Lunedì 18 dicembre sarà proiettato il documentario dedicato al grande scrittore Piero Chiara, realizzato della televisione Svizzera Italiana ed intitolato “Sul Filo della Memoria”. Varese ancora una volta ricorda il genio di uno dei suoi figli più illustri. L’evento si terrà alla Sala Kolbe, in viale Aguggiari 140. Interverrà Mauro della Porta Raffo.
(di Mauro della Porta Raffo) Conta relativamente il cosa.
Infinitamente di più il come.
Come si scrive, naturalmente.
Della parte più quotidiana, ordinaria, naturale, vera – per la miseria! – del grande narratore luinese.
Non che andassimo d’accordo in tutto e per tutto.
Per carità.
Molti gli interessi diversi anche solo naturalmente per via della differenza d’età (trentuno anni, 1913 e 1944).
Devo necessariamente aggiungere, di estrazione familiare, educazione, provenienza, ambiti.
È che continuamente ci siamo confrontati.
Chissà se poi davvero con affetto?
Della differente dalla rappresentazione.
Che non aveva a fare se non alla lontana con quella del tale che nel 1975, in uno dei ‘’Sali e Tabacchi’ versati per il ‘Corriere del Ticino’, dopo avere lamentato di se stesso “una specie di bassa nascita, di vizio d’origine” che lo aveva “sempre trattenuto” facendolo vivere “con il magma umano che traversa l’esistenza senza osservarla”, lacrimoso fino – per quanto m’attiene – all’intollerabile, affascinato dalla già in precedenza utilizzata ‘bella’ frase, aggiungeva – poverino – “con gli uomini che rappresentano l’arte e la cultura del nostro tempo ho viaggiato sullo stesso treno ma in un altra carrozza”.
Del Chiara, quindi e pertanto e di contro, nei moltissimi, ultradecennali, momenti nei quali, io attento testimone – vivente e vera, senza
costruite noiosità giustificanti chissà quali manchevolezze, che, lungi dal relegarlo, erano (e bene infine lo sapeva) alla base del suo essere e del suo felice raccontare – in lui, fu e apparve assolutamente prevalente, in forza, l’origine, schiettamente, popolare, paesana, che, ove confutata e rimossa, lo avrebbe certamente costretto alla temutissima mediocrità.
Del Chiara che in più – per acquisitiva irrefrenabile natura da chi ereditata? parte siciliana del genitore? parte lacustre del materno Verbano? dal connubio? – nato come era in via Felice Cavallotti, bambino, non appena possibile si era chiesto chi il desso fosse, ne aveva cercato locali testimonianze (una vecchia maestra che glielo rappresentò alticcio e vociante quale lo aveva visto ai relativamente remoti tempi di una campagna elettorale) e studiato vita e azioni nella biblioteca comunale, unico o pressappoco colà a farlo.
E che, sempre indagatore, anziano, acquistato un notevole binocolo con il quale osservare gli occupanti dei da casa visibili altrui balconi, alcuni dei quali con facce, nasi, fronti, orecchie, note e noti, capitava ne ritrovasse vecchie memorie.
Del Piero il cui Padre – dopo un paio di bocciature – ogni fine anno scolastico, doveva chiedere udienza al direttore della scuola elementare frequentata anche in terra piemontese non bastando le sedi lombarde della ‘Costa Magra’ (fucina da sempre di artisti ‘matti’ a legione la qual cosa, a detta di Nanni Svampa – per parte sua per anni ed anni dimorante a Porto Valtravaglia – dipendeva e deriva da una magica vena sotterranea che, scendendo dal Monte Verità, residenza di Herman Hesse e ‘patria’ dei ‘Balabiott’, arriva sulla nostra riva, percorre tutto il Luinese, in parte il Lavenese, piega verso Varese e si conclude in Valcerieso, causando nel percorso la nascita o la maturazione di menti superiori a bizzeffe) per assicurargli, la mano sul cuore, che se lo avessero promosso con un bel calcio nel sedere lo avrebbe portato ad altro istituto.
E che, autodidatta in assoluto, giovanotto ancora, in lunghe, giornaliere ore di lettura e studio, nella quasi soffitta abitata in centro Varese – quattro grosse candele accese a risparmiare il costo della luce dovendo i denari servire per il notturno azzardo, carte, biliardi, casinò che fosse o fossero –
avrebbe affrontato la migliore letteratura internazionale e le ammiratissime pittura e scultura i cui ‘grandi’ celebrerà in eccezionali Elzeviri nella Terza Pagina del Corriere, della quale sarà, altamente apprezzato da Giulio Nascimbeni, firma tra le più prestigiose certamente.
Del figlio che alla amatissima Madre, costantemente in apprensione, lasciando il raccattato (ultimo, a suo tempo – da ginnasiale di ripiego essendo quel titolo indispensabile per partecipare – in graduatoria nel concorso e per questo destinato in Friuli laddove apprese i segreti del vino e pagò ignorare che non bisogna “mai tirar la buca in mezzo né giocar col biscazziere”) posto di Aiutante e poi Cancelliere (e avrebbe in seguito parlato di quegli anni dicendo “Quando ero nella Giustizia”, lasciando ben altre cariche intendere), per rassicurarla sul proprio futuro economico (sapeva la Madre della misera povertà normalmente assegnata agli scrittori) si inventò una conversione nell’allora proficuo e dalla stessa ottimamente considerato mestiere di mediatore di cavalli.
Del narratore, incantatore dapprima orale, che nel 1962, pubblicando ‘Il piatto piange’, compreso esclusivamente dai più colti ed avvertiti critici – gli altri, in particolare a sinistra, orripilati dal volume delle vendite, parlando di un suo successo “nazional popolare” – scuote la letteratura italiana mettendo finalmente al centro della stessa la trascurata (ci si era fino a quel mentre occupati di temi meno volgari, no? per il vero del mondo operaio fiorentino per mano di Vasco Pratolini nel memorabile ‘Metello’ del 1955) Provincia e i suoi umori.
E sappiate che gli improbabili nomi dei protagonisti (Emerenziano Paronzini, Temistocle Mario Orimbelli…) come delle figure minori erano ricavati dai verbali di Carabinieri e Polizia che per mestiere in Tribunale leggeva.
E dirò qui, adesso, qualcosa di sconcertante.
Come l’altra Varesina d’adozione Liala, con assai differente penna e tratto, ha accompagnato i protagonisti dei suoi romanzi sulla soglia della camera da letto, mai entrandovi, perfino nelle famose, belle pagine dedicate al ‘Casino di Mamma Rosa’ – i cui frequentatori svizzeri (erano di là del confine vietate le case chiuse) pagavano per decisione della maîtresse tariffa doppia dato che ‘approfittavano’ di ‘carne italiana’ (espressione non simpatica, certo).
Del profondo conoscitore di Giacomo Casanova, non semplicemente in quanto celebre amatore, anzi, ma per la grandezza sulla pagina altamente illustrata anche in francese.
Casanova in merito al quale avrà a che dire col Federico Fellini impegnato nel film che gli dedicava perché, a suo giusto dire, il Riminese non comprendeva la differenza sostanziale dell’uomo fuggito dai Piombi da Don Giovanni.
Giacomo ogni volta preso dalla persona/donna e vero amante.
Don Juan sprezzante sfruttatore seriale di donne purchessia.
Per carità.
Del capacissimo autore di sapide dediche spesso vergate per creare scompiglio.
Come quando, nella prima pagina de ‘La spartizione’ che un amico aveva appena acquistato, scrisse:
“Al Brusa, maestro di storie simili a questa”, frase che poi, letta dalla moglie, la indusse al pianto.
Del Piero (dirlo? ma si dato il conseguente letterario) che, stitico, ebbe più volte a
chiedere che nei bagni pubblici e in quelli degli esercizi fosse presente una sia pur piccola biblioteca che consentisse al frequentatore obbligato all’attesa una lettura, se non addirittura un piano di scrittura e una penna, fossero improvvisamente spuntate un’idea o una argomentazione.
Del Chiara che, al dunque, riflettendo, sessantenne, confessava che “la cosa tra quante da giovane m’auguravo in avanti di sapere e potere meglio fare era giocare bene a biliardo”, allievo del mitico, ritirato a Luino da ‘pensionato’ del panno e della stecca, universalmente considerato, milanese Forzinetti (e non arriverà a dirgli “Se avessi saputo da chi ha imparato non avrei di certo giocato”, un tale che non poi molto dopo, sconfiggerà in un ritrovo meneghino?)
Del giocatore che nell’apprestarsi a fare scopa, in dialetto, inevitabilmente, usciva con un “Va me l’è bel” che, dopo una brevissima sospensione, calando il Jack o quant’altro fosse, completava con un “far anda’ l’usel”.
Del con il sottoscritto protagonista di omeriche confrontazioni a scopa – giustamente celebrate da Egidio Sterpa nel suo libro dedicato alla Storia del Partito Liberale Italiano – paragonate a quelle che avevano luogo a Roma, via Frattina, Sede nazionale, tra Manlio Lupinacci, Panfilo Gentile, Augusto Guerriero, Mario Ferrara e, una volta, colà capitato per iscriversi (cosa che poi, sviato, non fece), Indro Montanelli, accolto e coinvolto, uno dei predetti assente, da un caloroso “Ecco il quarto!”
Occorreva che Piero, se debitore di una qualche più grande cifra nei miei riguardi (ho una memoria tale per la quale ricordo ogni carta uscita con facilità e lui era, dopotutto, alquanto più anziano, eh eh), mi pagasse ‘in natura’.
È per questo che possiedo litografie di Franco Gentilini (le aveva create per una edizione chiariana di alcune novelle scelte di Boccaccio e del resto le opere alle quali si applicava con gli artisti Chiara sono centinaia e di grande rilievo), Gianfilippo Usellini, Giuseppe Montanari (era il pittore comparso sotto Natale con un suo quadro regalo per Mimma e difatti a Lei dedicato, aveva cercato invano di interromperci, lo aveva infine poggiato sul tavolo andandosene e Piero, a sera, me lo aveva dato a saldo praticamente senza neanche guardarlo), Mario Tozzi, Orfeo Tamburi e, sfiziosissima, la proposta e poi non utilizzata, ma bellissima, ipotesi di copertina mondadoriana per ‘La stanza del Vescovo’ (ricordate che la Villa dove il locale incide è di proprietà della Signora Cleofe Berlusconi? e che, mi viene per collegamento, in tutt’altro contesto un grande venditore al mercato luinese si chiama Bertinotti? e che siamo negli anni Settanta, al riguardo, politicamente, ‘ante litteram’) opera dell’Intrese e da poco scomparso Carlo Rapp.
Spettatore per non pochi anni, intento per parte sua a comporre, Bruno Lauzi – il solo cantautore (ma di quale capacità, leggete i testi!), individualista come era, non schierato a sinistra, qualche volta volontario correttore di bozze per Piero.
E so bene io quanto, apprendista, perdendo apparentemente tempo, ho in quegli anni imparato.
Del profittatore che, ben conoscendo l’anima superstiziosa (e non lo era in proprio al massimo, quasi oltre ogni limite?) del
Rosmino, affrontandolo mazzo di carte alla mano, assumeva mercenari i due camerieri in frac – e pertanto per il rivale ‘corvi del malaugurio’ – perché gli si collocassero dietro per destabilizzarlo.
E gli era una volta riuscito al punto tale il farlo che il desso, fremente, in piedi, contando le banconote a saldo, gli aveva detto “Vorrei avere la tubercolosi per sputarti in bocca!”, segno di disperazione senza limiti.
Dell’amico che stavo per raggiungere al numero 1 di via Bernascone (sede cittadina del Partito Liberale del quale era Segretario Provinciale – Liberale anche sotto il Fascismo, duramente condannato per una goliardica presa in giro del Duce dal regime a Repubblica di Salò sopravvenuta e costretto al riparo nell’amata Elvezia – nonché suo studio) e mi vidi venire incontro con un “Devo vedere Bocca”, la qual cosa significava fare il giro dei Caffè del centro dove si giocava già a quell’ora.
E che trovato quel tale al Centrale, non appena libero dal contendente di turno, aveva affrontato a scopa senza proferire parola.
Che un paio d’ore dopo, senza peraltro alzare lo sguardo, mi disse “Va a pisciare tu per me, che io non posso!”
(Del resto, il fondamentale insegnamento quanto al gioco da lui ricevuto era che prima di cominciare bisogna andare in gabinetto così da evitare successive interruzioni, cosa che nella circostanza non aveva fatto).
E cosa diavolo volesse dire al Bocca o sentire da lui non l’ho mai saputo.
Di colui che a Venezia quale giurato per il Campiello, lasciata in albergo Mimma dicendole “vado al Casinò per un paio d’ore”, scomparso e infine raggiunto nella sala privata da una preoccupata (era la sua condizione di moglie) lei, impegnato alla roulette, congedandola, le aveva sibilato “Credi che mi stia divertendo?”
Del giocoliere con le parole che all’amico Ponzellini che era di Cazzago Brabbia disse che quel nome andava cambiato in ‘Brabbiate Cazzo’!
E che si divertiva a ricordare che fino all’Unità d’Italia Cantello si chiamava Cazzone, nessun significato disonorevole avendo da noi il vocabolo, e che i Doganieri meridionali colà all’improvviso stanziati chiedevano il trasferimento venendo subito mandati a Figazzo, verso Como.
Del conversatore brillante che, a pranzo o cena finiti, intrattenendo i presenti, con incredibile velocità e precisione, si sparava in bocca le briciole che, una alla volta tutte, raccoglieva sul tavolo.
Del Piero che si considerò davvero ‘di successo’ quando cominciò a farsi fare cappelli e scarpe su misura.
E mi sovviene il suo imbarazzo allorquando la vedova di Guido Piovene – sapendo che aveva la stessa misura di piede dell‘appena trapassato – gli regalò un paio di splendidi mocassini bianchi che proprio perché appartenuti a un morto mai avrebbe voluto accettare.
Del Piero che riteneva segno di predestinata fortuna il fatto che una volta, nottetempo, in un campo di lavoro svizzero (Busserach?
Tramelan?) nel quale, a guerra in Italia ancora in corso, soggiornava, accosciato al buio su una turca per necessità, uno dei compagni, non avendolo visto, gli avesse, rarissima evenienza al mondo, non volutamente, pisciato in faccia.
Del grande amatore (a dire bene, eccessivamente sfrontato se in una occasione, a una giovane colta di sorpresa aveva consigliato “una vita di lussuria” e che in una diversa incombenza aveva sostenuto che se fosse nato donna sarebbe andato in giro “con il materasso sulle spalle”, pronto a stenderlo ed adoperarlo ovunque se del caso) che, avendo portato in casa di amici la ‘pizza’ di ‘Una spina nel cuore’ (almeno tre, quattro?, i film buoni, due più degli altri – quelli con Ugo Tognazzi che, significa?, sia pure nove anni dopo, era nato, come lui, il 23 marzo – ricavati dai suoi romanzi) allora inedito, per una anteprima, sentendo le presenti Signore, all’apparire delle gambe di Sophie Duez, dire “Ha la cellulite”, aveva bofonchiato “Ne abbiamo avute di peggio!”
Del quale, atto d’amore – gli ho dedicato, nelle vesti di sceneggiatore, anche, nel decennale della dipartita, un documentario ricco di filmati e testimonianze per la
Televisione Svizzera intitolato ‘Piero Chiara, sul filo della memoria’ – dopo la morte (che ogni anno in non pochi, Davide Boldrini in testa, prima della pandemia, e torneremo a farlo, abbiamo commemorato visitando la tomba e tutti assieme mangiando al ristorante ‘Tre Re’) occorsa in Varese il 31 dicembre 1986 e il ‘Funerale alla Chiara’ a Luino (io purtroppo lontano e impossibilitato) nella cui occasione non pochi tra i partecipanti si accodarono per errore al feretro del Padre di Dario Fo che veniva seppellito lo stesso giorno e solo poi, sentendo ‘Bella ciao’ (un Liberale? quel canto?) capirono l’errore arrivando in Chiesa a bara già in procinto d’essere portata al Cimitero ho scritto:
“Verso la fine del mese di luglio del 1986, bighellonando come spesso m’accade per Varese, girato l’angolo che da via Volta introduce a piazza Monte Grappa, mi ritrovai improvvisamente di fronte Piero Chiara.
Avanzava deciso, percorrendo quei pochi portici con passo spedito e guardandosi intorno con una certa allegra curiosità, come chi, uscito di casa dopo tanto tempo, vada gioiosamente riscoprendo la propria città.
Nulla, all’aspetto, se non forse un’eccessiva magrezza che lo faceva apparire ancora più piccolo, lasciava intendere la malattia.
Gli andai incontro felice, sorridendo, e subito mi accolse stringendomi con calore la mano.
‘Vedi?’, mi fece allegramente,
‘Mi hanno rimesso a nuovo.
Il male è sconfitto.
Sto bene.
Tra poco vado al mare e poi a Cortina.
Tutto come prima’.
Da anni, dopo il doloroso distacco, non lo vedevo se non di sfuggita e da lontano e le notizie sulla sua salute che, negli ultimi mesi, comuni amici mi avevano trasmesso non erano certamente incoraggianti.
Così, guardandomi negli occhi, si rese conto che era necessario rassicurarmi ancora di più.
‘Sai’, mi disse ancora, ‘è proprio vero che sto bene: piscio come un cavallo!’
Sollevato da quelle parole, scoppiai a ridere come certamente si aspettava e, di lì a poco, mi accomiatai non senza essermi fatto promettere un successivo e più lungo vis à vis.
‘Come un cavallo’, pensavo tornando a casa e ricordando l’origine del suo male.
‘Vuol dire proprio che sta bene’, mi dicevo, visto che tutto era cominciato da lì.
Sapevo quanto Chiara apprezzasse e conoscesse i cavalli e rammentavo le volte che mi aveva parlato con ammirazione della potenza della loro pisciata, capace di scavare un solco profondo nella superficie delle strade sterrate della sua giovinezza.
Non immaginavo allora che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro e che quella frase così ‘alla Chiara’ sarebbe stata l’ultima che avrei udito dalle sue labbra.
Piero morì pochi mesi dopo, il 31 dicembre di quell’ormai lontano anno, risucchiato e distrutto dalla malattia che credeva di aver vinto, ma capace, negli ultimi istanti, di lasciare un emozionato ed emozionante testamento in poche parole.
Scrisse, infatti, ad un ignoto amico (e, quante volte, mi sono augurato che vergando quelle righe stesse pensando a me):
‘Non rattristarti e non piangere.
Lo so, sarebbe bello vivere ancora qualche anno, tornare a scrivere, pensare a qualcosa di diverso da questo brutto pensiero, uscire a spasso, parlare senza fatica.
Ma non soffrire.
Me ne vado, non dico contento, ma appagato sì.
Dalla vita ho avuto tanto: belle donne, buoni amici, amori intensi, soldi, gioie e dolori nella giusta misura.
Poi, senza che avessi fatto nulla per meritarmelo, a cinquant’anni è venuto questo dono dello scrivere, e questo successo, quale che sia.
Di più sarebbe stupido pretendere’”.