Vi proponiamo la lettura di uno splendido trattato-pamphlet-saggio di Mauro della Porta Raffo. Qui ritrovate lo straordinario indomito spirito letterario dell’autore, che è noto per la sua originalità. Il saggio è qui riportato nella sua integralità, non ci sono tagli né censure né rimaneggiamenti vari.
Il Tennis
come narrato dapprima in generale
e poi nella lunga Nota assai più
articolatamente
a volte con qualche necessaria
ripetizione, 31 marzo 2022,
in Varese
da
Mauro della Porta Raffo
(Con un Aggiornamento dovuto, datato 1 aprile – “il più crudele dei mesi” – e dettato dall’andamento del Mille di Miami in corso, a chiudere tutte le seguenti note, da qualsiasi Sport suggerite.
È a far luogo dal da poco trascorso 26 marzo dell’anno terzo della pandemia (che ha ovviamente altresì nel Tennis influito sulla effettuazione delle competizioni e sulla compilazione del calendario di gioco in modo determinante) – quando il Russo Daniil Medvedev ha eliminato nel prestigioso secondo ‘Mille’ dell’anno Andy Murray con il punteggio di 6/4 6/2 – che, per la prima volta da un tempo che pare infinito, i cosiddetti ‘Fab four’ (con il citato Scozzese, il meno vincente tra loro ma comunque grande, l’Elvetico Roger Federer, lo Spagnolo Rafael Nadal e il Serbo Novak Djokovic, quattro Europei, essendo Americani – Latinos compresi – e Australiani in notevole declino), risultano esclusi dalle fasi conclusive di un Torneo tra i maggiori del cosiddetto Circuito, lasciando (finalmente!?!?) a contendersi il titolo giocatori appartenenti a una successiva generazione, nessuno dei quali nato oltre ventisei anni avanti.
Una data nel campo assolutamente storica!
Una circostanza che si è verificata dopo che, appena il trascorso 30 gennaio, alla Rod Laver Arena di Melbourne, nell’Australian Open, un risorto (gli acciacchi fisici subiti ancora una volta, nella parte conclusiva del precedente anno, lo davano per spacciato) e indomabile (non si concede di perdere!) ‘vecchio’ Rafa aveva incredibilmente stabilito il record di tutti i tempi quanto a Tornei del ‘Grande Slam’ vinti, portandolo a ventuno, staccando così (erano con lui fermi a venti e si fa fatica a dire fermi considerato che il quarto in tale classifica con quattordici affermazioni è l’oramai ‘antico’ yankee Pete Sampras) i predetti Roger e Nole.
(In tale ambito, Nadal con tredici è il plurivincitore assoluto a Parigi, Federer con otto a Wimbledon e Djokovic con nove in Australia).
Avendo parlato di ‘Mille’ oltre che di ‘Slam’, sarà più che opportuno adesso collocare in premessa sulla trattazione un inciso che permetta anche ai poco avvertiti in merito di conoscere alcune fondamentali disposizioni quanto alla importanza delle singole competizioni internazionali (e nazionali, ma qui guardiamo al globo e, da un certo momento in là solo ai maschi, per carità chiedendo venia).
Partendo dall’alto – ora e ricordando (ci torneremo) che in anni precedenti le competizioni e le superfici erano in molti casi diverse – considerando che le Federazioni Tennistiche Mondiali (la maschile ‘ATP’, ‘Association of Tennis Professional’, e la femminile ‘WTA’, ‘Women’s Tennis Association’) compilano settimanalmente, tenendo conto di tutti i risultati e pertanto aggiornandola, la classifica dei professionisti (fino al 1968, solo i dilettanti erano invece ammessi) abilitati alla partecipazione, tutti i Tornei assegnano punteggi a seconda dell’importanza, punteggi che incidono sulla collocazione nelle graduatorie stesse dei partecipanti.
Dall’alto, quindi (e, lo ripeto, stando ad oggi):
- I quattro ‘Slam’ (nella davvero articolata nota 1 che segue, con molte argomentazioni e articolazioni, sono spiegate le ragioni della denominazione e la storia del ‘Grande Slam’) attribuiscono al vincitore duemila punti e agli altri carichi a scalare e che sono comuni e giocati negli stessi tempi e sui medesimi campi da uomini e donne e che vedono in partenza sia tra gli uni che tra le altre in tabellone centoventotto iscritti compresi i primi delle graduatorie, gli invitati (‘Wild Cards’) dagli organizzatori e i vincenti delle Qualificazioni – nel calendario, come da tempo assodato, sono nell’ordine normale di effettuazione (salvo accadimenti eccezionali quali le guerre e le malattie gravi come la sopra indicata pandemia):
gli Australian Open a Melbourne (su campi in cemento ma una volta disputati sull’erba)
il Roland Garros a Parigi (da sempre il cosiddetto ‘Campionato Mondiale sulla Terra rossa’)
Wimbledon a Londra (il ‘Tempio’ dell’erba)
Flushing Meadows a New York (oggi non da oggi sul cemento ma in altre precedenti sedi nella stessa Grande Mela sia su erba che su terra).
Per vincere, occorre prevalere in totali sette confronti ad eliminazione diretta. - Le ‘Final Four’ – un certame (invece nella fase iniziale non ad eliminazione ma che divide i partecipanti in due gruppi secondo il sistema ‘Round Robin’ per il quale si può anche perdere una o perfino due match e qualificarsi lo stesso per le semifinali guardando alle classifiche interne alle citate schiere) che di quando in quando cambia sede riservato agli otto tennisti maschi meglio classificati verso fine anno – che conferiscono al massimo millecinquecento punti a scendere.
- le ‘WTA Finals’, con le medesime modalità, per le otto migliori Signore.
Riservando (come preannunciato) colpevolmente solo ai maschi (ma il movimento femminile è articolato non poi molto diversamente) le note che seguono:
- I nove ‘Masters’ ATP, l’uno via l’altro, che ne assegnano mille e ‘Mille’ vengono gergalmente detti e che ammettono da quarantotto (e in questo caso alcuni sono esentati dal turno inaugurale giocandosi comunque ad eliminazione) a trentadue partecipanti anche qui distribuiti tra primi in classifica, invitati e qualificati:
Indian Wells
Miami
Montecarlo
Madrid
Roma
Canada (alternativamente, anno dopo anno e lasciando alle donne l’altra sede, Montreal e Toronto )
Cincinnati
Shangai
Parigi Bercy.
In tale prestigiosa categoria, Novak Djokovic detiene tutti i primati avendo vinto in totale trentasette Tornei e almeno due volte ciascuno degli stessi. - i tredici ‘ATP 500’ i quali naturalmente ne valgono cinquecento a scalare, con meno ammessi e vis a vis:
Rotterdam
Rio de Janeiro
Acapulco
Barcellona
Halle
Londra ‘Queen’s’
Amburgo
Washington
Pechino
Tokyo
Basilea
Vienna
San Pietroburgo - un numero più cospicuo e maggiormente distribuito geograficamente di ‘ATP 250’
- gli ‘ATP 125’, serie di Tornei di seconda fascia che consentono di acquisire i punti (da centoventicinque in giù) per essere poi accolti nelle competizioni maggiori.
Tutto ciò detto riguardo ai Tornei e rammentando che per formare le graduatorie (anche qui il recordman in quanto per più settimane primo è Novak Djokovic) si guarda confrontandoli agli esiti degli stessi nel precedente anno, esistono più o meno classiche competizioni a livello di Nazionali… detto velocemente della recente ‘Laver Cup’, tra gli uomini nel nome del prestigioso mancino Australiano Rod Laver e della ‘Hopman Cup’, ora ‘ATP Cup’, giocata da compagini miste Signori e Signore, ecco – imitazione al femminile della Coppa Davis – quella che si chiamava ‘Federation Cup’ (‘Fed’), più volte vinta dall’Italia, che dal 2020 porta il nome della grande icona Americana ‘Bilie Jane King’.
Infine, la davvero mitica
‘Coppa Davis’,
disputata dall’anno 1900, vinta in trentadue circostanze dagli USA, in ventotto dai Canguri Australiani, in dieci dalla Francia… e in una dagli Azzurri (nel 1976 con una formazione composta da Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli battendo in finale il Cile), il cui meccanismo regolamentare è stato di recente totalmente rivoluzionato non senza forti critiche.
È Nicola Pietrangeli – Capitano non giocatore alla indicata data e molti anni prima sconfitto bi finalista dagli Australiani nel ‘Challenge Round’ e cioè nel confronto che all’epoca opponeva i detentori alla squadra che vinceva il Torneo delle altre – in tale riscontro il recordman quanto a partite disputate (centosessantaquattro, centodieci in singolare e cinquantaquattro in doppio) e vittorie conseguite (settantotto e quarantadue), numeri inespugnabili!
(1)
Ogni anno – 2020 e 2021 esclusi, essendo il torneo nel primo dei due saltato a seguito della pandemia e nel secondo io ancora fuori gioco causa malattia – il regalo che mia figlia Alessandra fa al sottoscritto per il compleanno (cade il 17 aprile, il giorno nel quale il 7 avanti Cristo è venuto al mondo Gesù Cristo e indicato, chissà perché, da Rex Stout come natale di Nero Wolfe) è davvero gradito.
Assistere da un palco riservato ai quarti di finale e il giorno dopo alle semi del ‘Mille’ di Tennis di Montecarlo.
Andiamo da qualche tempo anche con i nipoti figli di Federica e il loro padre.
Ho quindi nel recente potuto vedere al meglio in azione Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic, i fratelli Bryan doppisti eccezionali, e l’assolutamente magico Stan Wawrinka, il cui rovescio a una mano è divino e profondamente commuove.
Questo perché è infine lo ‘Sport dai gesti bianchi’ – come ebbe a definirlo l’amico Gianni Clerici – quello che, perfino a scapito della Boxe (che solo la miopia mi ha impedito di esercitare), mai anche questo avendo praticato, amo e seguo di più.
Il Tennis, dunque.
Dove nel calcolare il punteggio quindici più quindici fa trenta e trenta più quindici fa quaranta, faccenda arcana che rinvierebbe al regolamento del ritenuto predecessore ‘Jeu de Paume’.
Dove si usano in inglese parole misteriose di derivazione francese come ‘deuce’, che indica una situazione di pareggio (e mancano ‘deux points’) nel ‘game’.
Dove, ad evitare (perché mai? non è straordinariamente memorabile per dire il
quinto set John Isner/Nicolas Mahut di Wimbledon 2010 – era ancora colà possibile – terminato settanta a sessantotto, spalmato su tre giorni, con totali cento tredici ‘ace’ del primo e centotre del secondo?) partite infinite, si è adottato – idea di Jimmy Van Alen applicata ad iniziare a livello ‘Slam’ nel 1970 in America – il ‘Tie Break’ che obbliga a porre fine ai set attraverso uno spareggio.
Dove è consentito giocare su superfici diverse, secondo alcuni al punto di far ritenere tre differenti sport in relazione a rimbalzi e non esclusivamente quello disputato sulla terra, quello sull’erba e quello sul cemento (e che tipo di cemento poi?).
Dove sostanzialmente non esiste disposizione che riguardi una età minima quanto alla appartenenza, potendo partecipare chiunque sia in condizione di farlo secondo regolamenti che in proposito tacciono (e questo per quanto esistano gli ‘Slam’ per juniores).
Dove per gli otto giovani ‘under ventuno’ migliori nell’anno si disputano da poco tempo le ‘Next Generation Finals’.
Dove è in uso il sistema delle ‘Teste di serie’ per evitare che i più forti si scontrino subito tra loro.
‘Teste di serie’ normalmente (a volte no, per ragioni dettate dalla adattabilità maggiore o minore di qualche giocatore al terreno del cimento) derivate dalle classifiche stilate sulla base dei risultati dalle Federazioni Internazionali maschile e femminile.
Dove è peraltro possibile essere ammessi pur non avendone ai sensi predetti diritto con la concessione di una ‘Wild Card’, un invito, da parte degli organizzatori.
Dove, al di sotto (si può usare questa espressione diminutiva? sì) dei Tornei professionisti, ne vengono realizzati, in realtà soprattutto per i maschi, una serie d’altri (i ‘Challenge’) frequentati da giovani (invero, anche da vecchie glorie che non vogliono smettere) in cerca di punti che permettano loro di avanzare in classifica.
Dove nei Tornei ‘Slam’ si gioca per imporsi in tre set e quindi sono possibili partite che arrivino al quinto, mentre negli altri (ma anni fa, capitava non fosse costantemente così) si richiede di vincerne almeno due il che significa che se ne possono giocare al limite tre.
Dove…
Nacque a New York nel 1933 il modo di dire ‘Grande Slam’ applicato al Tennis, ripreso evidentemente dal Bridge.
(Trascorrono da qui fino a un dolente “et de hoc satis” i testi che, allargandosi in tema l’esposizione all’universo Mondo, seguono, vergati in Varese domenica 22 agosto del 2021, anno secondo della pandemia e rifiniti oggi 31 marzo 2022, dopo che – come sopra detto in entrambi i casi – Rafael Nadal ha incredibilmente portato a ventuno il numero degli Slam vinti trionfando contro ogni pronostico a Melbourne nell’Open d’Australia nonché nel momento in cui nel ‘Mille’ di Miami, eliminato Andy Murray da Daniil Medvedev, nessuno dei ‘Fab Four’ è dopo immemorabile tempo più in competizione e i restanti duellanti appartengono alla generazione successiva nessuno tra loro avendo più di ventisei anni).
Nella trattazione e nei Nota bene che seguono molto ma non l’impossibile tutto riguardo al magnifico (ancora, malgrado le vecchie racchette con le quali Nicola Pietrangeli dichiarava la sua ascendenza divina siano state sostituite oramai da decennni dall’apparizione di strumenti chiamati ‘racchettoni’, usati comunque da mani imperiali come quelle di Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic, mani europee a segnalare (per non parlare di quella dei ‘canguri’ per ben oltre vent’anni tra i migliori e sostanzialmente dissolti ove si escluda tra le Signore Ashleigh Barty, la quale ha tre o quattro giorni fa annunciato il ritiro a soli venticinque anni) la crisi USA – mascherata tra le donne dalle due Williams, Serena in ovvio particolare primo piano – nonché quella latino americana e il più nobile tra gli sport, dolorosamente per il sottoscritto essendo declinata in larga misura nel mondo la ‘Nobile arte’ pugilistica, tale per indiscutibile un tempo consacrata tradizione.
E dunque.
Correva il 1933 e un veramente ottimo tennista Australiano, Jack Crawford il nome, già vincitore di un notevole numero di Tornei tra i più importanti – ovviamente, quelli del suo Paese con maggiore facilità considerata la grande difficoltà per l’epoca di spostarsi se non per Oceani navigando settimane – dopo avere concluso vittoriosamente appunto il Campionato Internazionale ‘Aussie’, aveva raggiunto avventurosamente la Francia vincendo il parigino Roland Garros e poi Londra affermandosi anche a Wimbledon.
Davvero importante il nome dello sconfitto nelle due circostanze, Henry Cochet, uno dei nuovi ‘Moschettieri’ gallici, per parte sua, a conferma delle vicissitudini da affrontare, mai andato, come il connazionale René Lacoste, in Australia).
Orbene, restava al ‘canguro’ il quarto di questi pregnanti appuntamenti annuali: quello Americano in programma dal 2 al 10 settembre a New York.
Naturalmente, la stampa ‘Yankee’ (e non solo quella sportiva) dette rilievo alla sua avventura e due giornalisti scrissero che se avesse concluso vittorioso anche nella ‘Grande Mela’ avrebbe compiuto un’impresa pari a quella massima possibile per un giocatore di bridge, mettendo a segno cioè il ‘Grande Slam’, dizione che va qui riferita esclusivamente a chi riesca a compiere il percorso in un unico anno.
(Percorso difficilissimo perché richiede ventotto affermazioni consecutive in tre Continenti nell’arco di molti mesi e riuscito nel singolo finora a due uomini e a tre Signore: Don Budge, USA, nel 1938 e Rod Laver, Australia, nel 1962 e nel 1969, Maureen Connolly, USA nel 1953, Margaret Smith Court, Australia, nel 1970 e Steffi Graf, Germania, nel 1988, tutti gli altri record – come per esempio il ‘Career Grand Slam’ che sta ad identificare i giocatori che li hanno sì riportati ma in anni diversi – essendo sostitutivi e minori.
Pochi anch’essi ma più numerosi, visto che ci siamo, i doppisti e le doppiste riusciti nell’impresa.
Da allora, ognuno dei quattro tornei – diventati dal 1968 ‘Open’ in quanto aperti ai professionisti e non più solo ai dilettanti come prima – è chiamato ‘Slam’).
Jack Crawford scese in campo per quella finale arrivando a condurre due set a uno.
Ma l’avversario, a causa di un suo calo fisico mai del tutto spiegato lo rimontò vincendo facilmente gli ultimi.
Ebbe anche sfortuna il ‘canguro’ (che resta nella storia dello ‘Sport dai gesti bianchi’ altresì per essere andato in finale in sette ‘Slam’ di fila, record superato da Roger Federer infiniti anni dopo) perché il contendente era Fred Perry, Inglese di altissimo livello, ultimo dei suoi (Andy Murray è Scozzese e quindi Britannico) a vincere Wimbledon.
Perry che, come René Lacoste, saprà illustrarsi anche nel campo delle vestimenta sportive, in particolare le famose magliette.
Nota ulteriormente bene:
1
Rod Laver mise a segno il colpo una prima volta da dilettante nel 1962.
Passato al professionismo, dovette aspettare che disputare i tornei gli fosse consentito nella nuova condizione.
Accadde, come sopra scritto, nel 1968 (la sola tra le sbandierate ‘rivoluzioni’ così datata che non abbia provocato disastri!) quando rivinse Wimbledon per poi l’anno dopo ripetere l’epopea complessiva.
Va qui però detto che si giocavano tre dei quattro (escluso il Roland Garros su terra rossa) Campionati sulla stessa superficie, l’erba.
Oggi non da oggi, invece – secondo tradizione, terra e erba rispettivamente a Parigi e Londra – anche su due tipi diversi di cemento a Melbourne e al Flushing Meadows nuovaiorchese.
La qual cosa ha reso (ha perso l’ultimo atto nuovaiorchese mancando la Storia con la esse maiuscola) più improba e impervia la via che nel 2021 ha cercato di percorrere il grande Serbo ‘Nole’ Djokovic che, avendo catturato i primi tre, puntava a Flushing, peraltro già stanco, come ha dimostrato la sua sconfitta in semifinale alle Olimpiadi di Tokyo pochi giorni avanti l’ultimo cimento.
Battuta d’arresto quella in Giappone che gli ha impedito il cosiddetto ‘Golden Grand Slam’ che consiste nel vincere nell’anno anche la Medaglia d’Oro nei Giochi.
Impresa riuscita solo a Steffi Graf nel citato 1988.
Impresa però in precedenza impossibile per decenni non essendo stato il Tennis tra le discipline dei ‘Cinque cerchi’ disputate.
2
Margaret Smith Court – spaventosa – ha vinto sessantaquattro Slam in totale.
Ventiquattro in singolo.
Venti in doppio.
Altri venti nel misto dove inoltre ha realizzato due ‘Grandi Slam’ nel 1963 e nel 1965.
3
Serena Williams è da tempo ferma in singolare a ventitre ‘Slam’ e non riesce ad eguagliare il record della fenomenale Australiana.
La stessa Serena pareva avviata a mettere a segno il ‘Grande Slam’ nel 2015 ed è stata fermata in semifinale in vista dell’ultimo atto da Roberta Vinci (Italiana, numero uno world in doppio) che nell’occasione giocò in modo superlativo causando la più grande sorpresa di tutti i tempi in materia.
4
Quando gli Americani – significativamente – nel tennis potevano contare sui numeri uno.
Negli sport, in genere – e basti guardare nelle diverse discipline ai Giochi Olimpici pochissime escluse, ai Campionati Mondiali e ai Record – da tempo immemorabile o pressappoco, in quasi tutte le attività sportive, gli Stati Uniti d’America spopolano.
È stato lungamente così anche nel Tennis.
Per quanto, a momenti.
Il primo di questi ambiti corre dai Venti del Novecento (quando fu più facile – anche se per andare e venire dall’Australia, dove si giocava ad alto livello eccome, occorrevano perfino quarantacinque giorni di mare – muoversi da New York) alla metà dei Cinquanta.
A Wimbledon, ecco imporsi (tralascio le meteore) i ‘Grandi’
Bill Tilden,
Ellsworth Vines,
Don Budge (il primo a mettere a segno un ‘Grande Slam’ nel 1938),
Jack Kramer,
Ted Schroeder,
Tony Trabert (segnante a Londra nel 1955 un preciso passaggio).
Il secondo – dopo un vuoto che andrà proprio dalla finale vinta da Trabert a quel 1974 che vede
Jimmy Connors (il quale, quanto al ‘Grande Slam’, mancherà quell’anno solo Roland Garros perché non ammesso per questioni regolamentari) alzare per la prima volta la Coppa, vuoto nel quale sono poche davvero le Stelle e Strisce – di eccezionale rilievo perché propone oltre a ‘Jimbo’ Campioni quali
Arthur Ashe (nero di purissima classe e particolare intelligenza),
John McEnroe,
Andre Agassi,
Pete Sampras
e un Cecoslovacco naturalizzato nel 1992, tale
Ivan Lendl.
È però il 2000 l’ultimo anno nel quale sull’erba della Capitale del Regno Unito uno ‘Yankee’ (Sampras) vince.
Da allora, colà, solo tre finali perse – assai dignitosamente, ma perse – da Andy Roddick che resta anche (nel datato fine inizio anno 2003/4) l’ultimo Americano numero uno della classifica mondiale e vincente (proprio a New York nel 2003)
Non solo.
Perché, sempre l’Omahaiano Roddick a parte, i primi Americani in classifica si collocano mano mano molto più indietro.
Oggi, John Isner e Reilly Opelka, occupano posizioni alquanto defilate.
Che in qualche modo tutto questo calare coincida con un – diciamo così – appannamento degli Stati Uniti d’America in molteplici e decisamente più significativi e importanti altri campi nei quali soffrono assai preoccupanti (usi come sono ad essere i primi ben altrove e altrimenti) concorrenze?
5
Non è corretto qui dimenticare che nelle competizioni a squadre gli USA restano statisticamente i maggiormente vincenti.
Nella mitica ‘Coppa Davis’, con trentadue affermazioni.
Nella ‘Fed Cup’ femminile, oggi ‘Billie Jane King Cup’, con diciotto.
(Per inciso, l’Italia ha vinto la ‘Davis’ – il record assoluto di partite giocate e vinte, centoventi contro quarantaquattro delle quali settantotto a trentadue nel singolo, appartiene a Nicola Pietrangeli – una volta nel 1976 contro il Cile ed è stata finalista in altre sei occasioni.
E ha conquistato la Fed in quattro circostanze).
Due – 1960 e 1961 – le ‘Davis’ memorabili pre ‘76 nelle quali affrontò, purtroppo perdendo in terra ‘Aussie’, l’Australia detentrice non fino a quel momento in competizione e in attesa di conoscere il nome dello sfidante come stabiliva la regola all’epoca in vigore del ‘Challenge Round’, avendo noi vinto la selezione mondiale sconfiggendo, con ‘Nick’ Pietrangeli e Orlando Sirola, gli Stati Uniti).
6
Per quanto i quattro ‘Championship Open’ e praticamente tutti i tornei (a scendere di categoria, con riferimento ai punti in classifica che conferiscono – duemila gli ‘Slam’ – al vincitore, ‘Mille’, ‘Cinquecento’, ‘Duecentocinquanta’ e ‘Centoventicinque’) organizzati sotto l’egida delle Federazioni Mondiali, maschile e femminile, prevedano la partecipazione di un numero più o meno alto (centoventotto negli ‘Slam’) pari di giocatori e l’eliminazione diretta, così non è nelle ‘Tour Finals’ verso il termine d’anno che mette in competizione i primi otto singolaristi classificati dividendoli in due gruppi.
Nel caso, nella fase ora detta che qualifica i quattro semifinalisti, è in uso il ‘Round Robin’, che permette anche a chi perda di proseguire dovendosi alla fine stilare una classifica.
Capita quindi che la competizione venga vinta da un tennista sconfitto nel girone una volta (perfino due) ma alla fine almeno secondo nel predetto gruppo.
7
Ai tempi nei quali erano in particolare gli Australiani a vincere, uno tra i più grandi tra loro (Lew Hoad, il quale nel 1966 ripercorre esattamente la strada ‘Slam’ di Crawford vincendo i primi tre e perdendo l’ultimo in finale), parlando del nostro Nicola Pietrangeli e della sua purissima classe naturale, disse: “Se ci mandate in un’isola per mesi senza che nessuno possa allenarsi, al rientro, Nicola ci batte tutti!”
8
Hoad fu nel 1956, ‘gelato’ a New York dal connazionale Ken Rosewall.
Nel caso, si parlò di ‘Grande Slam Australiano’.
Nel 1988, tre le affermazioni di Mats Wilander e una di Stefan Edberg, fu messo a compimento un ‘Grande Slam Svedese’.
9
Impossibile trascurare tra le Signore l’infinita contesa (ottanta le partite disputate tra il 1973 e il 1988 pressoché tutte ai massimi livelli comprese sessanta in una finale e quattordici in uno ‘Slam’ con un bilancio conclusivo favorevole alla ex Cecoslovacca naturalizzata USA Martina Navratilova di quarantatre a trentasette nei riguardi di Chris Evert, Americana di Fort Lauderdale, California, certamente sulla terra la più forte singolarista di sempre (centoventicinque di fila le vittorie sulla superficie) e in grado in carriera di registrare una media di affermazioni superiore al novanta per cento mai raggiunta da altri, uomini inclusi, nella storia.
(Ho personalmente assistito a una splendida esibizione tra le due il 6 ottobre del 1987 a Forlì.
Nell’altra partita in programma, Raffaella Reggi, l’ultima nostra connazionale vincitrice degli Internazionali d’Italia nel singolo, ebbe la meglio su una giovanissima e tostissima Spagnola che avrebbe avuto un grande futuro: Arantxa Sanchez Vicario, non ancora sedicenne, pressoché esordiente da noi).
10
Sarà opportuno qui elencare i massimi esiti riportati dai tennisti italiani non solo in campo di ‘Slam’.
Due i Roland Garros vinti da Nicola Pietrangeli (eccolo di nuovo) nel singolo, uno nel doppio con il citato eccezionale doppista Orlando Sirola e uno nel ‘misto’ cui vanno aggiunti due Internazionali di Roma e Tre Montecarlo, i record mondiali sopra elencati quanto agli incontri disputati ed anche vinti in ‘Coppa Davis’ torneo che l’Italia ha fatto suo essendo lui il Capitano selezionatore non giocatore del team nel 1976.
(Fu Nicola altresì semi finalista a Wimbledon sconfitto solo al quinto set da Rod Laver, primato che nel Tempio inglese gli è stato tolto nel 2021 da Matteo Berrettini il quale, dopo avere vinto il prestigioso Queen’s, è arrivato sull’erba in finale perdendo onorevolmente da Djokovic, sempre lui).
Uno il Roland Garros vinto da Adriano Panatta che ha riportato nello stesso anno altresì gli Internazionali italiani, era tra i giocatori della predetta Davis ‘76 e ha in bacheca il doppio con Paolo Bertolucci a Montecarlo.
Un Montecarlo singolo nel 2919 all’alterno Fabio Fognini in precedenza con Simone Bolelli in gloria in un Australian Open sempre nel doppio.
Qualche buona prova non ancora (ma si spera) vittoriosa ai massimi livelli ad opera di Jannik Sinner….
Un Roland Garros conquistato da Francesca Schiavone, prima connazionale Donna singolarista vincente uno ‘Slam’ e correva il 2010.
Un Flushing Meadows catturato, era il 2015, da Flavia Pennetta battendo in finale Roberta Vinci: due Italiane!
Un Indian Wells (competizione di alto valore inferiore solo agli ‘Slam’) ancora alla Pennetta che si è anche imposta in doppio alle ‘Tour Finals’ una volta.
Da ultimo, nel 2021, un Montreal (importante quanto Indian Wells) ad opera di Camila Giorgi.
Nel doppio femminile, addirittura numeri uno capaci di vincere cinque massime prove realizzando il ‘Career Grand Slam’, Sara Errani e la già in diverse imprese citata Roberta Vinci.
È componente nostra di un doppio che si impone anche Mara Santangelo a Parigi.
In quello misto con uno Spagnolo, gli Open degli Stati Uniti la Raffaella Reggi che abbiamo ricordato quale ultima Azzurra capace di vincere il
singolo agli Internazionali d’Italia.
Indimenticabile per la classe e la femminile grazia Lea Pericoli che detiene con ventisette il record assoluto di Campionati nazionali vinti.
Et de hoc satis!
Il Pugilato, la Boxe, la ‘Nobile Arte’, i Ring, le Corde, le Palestre, i Pugili certamente, i Colpi, la oramai e da tempo lontana specifica Gloria, il fatto soprattutto che se non fossi stato miope – e questo me lo abbia a suo tempo impedito (quanta l’amarezza!) – è sul quadrato che sportivamente mi sarei illustrato e, ne sono convinto, da rarissimo ‘tecnico col pugno’ quale sarei stato, alla stragrande…
di Mauro della Porta Raffo
Davvero molte le angolazioni che trattando io qui del Mondo ‘come’ nella mia Memoria – unico tra gli Sport ai quali mi abbia mai legato una ‘appartenenza’ – storicamente e romanticamente, come si confà, ne argomenti.
(È a sottolineare particolari sentimenti che mi piace aggiungere che i testi che seguono sono stati vergati primieramente in Varese nelle ore mattutine del 27 luglio e rivisitati il 23 agosto del 2021, anno secondo della pandemia.
Giorni dedicati dalla Chiesa Cattolica il primo a Santa Antusa di Costantinopoli, Vergine, e il secondo a San Sidonio di Aix-en-Provence, Vescovo).
Orbene, al dunque,
il Pugilato come indicatore delle difficoltà economico/sociali e dei successivi progressi degli immigrati negli USA intesi come gruppi, con in coda un necessario riferimento al concetto di ‘Campione lineare’ la qual cosa permette di soffermarsi su Cassius Clay/Muhammad Ali, non ‘il più grande’ in quanto pugile ma certamente il boxeur dotato di maggiore carisma e personalità?
La durata degli incontri di Pugilato – tralasciando l’antichità, parliamo dell’Inghilterra che ne fu modernamente la Patria e il riferimento va agli anni precedenti le Regole dettate da John Shotto Douglas, Marchese di Quernsberry, nella seconda metà dell’Ottocento, quando si combatteva per strada, senza l’uso di ring, a pugno nudo e i match spesso erano interrotti dall’intervento della Polizia – il numero dei round cioè, per lungo tempo, non è stata determinata.
Normalmente, ogni ripresa (anch’essa pertanto di lunghezza indefinita) si concludeva con l’atterramento di uno dei due boxeur e il successivo intervento arbitrale (se e quando il referee c’era) ad intervallare.
Se e quando, poi, il soccombente non si fosse dimostrato, trascorso un limitatissimo numero di secondi (trenta più otto, normalmente) in grado di riprendere, nell’ambito di uno spazio di terreno artigianalmente limitato, le ostilità, veniva dichiarato sconfitto.
Questo salvo i casi di knock out, allorquando il confronto, steso o impossibilitato uno dei due, trovava definizione prima del termine.
Queensberry – nato a Firenze nel 1844 e fra l’altro padre di quell’Alfred Douglas fortemente collegato alla rovina di Oscar Wilde – diede regole precise (in specie istituendo le categorie di peso – tre, per cominciare – introducendo i guantoni, decretando il ring luogo dove si dovesse combattere, quali parti del corpo, sotto la cintura, non potessero essere colpite, determinando che ogni round durasse tre minuti, uno fosse quello di intervallo, dieci secondi il limite di tempo entro il quale il pugile messo a terra sarebbe stato obbligato a rialzarsi salvo essere dichiarato sconfitto), sostanzialmente, anche se modernizzate, tuttora alla base dei cimenti.
Diventato uno degli sport di più grande interesse anche negli Stati Uniti d’America (Jack London ne scrisse appassionatamente arrivando a parlarne ai primi novecenteschi come di una romantica anticaglia già in declino, ?!), il Pugilato fu colaggiù soprattutto inteso ed usato come mezzo di dura e sofferta (i pugni fanno male!) affermazione economica dalle diverse, mano mano emergenti, etnie (se così, forzando i termini, possono essere chiamate) arrivate nel Paese soprattutto attraverso l’Atlantico dall’Europa.
(Restava a questo fine limitatissimo l’apporto degli Asiatici che invece – comunque assai numerosi ad Ovest, in particolare in California tanto che furono introdotte leggi per contingentarli e, temporalmente, fermarne l’arrivo – nel certame latitavano.
E sia qui sottolineato per inciso come le categorie di peso frequentate dalle genti asiatiche al di fuori degli States siano state e siano quelle minori essendo davvero difficile per un ‘giallo’ vantare una struttura fisica anche solo da medio pesante).
Osservando quindi, con occhio a queste cose attento, gli accaduti, si colgono i successivi ‘momenti’.
Quello irlandese, per cominciare.
Quello italo americano, poi (difficile è rendersi bene conto del passaggio perché i ‘nostri, spessissimo, combattendo, almeno fino a pluricinturato Tony Canzoneri, si presentavano con cognomi anglosassoni, mascherandosi).
Via via, altri che, differentemente (questione sulla quale indagare), non praticavano la medesima Religione, la Cattolica.
Sempre presenti, anche se per molti decenni esclusi dalla possibilità di combattere per titoli più importanti (la cintura mondiale in primis), i Neri.
Diventata a partire dagli anni Venti e Trenta negli stessi USA attività di notevole importanza economica, la boxe tutta, quella internazionale con particolare attenzione, fu governata da una autorevole Organizzazione istituzionale che riconosceva otto categorie di peso (nell’ordine a salire: mosca, piuma, gallo, leggeri, medio leggeri o welter, medi, medio massimi e massimi) e un solo Campione Mondiale per ciascuna di esse.
Appetito in ogni modo (la Mafia, prima ma in specie nel decennio successivo e più della Seconda Guerra Mondiale, decideva spesso chi dovesse vincere per scommettere conoscendo il risultato e contro questo andazzo, al fine di esaminarlo per in merito legiferare fu istituita una Commissione del Senato i cui lavori, ripresi, oltre che dalla radio, dalla giovane televisione, resero famoso il Presidente Estes Kefauver (che su questa base cercherà invano la Nomination democratica nel 1952 e sarà candidato Vice sconfitto quattro anni dopo) il Pugilato vide nascere ed affermarsi altri Organismi ufficiali, non governati dalla illegalità ma dall’interesse, dappertutto mano mano riconosciuti.
Organismi che non solo certificavano un secondo, poi un terzo, poi perfino un quarto Campione (ad ogni livello, ma quello che conta è il mondiale) per categoria, ma che presero a creare ulteriori, non pugilisticamente necessari, ambiti di peso.
Nacquero in cotal modo i paglia, i minimosca, i medi junior (forse opportuni), i super medi, i massimi leggeri e i super massimi e chi più ne ha più ne metta.
La conseguente duratura situazione ha reso di poca o punta significanza la conquista di una cintura mondiale alla quale troppi, anche decisamente non ‘grandi’, sono giunti e pervengono ed è stata notevole concausa del provocato declino (in larga parte del mondo per il vero no, così ad Est – i due Ucraini Vitali e Vladimir Klitcko il quale ultimo ho incontrato a Luino nel 2010 cercando invano di convincerlo a concedere una chance mondiale al nostro campione olimpico dei super massimi e allora ancora dilettante Roberto Cammarelle, ad imitazione di quanto occorso tra Floyd Patterson e Pete Rademacher dopo Melbourne ‘56 – particolarmente dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica la cui scuola pugilistica dilettantistica era preclara – ma decisamente in Italia, dove, già a far luogo dagli anni Trenta, ma certamente dopo le Olimpiadi di Roma del 1960, la Boxe era stata uno delle attività sportive più seguite e aveva proposto campioni di valore assoluto quali almeno il tecnico Nino Benvenuti e lo spettacolare picchiatore Sandro Mazzinghi) della un tempo definita ‘Nobile Arte’.
E veniamo allora e quindi a ‘Tredicesimo’.
Orbene, fino grosso modo e con qualche notevole eccezione (Gene Tunney sconfisse – il secondo resta uno dei combattimenti veramente storici come quello del quale tratterò fra non molto – Jack Dempsey in dieci riprese in due circostanze, correva il 23 settembre del 1926 e poi corse il 22 settembre del 1927) agli anni Ottanta del Novecento, i match che vedevano in palio i titoli mondiali (anche quelli continentali, per il vero) erano programmati sui quindici round.
Una triste serie di incidenti purtroppo mortali sul ring vissuti in un ambito, un ambiente e una società culturalmente mutati in profondità e non più disposti ad accettarli (non erano comunque una novità), causò ripensamenti da parte dei più volte citati Organismi ufficiali internazionali regolatori che, l’uno dopo l’altro, stabilirono che il limite dovesse scendere a dodici.
Orbene ancora.
Il più grande picchiatore (quarantatre vittorie per knock out e comunque anticipate quanto al previsto su quarantanove match disputati al termine dei quali risultava imbattuto).
Il più grande incassatore (secondo Rino Tommasi non lo scuotevano neppure le cannonate e agli inizi della carriera, quando lasciava che gli avversari lo colpissero, richiesto del perché, aveva seriamente chiarito “non vedete che si stancano?”),
Probabilmente, uno dei più consapevoli boxeur di tutti i tempi (abbattuto Archie Moore dopo essere stato dal magnifico rivale messo sia pure fuggevolmente a terra, nella conferenza stampa concessa qualche mese dopo, aveva detto: “Mi ritiro perché ho ‘sentito’ i colpi”) visto che nessuno è capace di lasciare quando è in sella, al massimo, e sente sia giusto farlo rinunciando a denaro e gloria.
Rocky Marciano (Marchegiano, invero, ma era cognome quello per gli Americani troppo ostico), insomma, conquistò il titolo mondiale assoluto dei massimi con una vittoria (il più bel ko della intera storia del cimento, ma certo) al tredicesimo assalto (gli Ispanici chiamano ‘asalto’ il round e la cosa mi piace).
Il titolare – forte e duro, tanto che nella citata conferenza il Nostro ricordava quel confronto come il più difficile disputato – era Jersey Joe Walcott.
Il titolare lo aveva più volte messo sotto con la sua migliore tecnica.
Lo aveva anche costretto a terra.
Era indubbiamente, e bene, in vantaggio ai punti il vecchio e sapiente Jersey al termine del dodicesimo ‘asalto’ quel giorno, il 22 settembre del 1952, al Madison Square Garden, all’epoca e per decenni ‘tempio della Boxe’ non solo nuovaiorchese e neppure soltanto americana.
E il combattimento avesse avuto luogo trent’anni più tardi, dell’imbattuto e imbattibile Marciano forse ci ricorderemmo come di uno sfidante abbastanza anonimo, incapace, contro le aspettative dettate dal suo ottimo record, di neppure impegnare il campione, figurarsi di prenderne il posto.
Ma si giocava fino al quindicesimo.
Ma…
Ecco, inizia la tredicesima ripresa.
Walcott traccheggia.
Si muove benissimo senza cercare contatto.
Danza.
Sembra voglia al massimo usare, se del caso, il jab per tenere a bada Rocky.
Il quale, invece, vede il tempo passare e la sconfitta delinearsi.
Avanza teso, a suo modo.
Capita che Walcott – e dal gong non si sono praticamente sfiorati – termini in un angolo.
Che pensi – si vede – di aspettare Marciano per castagnarlo d’incontro.
È un istante quello nel quale il pensiero di Jersey viene preceduto dal destro al mento di Rocky.
Il colpo più definitivo della storia.
Il colpo più definitivo della storia, ripeto.
E il più bello.
Ora, il Nostro Marchegiano, nell’ipotesi, sapendo che il termine era il dodicesimo, come avrebbe agito?
Dico, affermo, sostengo, che avrebbe assestato il ko prima perché so cosa diavolo fosse in grado di fare.
Ma ‘Tredicesimo’ fu, invece e comunque!
A completare.
Il concetto di ‘Campione Lineare’ (con alcune ritenute necessarie ripetizioni di situazioni e regole già nelle precedenti righe illustrate ed esaminate).
Muhammad Ali, già Cassius Marcellus Clay?
Due volte destituito (tutti ricordano la seconda privazione della Corona dei Massimi conseguenza del suo rifiuto di andare a combattere in Vietnam ma era già accaduto in precedenza ad opera di una Federazione Pugilistica minore dopo il secondo match con Sonny Liston), ma non stando alla ‘regola del Campione Lineare’!
In buona sostanza fino agli anni Cinquanta compresi (con qualche piccola e temporanea anomalia), la Federazione Mondiale del Pugilato era una soltanto e riconosceva un unico Campione per categoria di peso (va ripetuto, in totale, a salire, le classiche otto: mosca, gallo, piuma, leggeri, welter, medi, mediomassimi e massimi).
A partire dai primi Sessanta, in particolare per ragioni economiche e di potere, nacquero per cominciare un alternativo e più tardi altri due (almeno) Organi Internazionali che disciplinavano incontri per i titoli che a loro voglia riconoscevano.
Tra i tecnici, invalse allora l’uso di considerare ‘Campione Lineare’ il boxeur che fosse l’ultimo riconosciuto da tutti gli Organismi o colui il quale fosse stato in grado di batterlo sul ring in un incontro valido per il titolo.
È il riferimento fatto sopra a Clay/Ali che meglio spiega l’inghippo.
Avendo questi sconfitto Sonny Liston che aveva battuto Floyd Patterson a sua volta successore – con la parentesi Ingemar Johansson – del ritirato Rocky Marciano in un match da tutti considerato ufficiale e quindi possedendo le caratteristiche del ‘Lineare’, la sua destituzione non poté incidere da questo punto di vista.
Furono organizzati diversi incontri per designarne i successori (Ernie Terrel nella obliata ma sopra accennata prima occasione, Jimmy Ellis e infine Joe Frazier nella successiva) ma il ‘Titolo Lineare’ restò suo.
In effetti, lo perse solo quando nel 1971 proprio Frazier lo sconfisse nel celeberrimo match del Madison Square Garden.
Nella circostanza, il detentore riconosciuto Frazier mantenne il titolo ufficiale conquistando altresì e invece quello ‘Lineare’ che fino a quel momento non possedeva non essendo stato, sempre fino ad allora, il pur deprivato Muhammad Ali battuto sul quadrato per la Cintura.
Chiaro?
Nota bene.
1
Ho nel testo fatto cenno ad una mia amicizia (che sarà forte e lo riguarderà anche come da me ammirato finissimo scrittore) con il fenomenale Sandro Mazzinghi.
Ho in altre occasioni scritto di incontri con Mario D’Agata, il Campione Mondiale – secondo Italiano a quel livello dopo Primo Carnera – dei Gallo, sordomuto e sul ring diretto ovviamente non a voce ma da tocchi sulle spalle con le mani e acconci gesti dagli arbitri.
Fatto è che a Varese, per davvero molto tempo, era facile incontrare in giro, magari vedere al Caffè, pugili e in genere atleti di rilievo.
Questo in quanto il mitico e intelligente ‘Cumenda’ Giovanni Borghi, ‘patron’ come si diceva della ‘Ignis Cucine’ con sede in due dei paesi collocati nelle nostre vicinanze, compreso appieno quanto lo Sport fosse veicolo di pubblicità straordinario (in quel periodo, con una televisione con un solo canale e pertanto seguitissima, poi) aveva creato e finanziava la cosiddetta ‘Colonia Ignis’, ambito nel quale gli atleti (assolutamente non soltanto i miei amati ‘battant’) si trovavano per periodi più o meno lunghi di allenamento o riposo, dipendeva.
Oltre a Duilio Loi, il complesso e dolente Giancarlo Garbelli, fra i boxeur per me ‘di casa’.
Lo Sport ‘minore’, al di là del Tennis e del Pugilato, come dal sottoscritto vissuto e narrato
Ciclismo
Sci
Judo
Biliardo, chissà?
Canottaggio e Volo a vela con una incursione tra gli Idrovolanti
nella memoria
e sullo schermo.
Sono brachicardico
E parecchio.
Capita anche che i battiti siano sui quaranta.
Ho quindi il classico ‘cuore d’atleta’ e quante volte mi è stato detto con aria perfino di invidia: “Chissà come era bravo da giovane negli Sport?”
Orbene, nel campo (come in infiniti altri e penso alla Scuola che peggio di così, per malavoglia, indolenza e vera incapacità, tra meritatissimi rinvii ad ottobre, una sonora bocciatura e una laurea strappata in dieci anni, non poteva andare), sono stato pessimo.
Ho nuoticchiato, questo sì e il fatto che la Fibrosi Polmonare che mi accompagna e che dal 2018, aggravandosi, mi stia impedendo di continuare a farlo è una punizione (meritata: tendo sempre a considerare quanto m’accade di poco piacevole come tale perché devo pagare per le capacità che senza merito alcuno mi sono state date, prima fra tutte una memoria naturale senza limiti e che, io invecchiando, incredibilmente per i più, aumenta).
Undici/dodicenne, chissà perché?, mi iscrissero a una scuola di Scherma, specialità Fioretto.
La ripetitiva ossessiva dei movimenti mi stancò immediatamente.
Ricordo bene il giorno nel quale, ventenne, avendo fatto un giro in bici sulla sponda del Maggiore, tornando, a Laveno, temendo il Sasso di Gavirate che più avanti avrei dovuto scalare, la lasciai nel deposito della stazione e in treno partii per Varese riservandomi di tornare a prenderla un domani e mi chiedo se sia ancora là.
La sola volta che decisi di darmi al lancio del peso (per evitare un programmato compito in classe ‘dall’italiano in latino’ mi ero iscritto ai Provinciali Studenteschi in quella specialità visto che non ero un fuscello e pensavo di rendere), mi sono trovato di fronte Angelo Groppelli, una specie di armadio semovente poi anche Campione Nazionale, che mi ha spazzato via come niente fosse tirando almeno il doppio.
Ciò detto, ogni parte ed ogni riferimento ed ogni Campione citato ed ogni risultato di seguito vergati lo sono esclusivamente a memoria.
Io non cerco conferma a quel che ricordo.
Io, ad ogni riguardo, so!
Ah, non parlo di Calcio (salvo che per dire che a mio modo di vedere Francesco Totti è stato il miglior pedatore di ogni tempo e non solo in Italia) perché non è uno Sport, è un gioco, vie più praticato in larghissima schiera da trogloditi tatuati e seguito, negli stadi ma non solo, da masse di dementi.
(Volendo, anche i cosiddetti ‘tifosi’ dei ciclisti che affollano le salite impedendo quasi loro di avanzare e non di rado causando guai andrebbero eliminati fisicamente.
Ciò non potendo accadere, gli uni e gli altri, almeno identificati per togliergli il Diritto di Voto che, assurdamente, consente loro di condizionare me!)
Ciclismo (certo, che definire le due ruote uno Sport ‘minore’, ma tant’è)
Una breve premessa e
il Campionato Mondiale di Ciclismo di Varese di settant’anni fa!
1971, vent’anni dopo.
Premessa.
Bernard Hinault.
Si discute.
Il ‘Campionissimo’?
C’è chi dice Alfredo Binda.
Chi Fausto Coppi.
Chi Eddy Merckx.
Chi afferma che i confronti siano impossibili o quasi per via delle condizioni differenti delle strade percorse e dei mezzi usati.
Per via dell’aiuto dato dalla medicina e a questo proposito fermiamoci.
Per quanto mi riguarda, comunque, io dico Bernard Hinault, il Bretone che dalle sue parti chiamavano ‘le Blaireau’, il Tasso.
A parte la straordinarietà di molte imprese messe a segno con assoluta sicurezza (l’amico lavenese Silvano Contini, ottimo di suo e vincitore di una Liegi/Bastogne/Liegi, mi ha raccontato di quella volta che alla partenza di un Giro di Lombardia Hinault lo aveva avvicinato per dirgli che se voleva arrivare secondo dietro di lui come era accaduto anni prima bastava lo seguisse perché avrebbe vinto, cosa che poi immancabilmente fece), a parte il fatto che nel 1982, per far vedere che gli era possibile tutto, vinse in volata sul gruppo la tappa conclusiva del Tour a Parigi (e come lo mandarono a quel paese i velocisti), a parte il Mondiale, la Roubaix e le altre Classiche, è per me una questione di percentuali.
Ecco: otto i Tour disputati: cinque vinti, in due classificato secondo e un ritiro per infortunio.
Tre Giri e tre primi posti.
Due Vuelta e due primi posti.
Tutti i tre i Giri vinti all’esordio.
Ogni e qual si voglia ‘doppietta’ (Giro/Tour, Giro/Vuelta e Tour/Vuelta).
E tra i plurivincitori il primo ad averli riportati tutti almeno due volte.
Chapeau!
Il Mondiale di Ciclismo a Varese di settant’anni fa!
Ero sul traguardo il 2 settembre del 1951.
Facile, vista la funzione di mio Padre Manlio, direttore dell’Ente Provinciale per il Turismo, primo tra gli organizzatori.
Traguardo posto all’interno dell’Ippodromo delle Bettole – alla bisogna, con una bretella che fungeva da collegamento con le viabili – adeguatamente preparato.
Avevo poco più di sette anni e tifavo alla brutta per gli Italiani.
E, aspettando l’imminente arrivo, nutrivo molte fondate speranze che uno dei tre Azzurri che erano tra gli otto in fuga che si sarebbero di lì a poco giocati il titolo in volata ce l’avrebbe fatta.
Stavamo, stavo, assistendo ai Mondiali di Ciclismo dei professionisti, a quelli.
Dalla fine della Guerra i primi che si svolgessero in
Italia, Paese al quale giustamente erano stati assegnati.
Più che corretto sportivamente difatti che si corresse nella Patria di Gino Bartali e Fausto Coppi (peraltro, quel dì assente) che di quei tempi dominavano.
Assolutamente, poi, che il luogo specifico fosse Varese, ‘terra delle due ruote’, provincia per il numero dei praticanti e amanti della gratificante fatica pedalatoria prima fra tutte e, infine – possibile mai dimenticarlo? – essendo Cittiglio, collocata sulla strada che porta dalla città a Laveno, il luogo natale del vincente (nella funzione, aveva incamerato i Tour de France del 1948 e del 1949 manovrando per il meglio i due predetti ‘grandi’) Commissario Tecnico Alfredo Binda, per di più, tre volte vincitore ai suoi tempi di primo ‘Campionissimo’ e l’ultimo tra i nostri ad indossare (lo aveva fatto a Roma nel già lontano 1932) l’iride.
Con i cinquecentomila spettatori distribuiti sul percorso che seppero poi del risultato e soprattutto nell’immediato con i vicini di tribuna alle Bettole, rimasi profondamente deluso, di lì a poco.
Venendo difatti dalla strada, ‘Pipaza’ Minardi era in testa agli otto fuggitivi con l’intento di tirare la volata a Tony Bevilacqua, libero invece Fiorenzo Magni di operare seguendo l’estro.
In testa, ‘Pipaza’, ma con all’agguato il nasuto Elvetico Ferdy Kubler che due anni prima era arrivato secondo e nel 1950 terzo dimostrando un particolare feeling con la contesa.
Vinse lo Svizzero facile, di una bicicletta abbondante.
Secondo Magni e terzo Bevilacqua, un podio con ben due dei nostri ed estremamente deludente!
E non era per me fonte di superamento del dolore immediato sapere che Ferdy (la cui dedica inaugurerà l’Albo d’Oro cittadino) fosse anch’egli un vero crack, in grado già di riportare un Tour e quell’anno plurivincitore, contando nel carniere il Giro di Svizzera e la mitica Liegi-Bastogne-Liegi.
Mezzo milione di spettatori, ho detto.
Ed è quasi certo fosse così per la passione sopra ricordata e perché la televisione in Italia era di là da venire.
A che i giovani (e per il vero anche moltissimi tra i meno giovani) lo sappiano, il calcio era allora uno sport assolutamente meno seguito del ciclismo i cui esiti anche relativi a corse nazionali godevano di ogni attenzione da parte della stampa tutta.
Bellissimi tempi, anche per questo!
1971, vent’anni dopo.
Direttore dell’Azienda Autonoma di Soggiorno, ebbi l’incarico di tesoriere dei Campionati Mondiali su pista (lo stadio ne presenta una, quella sulla quale assai spesso si conclude la Tre Valli Varesine) ospitati dalla città.
Edizione certamente non memorabile di una competizione di interesse vie più declinante.
In particolare da noi ma non solo, la pista non trovava il seguito e l’eco dei trascorsi momenti migliori.
Ne curai parte del tramonto!
Sci, Alpino, di Fondo o Biathlon che sia.
(Righe vergate adesso, nelle prime ore pomeridiane del 23 agosto del 2021, anno secondo della pandemia).
È che pensando alle discipline che hanno svolgimento sulla neve – discipline che ho sempre rifiutato di praticare per quanto sia stato fin da ragazzino sotto Natale un abbastanza assiduo ospite di località nelle quali mi sarebbe stato facile farlo – lungi dal ricordare almeno i miei pressoché coetanei Gustav Thoeni, Piero Gros, gli altri della ‘Valanga Azzurra’ o magari l’immensa Debora Compagnoni e compagne (e che ai nostri giorni possiamo contare in Discesa e SuperG sulla Medaglia d’Oro e d’Argento olimpica Sofia Goggia – che è un ‘crack’ – su Federica Brignone, vincitrice di una Coppa del Mondo assoluta e di altre di specialità, sul fortissimo Dominik Paris, nonché, per quanto in calo, nel Biathon, su Dorothea Wierer), quella che mi viene in mente è purtroppo la data di una tragedia.
Era il 29 gennaio del 1994 e sulla pista Kandahar di Garmish-Parternkirchen, in Alta Baviera, si disputava una Discesa Libera femminile valida per la coppa del Mondo ‘93/‘94.
Fra le partecipanti e favorite, l’Austriaca Ulrike Maier, due volte Campionessa Mondiale in SuperG.
Partita che fu – seguivo in televisione, ovviamente – presa una velocità eccessiva, cadde la poveretta rovinosamente, finendo con l’impattare con la testa, perdendo nell’urto il casco, in un mucchio di neve collocato nelle vicinanze del paletto che sosteneva una fotocellula (particolari che vennero a galla e appresi dopo, perché al momento, vedendola esanime, l’unica cosa alla quale pensai fu a recitare una preghiera).
Morì così Ulrike, sul colpo, per la rottura delle vertebre cervicali.
Sapevo bene che aveva una bambina, spesso allegramente seduta sulle spalle del padre, ad aspettarla al traguardo.
Spensi immediatamente la tv.
Non che mi capitasse di vederla e di coglierne affanno e dolore.
Fu quello il giorno nel quale la nostra Isolde Kostner – una delle più forti Azzurre ‘all time’ – vinse la prima gara a quel livello.
Rammento tristemente questo, in altre concomitanze, particolare da festeggiare, come si sarà compreso.
Judo (in bianco e nero, a quei tempi).
Il Judo rappresenta per me, da sempre, disciplina, ritualità, serietà.
Soprattutto, educazione.
È nel bianco e nero della appena nata televisione che – anni Cinquanta del trascorso Novecento – uomini in perfetta tenuta chiara con una cintura che ne dichiarava studio, competenza, capacità, sacrificio, inchinandosi dapprima, rispettando regole in fondo romantiche, si affrontavano.
Era il judo allora – io undicenne o poco più – uno degli sport, non a caso ma a fini educativi evidenti, maggiormente introdotti nelle dimore degli Italiani dal novello mezzo.
Sport straniero, e contava lo fosse.
Di più, giapponese e quindi nei dettagli coordinato e regolato.
E, nella regola – l’ho detto – romantico, come solo i mitici figli del Sol Levante le cui storie guerriere conoscevamo per due essenziali ragioni (la comunque recente fine di un conflitto mondiale nel quale i combattenti nipponici si erano dimostrati eccezionali in ogni caso e pronti al sacrificio e, nelle sale cinematografiche europee, l’inattesa apparizione di film nipponici di altissimo livello che non poche volte proponevano figure eroiche più antiche, i Samurai, il cui ‘codice’ comportamentale, forse prefigurante, apprendemmo), erano stati capaci di ideare e concretizzare.
Ebbero dipoi da quegli anni a trascorrere non peraltro lunghi tempi meno significativi durante i quali, distratto, la disciplina, ahimè, retrocesse nel mio interesse.
Fino a quando seppe proporre all’universo mondo qualcosa (qualcuno) di unico o quasi nella Storia dello sport: il Campione assoluto, praticamente imbattibile.
Incredibile a dirsi, non un Giapponese.
Apparve difatti per sbaragliare in particolare nei primi anni Sessanta e – una tragedia! – proprio alle Olimpiadi di Tokyo i grandi combattenti dell’arcipelago ‘the Dutchman’, l’olandese, gigantesco, Anton Geesink.
All’elevatissimo livello di Rocky Marciano nel Pugilato.
Del futuro re del Salto con l’asta Sergy Bubka.
Del Rod Laver capace di due Grandi Slam nel Tennis.
Di quasi nessun altro a ben vedere.
Da allora, sconsideratamente, una mia lontananza colpevole della cui disavvedutezza mi rendo oggi conto e pento!
Il biliardo, chissà?
Righe codeste e poche tra le mille da me vergate a proposito del nobilissimo gioco nel quale le palle d’avorio corrono silenziose sui panni.
Evitando o cercando il castello.
Cogliendo o meno sponde.
Colpite piatte o con l’effetto.
Vergate e che qui ripropongo chiedendomi se il Biliardo sia uno Sport o meno e concludendo con un sì comunque dubitante, nel mentre ricordo al proposito ‘regole’ d’esperienza espresse attraverso battute nell’ambiente note a tutti, quali “Mai tirar la buca in mezzo, mai giocar col biscazziere”.
L’indicante vera difficoltà “Biglia lontana, biglia puttana”.
La valida anche per qualsiasi differente ambito “Calma e gesso”.
La programmatica “Punti e messa”, laddove il secondo vocabolo non è un riferimento a cerimonie religiose qualsivoglia ma alla opportunità di operare a che la posizione raggiunta dopo il tiro dalle biglie sul panno sia per l’avversario tale da impedirgli o comunque rendergli improbabile fare punti…
È questo un persistente e davvero lungo mio momento di lontananza.
I tavoli stessi, io ad altri intenti intento, sono mutati da decenni.
Dai tempi belli, eliminando – dovunque, per ogni dove, rendendo le cose più facili, si peggiora senza remissione – le classiche buche.
Televisivamente, è stato soppiantato dallo Snooker anglosassone ma praticato anche in Cina.
Tutta un’altra peraltro affascinante faccenda.
Maggiore la grandezza del tavolo, differenti e colorate a distinguerne i diversi valori le biglie, monte premi assolutamente rimpinguato…
Righe, allora, che dimostrano come “discendendo per lì rami” sia possibile dirazzare.
E quanto.
“ Si parva licet componere magnis”.
Van Cliburn?
La Madre – che gli trasmise il dono – era stata allieva di Arthur Friedheim, uno degli ultimi discepoli di Franz Liszt.
Pianoforte, dunque.
A livelli semplicemente sublimi.
‘Si parva licet componere ‘magnis’, sul tavolo verde, stecca alla mano, sono stato allievo di Piero Chiara (scrisse che la cosa che gli era meglio riuscita tra quante sognate da giovane era proprio giocare a biliardo), a sua volta discepolo del mitico mattatore milanese trasferito in vecchiaia a Luino noto semplicemente come ‘il Forzinetti’.
Risultato?
Una mediocrità assoluta.
Non che ai tempi delle lezioni ‘chiariane’ me ne curassi.
È oggi, in questo preciso momento, che provo un qualche dispiacere, un improvviso avvilimento.
E che ricordo con occhio diverso quella volta che, al Centrale, avendo fatto saltare la bilia, capitò che abbattessi i birilli del biliardo posizionato un paio di metri più in là e che poi, spavaldamente, asserissi che i punti relativi dovessero essere aggiunti ai miei.
Sbruffoneggiavo, mentre, sconsolato, Piero scuoteva la testa.
Canottaggio e Volo a vela con una incursione tra gli Idrovolanti
Il nostro Lago – rubato a Gavirate quando verso fine anni Venti, affrancandosi da Como, Varese divenne capoluogo di Provincia – vanta caratteristiche naturali tali da favorire grandemente due attività sportive: il Canottaggio e il Volo a vela, con gli alianti, insomma.
Per il vero, l’assenza sostanziale di correnti e di turbini d’aria aiuta il primo al punto che squadre nazionali di Paesi lontani (gli Australiani hanno il loro centro di allenamento proprio a Gavirate) vengono in zona spessissimo e di sovente qua si svolgono Campionati di ogni livello, internazionali assolutamente compresi.
Quanto ai Canottieri la cui sede è ovviamente alla Schiranna (il quartiere lacustre varesino), sono purtroppo agonisticamente lontani anni luce in particolare dal secondo lustro dei Quaranta del Novecento, quando vinsero tre volte i Campionati Europei e, leggenda vuole, persero le Olimpiadi del ‘48 a Londra per un avvelenamento da cibo avariato volutamente determinato da non identificati rivali che così riuscirono a fermarli.
Se la mancanza di turbini lascia tranquille le acque e favorisce quanto alla voga, la presenza di correnti ascensionali è determinante per il volo con gli alianti.
È difatti da parecchi decenni (dal 1961 per iniziativa e intervento della Famiglia Mazzucchelli Orsi), posizionato accanto alla Schiranna un aeroporto loro riservato.
Aeroporto che ha visto all’opera appassionati senza dubbio ma anche veri grandi Campioni localmente espressi in grado di stabilire più volte primati mondiali (prima fra tutti, la mitica Adele Orsi).
Da segnalare una particolarità ulteriore, che avvicina grandemente Varese alla Namibia.
Laggiù si recano quando possibile i velisti varesini perché le citate correnti sono su quella Costa e nel Deserto per pochissimo migliori perfino delle nostre.
Nota bene.
Visto che ci siamo, il lago è stato altresì luogo di addestramento per idrovolanti e, inabissandosi verso Gavirate, venne a morte laggiù quel grande pilota del mezzo che fu Vittorio Centurione Scotto, noto, al di là delle straordinarie imprese belliche e sportive, per l’amore vissuto con Liala che degli aviatori sarà di lì a poco e per tutta la vita la fervente narratrice.
Era il 21 settembre del 1926.
Aveva poco più di ventisei anni e già collezionato una impressionante serie di record sportivi preceduti, come sopra suggerito, nella Guerra 15/18 da medaglie al valore e riconoscimenti guadagnati giovanissimo sul campo.
Uomo eccezionale.
E sullo schermo.
Per quanto mi sforzi, non mi riesce di ricordare film o telefilm davvero memorabili non tanto quanto al tema sportivo ma ad una almeno buona rappresentazione sullo schermo di una specifica attività agonistica.
(Trovo, a significare, certamente troppo caricata nei toni e sostanzialmente sul ring falsa – forse meno nel primo – l’intera serie ‘Rocky’.
E, restando alla Boxe, credo non siano state male le scene girate da Paul Newman in ‘Lassù qualcuno mi ama’.
Migliori ancora, quelle interpretate da Gerard Depardieu in ‘Tre amici, le mogli e affettuosamente le altre’ del grande Claude Sautet, il cui Cinema, secondo Francois Truffaut, “era la Vita”).
Probabilmente perché il meglio il Cinema USA lo esprime illustrando Sport che poco o punto mi interessano o piacciono.
Posso salvare, faticando parecchio, allora, in quest’ambito, una pellicola con Kevin Costner il cui titolo è stato tradotto ‘Gioco d’amore’ e di contro in originale dice ‘Amore per il gioco’.
Parla di Baseball, la grande passione dell’attore e regista, e di una ‘Partita perfetta’.
Baseball, a proposito del quale ricordo con al contrario molto interesse che il 15 aprile del 1910 l’allora Presidente degli Stati Uniti William Taft diede il via, tirando la prima palla, alla partita inaugurale del Campionato, cosa che da allora nessun suo successore ha trascurato di fare.
A chiudere:
Tennis di massimo vertice: Miami ATP Mille, gli attesi ‘nuovi’ (non considerando Carlos Alcaraz – e, si spera, Jannik Sinner – tra loro perché assai più giovane) tutti out
Aggiornamento vergato in Varese, li 1 aprile (“il più crudele tra i mesi”) 2022
L’ho appena scritto: con l’eliminazione di Andy Murray il trascorso 26 marzo, dopo un tempo pressoché infinito, nessuno dei quattro usuali dominatori (con lo stesso Scozzese, lo Spagnolo Rafael Nadal, lo Svizzero Roger Federer e il Serbo Novak Djokovic, assenti i tre ultimi citati per diverse ragioni) del circuito tennistico mondiale è più in gara in un Torneo, il 1000 di Miami di grande importanza essendo appunto i Mille, ‘inferiori’ solamente ai quattro Slam.
È tale accadimento assolutamente, epocale, storico nell’ambito.
Ci si poteva (doveva) attendere che l’illustrato evento consentisse ad uno dei tre (quattro?) da tempo annunciati, necessari, successori dei predetti ‘Fab Four’ quanto a rendimento si affermasse, lottando gli stessi tra loro.
Ebbene, il Russo Daniil Medvedev (che è stato numero uno della classifica mondiale per l’espace d’un matin, subito restituendo il maltolto a Djokovic che regna senza giocare), il Tedesco Alexander Zverev, il Greco Stefanos Tsitsipas e, volendo, l’altro Russo Andreji Rublev – tutti nati tra il 1996 e il 1998 – sono caduti in Florida lungo il percorso l’uno dopo l’altro.
Una generazione che – non è la prima volta, visti i singoli ma decisamente non frequentissimi acuti messi finora complessivamente a segno – sta sostanzialmente deludendo.
Al punto – lo verificheremo immediatamente visto che proprio a Miami si è qualificato per la semifinale – d’essere superati (si direbbe, definitivamente se davvero al mondo il non provvisorio mai si determinasse) dal tuonante ‘ragazzo’ Spagnolo Carlos Alcaraz, non ancora diciannovenne!
Certo, suonare per i nati nel secondo quinquennio dell’ultima decade del trascorso secolo la campana è dare una sentenza che non può invece essere definitiva.
Se non si danno una mossa, però, e magari si fanno superare anche dal nostro, peraltro più problematico, Jannik Sinner (che è del 2001), resteranno tra quanti, molto vicini alla fonte d’acqua, non riescono a dissetarsi!