(di Mario Bernardo*) Da ottobre scorso, con la numerazione 434-bis, è stato introdotto nel Titolo VI del Libro II del Codice Penale il reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”.
La novità, scaturita dalla reazione del governo al rave di Modena, a distanza di qualche settimana continua a suscitare molte critiche e a infiammare l’agenda politica, per la tempestività con cui si è proceduto, rispetto alle molteplici problematiche cui è chiamato a rispondere in tempi brevi il legislatore, tanto più alla luce del divieto di irretroattività della norma penale, che, impedendo di sanzionare le condotte antecedenti all’entrata in vigore di una nuova legge, ne esclude certamente l’applicabilità a quei fatti di cronaca.
Dunque, questi ultimi sono sembrati un pretesto, poiché, contrariamente alle dichiarazioni di intenzione dell’esecutivo, la nuova fattispecie non sembra mirata a frenare il fenomeno dei rave, che recentemente aveva registrato la morte di giovani, eccessi di droghe e alcolici, nonché il danneggiamento o la distruzione di beni privati per somme assai rilevanti, ma a regolare ogni forma di adunanza.
D’altronde, il titolo utilizzato nel decreto “Norme in materia di occupazioni abusive e organizzazione di raduni illegali”, nonché la generica spiegazione della condotta, contenuta nel primo comma, “consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati”, investono certamente ogni tipo e forma di manifestazione ritenuta pericolosa per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica.
Sicché, la preoccupazione di una svolta illiberale verso ogni forma di dissenso ha preso il sopravvento su ogni altro tema, posto che l’esorbitante pena stabilita tratta gli organizzatori e i promotori con maggior rigore rispetto ai responsabili di fatti criminosi ben più gravi.
Infatti, la condanna prevista sembra più il frutto di un impeto repressivo che di una riflessione tecnica, per le significative sperequazioni che opera nel nostro Codice Penale, anche in considerazione della natura di reato di pericolo della nuova fattispecie: così l’omicidio colposo, l’omissione di soccorso, l’invasione permanente di edifici e molti altri sono considerati ipotesi più lievi di un “raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”.
Orbene, “un pericolo”, al di là di qualsivoglia speculazione semantica, è solo una possibile minaccia, dunque un fatto che solo eventualmente potrebbe realizzarsi o concretizzarsi, di talché la pena deve essere moderata rispetto a eventi concreti, viceversa il legislatore ha sanzionato la potenziale predisposizione di una minaccia con una condanna da tre a sei anni di carcere.
Per altro verso, non mancano riserve anche sul piano dottrinale e interpretativo della norma, in quanto i significati e i limiti di ordine pubblico, d’incolumità pubblica o di salute pubblica, nonostante i pronunciamenti della Corte Costituzionale e della Corte Cassazione, non possono essere delimitati in maniera univoca, trattandosi di concetti elastici e storicamente variabili, capaci di assumere, a seconda del tempo e del ramo del diritto a cui si riferiscono, significative differenze.
La questione sul piano processuale è tutt’altro che marginale, in quanto il Giudice, nel valutare le modalità e la pericolosità dell’azione, in assenza di parametri precisi, sarà investito di una grande responsabilità e conseguentemente di un enorme potere discrezionale, che spesso l’esperienza giudiziaria ha rilevato essere un pericoloso elemento di squilibrio.
Così, a seconda della chiave di lettura adottata, l’interprete potrebbe giungere a conclusioni diverse sull’effettività del pericolo, ancorché nel seminato delle molteplici e differenti pronunce delle Corti Superiori; di conseguenza, a parità di condotte e di circostanze, si potrebbero avere, pur se corrette in punto di diritto, sentenze di segno opposto.
In questo modo si rischia di alimentare il protagonismo individuale e la mediaticità dei giudizi, finanche il prevalere, volontario o involontario, degli orientamenti politici, sociali e intellettuali del giudicante sulla norma.
Comunque, anche a voler dare credito alle intenzioni del legislatore, la soluzione scelta per arginare il fenomeno rave non sembra essere centrata, in quanto la macchinosità della formulazione e la specificità di alcuni degli elementi costitutivi, se per un verso possono essere interpretati estensivamente, fino a snaturarne il significato, per l’altro sembrano più un memorandum cui attenersi per sottrarsi al rigore della pena, piuttosto che le condizioni per renderla efficacemente applicabile.
Infatti, per violare la norma, non sarà sufficiente la partecipazione di almeno 50 soggetti, coniugata con l’invasione di un edificio o un terreno, se non saranno potenzialmente compromessi l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica.
Orbene, se sotto il profilo semantico la formulazione, ancorché articolata, appare chiara, sotto il profilo tecnico-giuridico è tutt’altro che tale, dovendo concorrere in ogni fatto reato tutte le condizioni individuate dalla norma: il numero di persone, l’invasione arbitraria e la messa in pericolo di una o di tutte e tre le categorie richiamate.
Quindi, in caso di aree private, sarà possibile sfuggire alla severità della norma ottenendone il possesso, anche per poche ore, a titolo gratuito od oneroso, da parte del titolare, mentre sarà pressoché impossibile sottrarsi al giudizio penale, se l’evento dovesse avvenire in aree o edifici pubblici.
In tal senso, un raduno in piazza, l’occupazione di una scuola o di una facoltà universitaria, ancorché pacifiche, a secondo della valutazione di un Giudice, inevitabilmente condizionata dagli eventi successivi alle stesse quali scontri o disordini, potranno modificare radicalmente il corso della vita di molti giovani.
Viceversa, tornando a parlare di rave, si assisterà a un perfezionamento delle metodiche organizzative, una scelta più strategica dei luoghi, posizionati con possibili vie di fuga, per poter ridurre drasticamente il numero dei partecipanti in caso di irruzioni, conseguentemente saranno preferite le aree intercluse in proprietà private, difficilmente raggiungibili in maniera anonima e rapida da parte delle forze dell’ordine.
Così, ove ve ne fosse la necessità, si rischierà di offrire un nuovo business alla criminalità organizzata, che potrà affittare lande desolate e vendere con il massimo agio, lontano da ogni forma di controllo, droghe e alcolici, a masse consistenti di partecipanti clandestini.
L’esperienza ha dimostrato che per arginare l’infiltrazione della malavita, ove possibile, è necessario che i fenomeni emergano e che vengano regolati, per consentire i più opportuni interventi e garantire proprio l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica e la salute pubblica.
In tal senso, non si possono semplicemente reprimere o vietare le manifestazioni giovanili, specie se destinate a celebrare la musica, in quanto si rischiano contrapposizioni che possono indurre i partecipanti a perseguire strade alternative alla legalità, con la conseguente esposizione a maggiori pericoli.
Invece, potrebbe essere utile creare delle reti di carattere amministrativo, per ottenere l’emersione dalla clandestinità di questi fenomeni, e pratico organizzativo, per garantire la sicurezza degli svolgimenti, come la predisposizione di unità mobili di pronto soccorso fuori dai locali o dalle aree, navette e treni notturni etc.
Tutto ciò consentirebbe di proteggere tutte le parti in causa, lasciando libertà agli utenti, senza rinunciare a una vigilanza discreta, ma efficace da parte delle forze dell’ordine; d’altronde, ove qualcuno sollevasse la questione dei costi, dovrebbe riflettere su quelli generati finora da questi eventi, in termini economici, umani e sociali.
Infine, tornando alla norma, bene l’ipotesi della confisca prevista al terzo comma, come l’esperienza giudiziaria ha dimostrato, ma del tutto inutile se non si regolano i rapporti tra gli utilizzatori e i proprietari degli impianti.
L’affitto o l’affidamento temporaneo a qualunque titolo della strumentazione dovrebbe in qualche modo coinvolgere e responsabilizzare la ditta che la fornisce, magari imponendo per la definizione del contratto l’allegazione del titolo di possesso o di disponibilità dell’area, ovvero in alternativa la presa d’atto di una qualche autorizzazione amministrativa.
Diversamente, il proprietario avrà sempre facoltà, come avente diritto ed estraneo ai fatti, di recuperare quanto in sequestro, eludendo i rigori della legge, che a quel punto ricadrebbero quasi esclusivamente sui partecipanti, tra i quali certamente riuscirebbero a mimetizzarsi gli organizzatori e i promotori, nei rari casi in cui non fossero riusciti a ricavarsi una via di fuga.
In conclusione, ove l’intenzione del legislatore dovesse effettivamente coincidere con i proclami pubblici, è certamente possibile riconsiderare la fattispecie e migliorarla, eliminando anche quegli elementi di incertezza interpretativa, che ne fanno immaginare una finalità e una efficacia ben diversa.
*Avvocato penalista