(di Tiziano Rapanà) Non voglio la luna e al bando tutti quelli che la promettono nelle campagne elettorali e nelle sere d’estate sui palchi. Perché la luna è una raffigurazione della retorica “del dopo” (dopo l’amore -“ti è piaciuto? È stato bello?”, dopo la chiusura del sipario con i soliti complimenti riverenti al capo comico in camerino, dopo il matrimonio – sia nella fine dello sposalizio, quando è il tempo dei confetti, sia nella fine delle cose). Sempre dopo si guarda la luna, a cose fatte. E prima, sospirando, davanti alla finestrella si guarda a lei come ad un approdo nell’emisfero della tonda speranza. Gli attori sono tutti felloni e guai a prenderli sul serio. Poi esistono i bari dell’ipocrisia, ovvero: io ti mento ed in verità ti dico il vero. Eccoli, ci sono, pochini… epperò ci bastano. Non ti promettono la luna e non fanno nemmeno paragoni con le stelle per fregare le belle signore: “Guardale le stelle in cielo, si vergognano di apparire. Le fai sfigurare, le fai sentire indegne della tua bellezza che illumina la terra”. E così a proseguire fino all’happy ending sognato mille volte, per studiare le posizioni più indecenti da mettere in pratica in quel battagliare sotto le lenzuola che è sempre un’accensione del pensiero di basso lignaggio. Sempre meglio delle rose e delle brutte lettere d’amore accluse, piene di citazioni insulse. E ti verrebbe da dirgli: “Non mortificate queste povere signore con frasi che non vi appartengono, lasciate gli scrittori nel loro triste pantheon da miracolati sopravvalutati, è andate bene a loro e andrà bene anche a voi”. L’ipocrisia, la brutta signora con le gambe storte, è repellente. Eppure molti si accompagnano a lei. Il dramma è la banalità, più dell’assenza dell’ironia. Ovvero: posso accettare un mondo arcinemico delle battute, ma non una società che ride delle fesserie. I mercanti del buonsenso hanno redatto le liste su cosa si può ridere. Molti tacitamente concordano. Io, preferisco continuare nel mio eremitaggio intellettuale. Mi consola la tradizione gastronomica nostrana. Il bello della regionalità che non si riduce a regionalismo culturale, a cavaliere catafratto nei propri pregiudizi. Il bello di tutto il mangereccio dell’Italia che ancora si mostra misconosciuto agli occhi curiosi degli abitanti. E magari fossimo tutti attratti dal bello del poco, dalla cucina che si fa meraviglia con tre ingredienti. La consolazione suprema è sotto gli occhi di tutti, alcuni la notano e l’apprezzano pure.