valutare cosa fare sui tipi di carburante. Perché nei prossimi 10 anni non ci saranno abbastanza veicoli elettrici per avere un impatto reale sulla decarbonizzazione. È opportuno spingere l’ibrido plug-in, come stanno facendo i cinesi. Alla roulette non puoi puntare tutto su un colore».
In Italia voi di Renault volete investire in Free to X, la società di colonnine di ricarica di Autostrade per l’Italia, controllata indirettamente dal governo. Sembra che Giorgia Meloni non voglia questa operazione, perché il vostro gruppo è partecipato dallo Stato francese…
«La nostra proposta è buona per l’Italia, potenzierebbe le infrastrutture di ricarica e aiuterebbe gli italiani a viaggiare con l’auto elettrica. Ma se la porta è chiusa, peccato: investiremo in Spagna o altrove».
L’Unione europea deve prendere una posizione ancora più dura sulla Cina e imporre dazi alti come quelli degli Stati Uniti?
«I cinesi hanno visto molto presto l’occasione di un salto tecnologico con le auto elettriche, mentre da noi si discuteva ancora di diesel. Hanno preso una generazione di vantaggio. Ma non dobbiamo politicizzare il tema dei dazi. Per me è una questione tecnica e giuridica. Abbiamo le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio e dobbiamo rispettare il principio di reciprocità. Nei cassetti della Commissione europea ci sono centinaia di dossier commerciali di questo tipo. Il problema è che quando tocca le auto diventa molto visibile».
Le pare una buona idea che si accetti che i cinesi si installino in Europa a fare assemblaggio delle loro auto?
«Chiaramente è un tentativo di aggirare i dazi. Ma penso anche che dobbiamo trovare dei compromessi con i cinesi, perché l’industria cinese può portare molto all’industria europea, stimolandola con la concorrenza, e perché porta tecnologia e materie prime».
L’ipotesi che Donald Trump sia rieletto negli Stati Uniti fa temere una vera e propria guerra commerciale. Che ne pensa?
«Questa è prima di tutto una domanda per Ursula von der Leyen e per la Commissione. Più in generale direi che siamo in un mondo che si sta chiudendo. Ho vissuto tutta la mia vita in un mondo che si apriva. Ed era positivo, non solo per il business. Ci mancherà questo mondo aperto. Ma in Europa non abbiamo scelta: bisognerà che ci adattiamo».
L’attuale instabilità politica in Francia è un problema per un gruppo delle dimensioni di Renault?
«Un’azienda ha bisogno di chiarezza. Spero che la soluzione arrivi il più rapidamente possibile. Al di là della situazione attuale, i politici devono capire che le questioni di strategia industriale vanno oltre il ciclo di un governo o di un’elezione e impegnano il Paese per dieci o quindici anni. Questa stabilità è essenziale, così come quella degli incentivi all’acquisto, che non possono cambiare da un anno all’altro a seconda dei bilanci. Per fare delle scelte, abbiamo bisogno di visibilità sul futuro».
Federico Fubini, corriere.it