Storia ed economia si danno sempre la mano, procedono a braccetto. Non è possibile comprendere l’una senza aver capito l’altra. Ne abbiamo una solida conferma dalla lettura del libro di Salvatore Rossi, Breve racconto dell’Italia nel mondo attraverso i fatti dell’economia (Il Mulino). Per l’autore, l’Italia mette le sue radici attuali durante il Rinascimento. A Leonardo da Vinci Salvatore Rossi dedica il libro, per il genio universale che ha infuso nella sua poliedrica attività: dall’illuminazione che lo ha caratterizzato si trae ispirazione per una favola moderna che spunta nel percorso del volume.
Rossi ci accompagna innanzitutto in un percorso di comparazione con i principali Paesi al mondo. L’Italia è il 25esimo paese al mondo in ordine di popolazione decrescente. La densità della popolazione sul territorio è alta (quasi 200 persone per chilometro quadrato), ma non altissima, inferiore a quella del Giappone, del Regno Unito, della Germania. L’Italia ha, dopo il Giappone, la popolazione maggiormente baricentrata verso le fasce d’età più anziane, dunque è una delle società che invecchia di più. La bassa natalità ci proietta in un inverno demografico.
In Italia il 59% della popolazione totale in età da lavoro ha effettivamente un’occupazione. In Cina il 65% della popolazione in età da lavoro è occupato. Negli Stati Uniti la percentuale di occupati sul totale della popolazione in età da lavoro è del 66%, in Francia del 67%, in Germania del 76%, in Giappone del 78%. L’Italia si colloca a metà della graduatoria, se consideriamo il numero medio di ore alla settimana che un lavoratore impiega nel suo lavoro. La classifica dei sei paesi considerati, in ordine crescente, è la seguente: Francia 30, Germania 34, Italia 36, Giappone 37, Stati Uniti 37, Cina 46. Ma soprattutto va segnalato che la produttività italiana è inferiore del 27% a quella americana, del 20% a quella tedesca e francese. Soltanto il Giappone ha un livello di produttività inferiore all’Italia.
La Germania è il Paese più orientato verso i mercati esteri: le esportazioni equivalgono a quasi metà del prodotto interno lordo. Seconda viene l’Italia, le cui esportazioni valgono un terzo del Pil. Distaccati gli altri, con ultimi gli Stati Uniti, in cui la percentuale delle esportazioni sul Pil si aggira sul 10%, a dimostrazione della preponderanza per il sistema produttivo di quel paese del gigantesco mercato interno. Dunque l’Italia ha un’economia piuttosto orientata ai mercati esteri. Nonostante i progressi compiuti, riusciamo però a vendere all’estero, estremizzando, come dice Rossi, più scarpe che turbine, più beni che non macchine industriali per la produzione.
Il tasso di risparmio di gran lunga maggiore (44% del Pil) si osserva in Cina. La Germania ha un tasso di risparmio del 30%, piuttosto alto per gli standard dei paesi avanzati. Il Giappone, altro paese popolato di «formiche», ha un tasso di risparmio del 28%. La Francia e l’Italia ne hanno, rispettivamente, uno del 24% e uno del 23%. In coda alla classifica gli Stati Uniti, con un tasso di risparmio del 19%. Cinquant’anni fa l’Italia era ai livelli tedesco-giapponesi del tasso di risparmio. Poi è cominciata una tendenza discendente, durata fino alla fine del primo decennio di questo secolo, che ha portato il tasso di risparmio sui livelli americani. Da allora è in risalita, fino ai livelli odierni.
Per avanzo della bilancia commerciale rispetto al Pil la Germania è nettamente prima, con un surplus del 7,4% del suo Pil. Seguono, quasi appaiati, il Giappone e l’Italia, con un surplus rispettivamente del 4% e del 3,1% del Pil. La Cina ha pure un surplus, ma solo dell’1,8% del suo Pil. La Francia è quasi in pareggio. Gli Stati Uniti registrano invece un considerevole deficit, pari al 3,6% del Pil. Il Paese col debito pubblico più alto in rapporto al Pil nazionale è il Giappone, con quasi il 260%, però con uno spread sugli interessi del debito pubblico più basso della Germania. L’Italia ha pure un debito pubblico molto alto, pari quasi al 150% del Pil.
Siamo un Paese di piccoli imprenditori. L’Italia nel 2020 contava 3,6 milioni di imprese, trecentomila in meno di quante ne contasse nel 2007, inizio della crisi finanziaria globale e della successiva recessione. Un numero di gran lunga superiore ai 3 milioni della Francia, ai 2,8 milioni del Giappone, ai 2,5 milioni della Germania. Solo gli Stati Uniti, economia peraltro molto più vasta, superava i 4 milioni.
L’Italia difetta di grandi imprese. Non è sempre stato così: negli anni 50 e 60 del secolo scorso l’Italia poteva vantare molte grandi imprese. Gli anni Settanta determinarono una mutazione del sistema. Nell’ultima classifica di Forbes, fra le 2.000 più grandi imprese del mondo ce ne sono soltanto 26 italiane. Le tedesche sono 52, le francesi 54, le giapponesi 196, le cinesi 297, le statunitensi 580.
Non conosciamo il futuro. Viviamo una epoca di turbolenze e di discontinuità. Quale sarà, nella visione di Rossi, il posto dell’Italia nella società di domani? In un mondo attento al bello e alla libertà, il posto dell’economia italiana, che già non è disprezzabile anche se minacciato di declino, può solo avanzare, perché la nostra nazione sa congiungere il bello, e il buon vivere, con la raffinatezza tecnologica, l’eleganza naturale con la creatività, a volte con il genio. Il mondo che si annuncia potrebbe chiedere al nostro Paese di farlo meglio e di più, anche per indicare la via agli altri. Dipenderà da noi, oltre che dalle condizioni di scenario.
Pietro Spirito, ilmattino.it