(di Tiziano Rapanà) Al netto di ogni fantasticheria dall’idea di alta cucina, come se tutto il progresso sia roba da cucinieri sperimentali e desiderosi di arrovellarsi per cercare gli effetti speciali per stupire pubblico e critica, io voglio omaggiare l’altra cucina. Che è quella della tradizione, la nostra (e in quel noi c’è la radice dell’appartenenza comune al Salento e ai suoi schemi di cucina povera, talvolta vegana ante litteram). Ricevo un messaggio dell’ingegnere Sergio Amato, un professionista affermato e docente molto apprezzato dagli studenti. Mi riporta alla mente i “muersi fritti”. Lui li chiama “morsi”, come è tipico dire dalle parti del Sud Salento. Non li mangio da tempo e li voglio riassaporare. Questo è il messaggio che mi ha inviato, ieri sera: “Cena in due nel ricordo di uno dei piatti preferiti di mio suocero: ‘morsi fritti’. Un piatto povero della tradizione contadina del Salento che unisce tre ingredienti semplici spesso resti di pranzi precedenti: piselli in pignata, pane raffermo e verdura selvatica leggermente scottata. In olio bollente si fanno soffriggere fino a dorarli dei tocchetti di pane a cui si aggiungono i piselli e la verdura scottata. Si cuoce per un paio di minuti e si serve caldo accompagnato da un bicchiere di vino rosso”. Peraltro i “muersi fritti” (io, che sono del Nord Salento, li chiamo così) sono buoni da mangiare con le mitiche fave e cicorie, che del Salento sono l’ossatura del dire/fare/mangiare gastronomia della sua accezione più tipica. Ma tutte le evoluzioni sono sempre benedette, purché non siano respingenti (per il palato ed il portafoglio).