In porto la prima voluntary disclosure riguardante i bitcoin. E’ questo l’obiettivo raggiunto con la conclusione del contradditorio dell’accertamento volontario per la regolarizzazione di un capitale costituito integralmente da criptovalute. A orchestrare l’operazione lo studio Falsitta che l’ha concepita su impulso di Decentra, accademia dei registri distribuiti di Bologna. Il procedimento ha visto il coinvolgimento, accanto all’Agenzia delle entrate di Milano, della Direzione centrale, settore contrasto illeciti internazionali della stessa amministrazione. Mediante questo meccanismo un soggetto che possiede criptovalute, mai dichiarate al fisco italiano, ha chiesto, volontariamente, all’amministrazione finanziaria di essere sottoposto ad accertamento fiscale per poterle fare entrare a pieno titolo nella legalità e così disporre liberamente delle relative risorse economiche. Un sistema premiale che non solo permette l’emersione delle criptovalute accumulate negli anni facendole entrare nella legalità e riconoscendone un valore fiscale certo ma che in prospettiva consente anche di dare avvio a un immediato e vasto prelievo di finanza pubblica utile alla creazione di nuove basi imponili.
Come emerso in occasione del convegno “Cripto-asset. Le diverse forme di investimento, gli attori in gioco, la fiscalità e l’antiriciclaggio”, che si è tenuto a Milano il 28 ottobre scorso, in Italia il 12% delle persone detengono criptovalute e il mercato che le rappresenta ha ormai raggiunto nel 2022 un valore di oltre 22 miliardi di euro. Il tema della qualificazione giuridica delle valute virtuali è ancora oggi molto dibattuto e con esso anche le relative regole fiscali. Per questo gli esiti della prima voluntary disclosure di criptovalute assume un’importanza così significativa.
Fino ad oggi l’Agenzia delle entrate, per quanto riguarda le imposte sul reddito delle persone fisiche che possiedono bitcoin o altre valute virtuali al di fuori delle attività d’impresa, riteneva di applicare i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto valute tradizionali. Nello specifico, l’Agenzia delle entrate, ha affermato che le valute virtuali detenute al di fuori del regime di impresa possono generare un reddito diverso, tassabile in base ai princìpi di cui all’articolo 67 del Testo unico delle imposte sui redditi. Ad avviso dell’amministrazione finanziaria, le imposte risultano dovute sulle eventuali plusvalenze maturate solo e soltanto se la giacenza media dei portafogli elettronici (wallet) detenuti dal medesimo contribuente, supera per almeno 7 giorni consecutivi la detenzione di controvalore pari ad euro 51.645,69. In questo caso la plusvalenza dovrà essere dichiarata nel quadro RT del modello Redditi PF, liquidando la relativa imposta sostitutiva del 26 per cento.
La stessa amministrazione ha avuto poi occasione di chiarire i termini di applicazione dell’obbligo di inserire nel quadro RW nella colonna 3 il codice 14 (“altre attività estere di natura finanziaria e valute virtuali”), riferibile al possesso di valute virtuali. In merito al controvalore in euro da indicare le istruzioni fanno riferimento al valore della valuta virtuale detenuta al 31 dicembre utilizzando come cambio quello indicato dal sito dove il contribuente ha effettuato gli investimenti di valuta virtuale. L’articolo 4, del decreto legge n. 167 del 1990, ha previsto l’applicazione di tale obbligo dichiarativo alle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato e che detengono investimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, tra le quali le valute estere.
Fabio Vedana, ItaliaOggi