Sebastiano Aglianò torna quarantuno anni dopo la sua scomparsa nella sua Siracusa – da dove andò via giovane affidandosi alla diaspora siciliana – e lo fa con un libro che non scrisse, se non quanto ai diversi capitoli che lo compongono. Il libro è nato per iniziativa di un critico letterario agrigentino, Alessandro Cutrona, che ha rispolverato alcuni testi pubblicati da Aglianò in occasioni e sedi diverse, ponendoli sotto il titolo “Italiani”. Da Dante a Vittorini”, edito da Succedeoggi. Dopo il celebre “Che cos’è questa Sicilia” del 1945 (edito dalla Libreria Mascali di Siracusa e poi ripubblicato negli anni Cinquanta da Mondadori col titolo “Questa Sicilia”), pamphlet inteso a definire il carattere dei siciliani, “Italiani” punta a tratteggiare la natura di alcuni grandi italiani, visti in maniera diacronica: Dante, Foscolo, Giusti e Vittorini, tutti scrittori alle prese con la coscienza nazionale, da costruire o da consolidare. “Ho fatto molte ricerche negli ultimi due anni – dice all’Agi Cutrona – cercando scritti di Aglianò in cataloghi, archivi e fondi bibliotecari come la rete delle Biblioteche vicentine e gli Annali della Scuola superiore di Pisa, e sono riuscito a mappare l’identikit di un autore caduto nell’oblio ma degno di essere iscritto nel canone del Novecento”.
Il libro conta solo quattro studi critici, ma i testi recuperati da Aglianò sono molti di più e non è escluso che, soprattutto quelli dedicati alla “Divina Commedia”, sua opera di elezione, possano rivedere anch’essi presto la luce. Designano nel loro complesso la figura di uno scrittore defilato che si è impegnato nelle vesti di erudito, non aderendo tuttavia al registro stilistico più retorico e accademico, giacché il tenore della sua scrittura è di tipo discorsivo e narrativo, tale da mascherare dietro il letterato un fine narratore che però è stato preda più degli studi che della sua vena inventiva.Aglianò è infatti autore di un solo libro, “Che cos’è questa Sicilia”, che però è stato sufficiente a fargli un nome, rilanciato nell’anno della sua morte da Leonardo Sciascia che in lui vide non solo il censore dei costumi siciliani ma anche il fustigatore delle logiche di potere imperanti in Sicilia all’indomani della guerra e intrise del sentimento separatista figlio del più vieto sicilianismo. Aglianò, insegnante e poi dirigente scolastico per tutta la vita in Toscana, si è presentato nel Dopoguerra come intellettuale e adesso si ripropone come letterato e italianista. “Un erudito sì – osserva Cutrona – ma attento alle questioni civili e capace perciò di svolgere l’esegesi dei classici in chiave politica, culturale, pensando a una controstoria civile dell’Italia. Il suo è un interesse che travalica gli aspetti solo letterari e fu ben colto da un altro siciliano, siracusano anch’egli, Elio Vittorini, col quale intrattenne uno scambio epistolare pubblicato nelle ‘Lettere’ Einaudi”. Il suo piglio pervaso di invettiva e di denuncia, sparso a piene mani in “Cos’è questa Sicilia”, spiega l’interesse nei suoi confronti non solo del Vittorini sempre alla ricerca di un modo come conciliare politica e società, professando il primato della cultura, ma anche di Sciascia, che in un testo raccolto in “Fatti diversi di storia letteraria e civile”, per voluta assonanza intitolato “Come si può essere siciliani” notava che Aglianò col suo libretto “avvicinava la Sicilia all’Italia, quando sembrava che la maggioranza dei siciliani volesse violentemente allontanarsene”, irretita dalle spinte separatiste e votata a un credo sicilianista in forza del quale la Sicilia era storicamente superiore e quindi in credito nei confronti del Paese.
Aglianò propugnò invece il verbo dell’unità nazionale sicché dalle sfere più animose della Sicilia gli venne un ripudio che ne segnò il distacco e forse anche la rinuncia a continuare a scrivere. Ora “Italiani” risarcisce Aglianò rivelando l’acume e l’acutezza dell’italianista dalla vena brillante, convinto fautore dell’idea di sovranità nazionale in opposizione ai rigurgiti regionalistici che combatté identificandoli in quella “sicilitudine” alla quale Sciascia darà una precisa definizione, parlando di modo d’essere dovuto “a particolari vicissitudini storiche e alla particolarità degli istituti”, da tenere distinta dal “sicilianismo”, che è un sentimento legato invece al dato di natura dei siciliani quali vittime della storia e spinti a far prevalere la loro condizione sulle dinamiche della storia. Aglianò gettò le fondamenta di una dicotomia che ancora oggi non è del tutto chiara nella percezione comune. Dice Cutrona: “Non fu capito nella sua terra, ma valorizzato lontano da essa proprio per la lucidità con cui mosse il suo giudizio sui siciliani e la Sicilia, il cui atteggiamento non poteva accettare in silenzio. Il suo inchiostro liquido di tipo documentaristico si versò sulle falle della società isolana, sui suoi costumi e persino sulla sua stessa cultura. E a quell’altezza è evidente che non poteva non farsi dei nemici”.