Avanza l’onda dei camici rosa. Le donne medico con meno di 70 anni, quindi potenzialmente in attività nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, sono, seppur di stretta misura, più degli uomini: 169477 contro 163515, il 50,9% del totale. Un sorpasso nei fatti, non ancora sulla carta: dei 403515 iscritti agli albi dei medici, la maggioranza, vale a dire 219986, il 54,5%, sono uomini. Erano il 55% l’anno scorso, quando le donne superavano gli uomini solo tra i medici con meno di 65 anni; il 56% nel 2020.
Ad affermarlo, i dati elaborati, come ogni anno in occasione dell’8 marzo, dal CED della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri.
La forbice si allarga, a favore delle donne medico, man mano che si scende con l’età: se consideriamo i medici con meno di 65 anni sono il 55%, sotto i 50 anni sono addirittura il 60%. Analizzando i dati per fasce di età di 5 anni, le donne sono la prevalenza in tutte le fasce sino ai 54 anni compresi. Il picco numerico si ha tra i 35 e i 49 anni di età, dove le donne costituiscono il 62% del totale. Tra i 40 e i 44 anni, in particolare, quasi due medici su tre, e precisamente il 64%, sono donne. La situazione tende a “normalizzarsi”, anche se la prevalenza è sempre femminile, tra i nuovi iscritti: sotto i 30 anni “solo” il 56% dei medici è donna.
È invece soprattutto nelle fasce di età più avanzate che gli uomini detengono una maggioranza schiacciante: ad oggi, tra i medici over 70, sono il 73%.
Del resto, quella della femminilizzazione della professione è una tematica moderna: appena cento anni fa, le donne medico erano circa duecento, per diventare 367 nel 1938. Medico fu però la prima donna a laurearsi nell’Italia unita: Ernestina Paper, originaria di Odessa, che discusse la sua tesi all’Università di Firenze nel 1877; seguita, l’anno dopo a Torino, da Maria Farné Velleda, seconda laureata d’Italia, sempre in Medicina. Una femminilizzazione della professione medica, dunque, che diventerà ancora più evidente nei prossimi cinque anni, quando, secondo le proiezioni, avverrà il ‘sorpasso’ vero e proprio, anche sul totale dei medici. E che impone, anche in considerazione della crescente importanza delle professioni sanitarie e di cura legata alla pandemia di Covid-19 e alla cronicità, nuovi modelli organizzativi e sociali, oltre a un’attenzione particolare alla sicurezza.
“Il 9% degli infortuni denunciati all’Inail tra gli operatori sanitari tra il 2015 e il 2019 sono casi di aggressione – spiega il Presidente della Fnomceo, Filippo Anelli – e il 72,4% di questi episodi di violenza hanno riguardato le donne, con 7858 casi contro 3000. Dobbiamo fissare degli obiettivi semplici e ben definiti, che possano essere racchiusi in un documento, con l’obiettivo di prevenire le aggressioni negli ambienti di lavoro ma anche di studio”.
Proprio con questo obiettivo nasce a Bari, presso la Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi Aldo Moro, il nuovo sportello del Centro Antiviolenza comunale, il quarto sportello universitario dopo i punti di ascolto inaugurati nell’Ateneo, nel dipartimento di Veterinaria e presso il Politecnico, a cura del centro finanziato dall’assessorato al Welfare e gestito dalla cooperativa Comunità San Francesco.
All’inaugurazione, domani, interverranno, oltre allo stesso Anelli, nella doppia veste di presidente della Fnomceo e dell’Ordine dei medici di Bari, il sindaco Antonio Decaro, l’assessora al Welfare, Francesca Bottalico, il rettore dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro Stefano Bronzini, la coordinatrice del Centro Antiviolenza, Marika Massara e il presidente della Scuola di Medicina Alessandro Dell’Erba.
“Grazie alla collaborazione interistituzionale tra Comune e Università degli Studi di Bari, nasce un nuovo punto di ascolto del Centro antiviolenza del Comune finalizzato a garantire un servizio di informazione, accoglienza, ascolto e sostegno rivolto alle donne, studentesse e docenti del dipartimento – spiega Anelli -. Si consolida così l’impegno delle istituzioni e del privato sociale nel contrasto alla violenza di genere. Quella che serve è, infatti, una rivoluzione culturale, che metta in primo piano la libertà e l’autodeterminazione della donna e la sicurezza delle lavoratrici e delle studentesse. La violenza di genere ha infatti un impatto profondo sulla salute fisica e mentale delle donne che la subiscono e, considerando che, nel mondo, una donna su tre subisce violenza, è una vera e propria emergenza di sanità pubblica”.