(di Guido Vigna) Sono stato un giornalista soprattutto onesto e con un fiuto straordinario per i fuoriclasse, del giornalismo s’intende. E in Francesco Cevasco che se n’è andato qualche giorno fa vidi quasi subito il fuoriclasse. Quando nel 1975 Cesare Lanza, da pochi mesi, direttore del Corriere d’informazione, mi promosse, da redattore che ero, a capo della redazione romana, al posto di Guido Gerosa, il Corriere d’informazione, anche per merito di Lanza, pullulava di fuoriclasse e di quasi fuoriclasse, me escluso nonostante i galloni. Credo che in nessun’altra redazione del dopoguerra, e noi al Corinf eravamo quattro gatti, ci sia stata una tale percentuale di giornalisti che poi sarebbero diventati grandi o grandissimi. Qualche nome, senza rispettare l’ordine alfabetico: Walter Tobagi, Vittorio Feltri, Ferruccio de Bortoli, Ettore Botti, Edoardo Raspelli, Massimo Donelli, Francesco Cevasco. Poi ci passò anche Gianni Mura e arrivò Gian Antonio Stella. Tobagi a parte, grandissimo e con il quale mi era difficile andare d’accordo perché per me un po’ troppo curiale, i purosangue mi parvero Donelli e Cevasco: eravamo divisi da più di dieci anni, nei due, genovesi entrambi e importati da Lanza, scorgevo l’alone dei grandi giornalisti, erano nati per fare il mestiere che facevano, erano predestinati, a scalpitare di più era Donelli, Francesco era più sornione e più bravo nella scrittura, già allora il più bravo di tutti. M’è successo una volta di partecipare a un dialogo con due grandi giornalisti italiani che, pur avendo avuto moltissimo dalla professione, pensavano di aver avuto di meno, molto di meno di quanto si meritassero. L’ho trascritto, quel dialogo, nel mio diario come simbolo di ambizione sfrenata. Io, straordinario solo nella meditazione, penso di aver avuto dal giornalismo molto di più di quanto mi meritassi. Cevasco, invece, molto, molto di meno.