Al confronto l’andamento del barile di petrolio, raddoppiato, sembra stabile. Eppure un simile choc di solito viene liquidato come un fenomeno passeggero: lo scorso inverno lungo e freddo che ha richiesto forniture più intense, poco vento nel mare del Nord che ha rallentato la produzione di rinnovabili, la domanda che riparte all’allentarsi della pandemia. Eppure Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni, non è del tutto convinto.
Dietro l’esplosione dei prezzi ci sono anche elementi strutturali?
«La prova del nove che questi non sono semplicemente rincari legati a circostanze passeggere è che l’aumento di prezzi non è puntuale, non avviene in una sola regione del mondo. Non è solo nel Mare del Nord o in Europa. C’è un aumento ancora superiore in Asia. Ci sono fortissimi aumenti in Argentina, in Brasile, negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno molto gas, eppure anche lì il prezzo è più che raddoppiato. Quindi non può essere solo che nel Mare del Nord non c’è stato vento di recente e, invece di utilizzare al 15% o 18% l’energia eolica, per ora la si utilizza al 7%. Non è solo questo».
Si dice che i prezzi salgano perché la Russia limita le forniture di gas.
«La Russia magari può incidere sull’Europa, ma non certo su tutto il resto del mondo. La ragione è che gli investimenti upstream, quelli a monte della filiera energetica per la creazione di nuova capacità produttiva nei giacimenti, hanno avuto due fasi di forte riduzione. La prima fu causata da un eccesso di offerta molto importante nel 2014. Allora si è passati da 850 miliardi di dollari di investimenti globali annui a 350 o 400 miliardi. In seguito gli investimenti sono stati tenuti bassi, nel timore che si ripresentasse un eccesso di offerta. Dopodiché c’è stato il Covid, che li ha abbassati ulteriormente».
C’è davvero uno squilibrio strutturale fra domanda e offerta di energia nel mondo, con la domanda che corre sempre più veloce?
«L’offerta non è più in linea con una domanda che sta rimbalzando. L’allentarsi del Covid ha rappresentato una molla che adesso si espande e chi deve assicurare l’energia non riesce a mantenere la produzione ai ritmi necessari, per il calo degli investimenti degli scorsi anni».
Si dice che i prezzi salgano perché la Russia limita le forniture di gas.
«La Russia magari può incidere sull’Europa, ma non certo su tutto il resto del mondo. La ragione è che gli investimenti upstream, quelli a monte della filiera energetica per la creazione di nuova capacità produttiva nei giacimenti, hanno avuto due fasi di forte riduzione. La prima fu causata da un eccesso di offerta molto importante nel 2014. Allora si è passati da 850 miliardi di dollari di investimenti globali annui a 350 o 400 miliardi. In seguito gli investimenti sono stati tenuti bassi, nel timore che si ripresentasse un eccesso di offerta. Dopodiché c’è stato il Covid, che li ha abbassati ulteriormente».
C’è davvero uno squilibrio strutturale fra domanda e offerta di energia nel mondo, con la domanda che corre sempre più veloce?
«L’offerta non è più in linea con una domanda che sta rimbalzando. L’allentarsi del Covid ha rappresentato una molla che adesso si espande e chi deve assicurare l’energia non riesce a mantenere la produzione ai ritmi necessari, per il calo degli investimenti degli scorsi anni».
C’entra la transizione energetica, in vista dell’abbattimento delle emissioni di CO2?
«La compressione degli investimenti è dovuta anche al fatto che le compagnie hanno messo in competizione gli investimenti nell’upstream con quelli nella transizione e nello sviluppo delle rinnovabili. Noi in Eni quest’anno abbiamo destinato allo sviluppo e all’acquisizione di rinnovabili quasi due miliardi e mezzo di euro. Visto che le risorse non sono infinite, si devono fare delle scelte e stabilire delle priorità. Si sente la giusta necessità di decarbonizzarsi ma questo impatta sugli investimenti nelle fonti tradizionali e genera una diminuzione nella loro offerta a fronte di una domanda che strutturalmente ancora le richiede. Quindi ecco la ragione vera: ci sono stati meno investimenti».
Sta mettendo in discussione gli obiettivi di riduzione del gas-serra?
«Assolutamente no e gli investimenti che abbiamo fatto e che stiamo facendo lo dimostrano. Io credo fermamente che bisogna ridurre le emissioni. Bisogna stare sotto il grado e mezzo di aumento medio delle temperature mondiali rispetto all’era pre-industriale e bisogna farlo sulla base di una neutralità tecnologica».
Che significa neutralità tecnologica?
«Che quando si vuol raggiungere un obiettivo così importante, dobbiamo usare tutti i mezzi appropriati e «puliti« a nostra disposizione. Le rinnovabili sono fondamentali, ma c’è anche la cattura delle emissioni di CO2 e il sequestro nei giacimenti esausti, ci sono le bioraffinerie, l’economia circolare – sia delle materie organiche che di quelle inorganiche – oltre a tecnologie di realizzazione futura come la fusione nucleare. Altrimenti è come se uno dovesse correre i cento metri, e la corsa verso la decarbonizzazione deve essere rapidissima, con le mani e i piedi legati. Non può funzionare. L’ideologismo sulle tecnologie è nemico del raggiungimento dell’obiettivo climatico».
Cosa la preoccupa?
«Finora ci siamo
preoccupati di modificare l’offerta dei vettori energetici senza modificare la domanda che continua ad essere in prevalenza, nel settore dell’industria e della mobilità, relativa a petrolio, gas e carbone. Questo gap tra domanda e offerta è la causa dell’aumento dei prezzi».
Ma come si modifica la domanda, a suo avviso?
«Con leggi, incentivi e norme attuative. Se si devono usare biocarburanti invece di benzina normale, servono delle norme. Se si deve usare dell’idrogeno verde o blu che ha un costo superiore a quello prodotto con la semplice trasformazione di metano, allora serve una compensazione sulla differenza dei costi di produzione. Non basta dare degli obiettivi, al 2030 o al 2050. Dobbiamo costruire il tessuto connettivo delle infrastrutture, della domanda, dell’offerta, delle norme, delle leggi. Va fatta un’analisi molto profonda».
Non trova che la domanda di energia possa solo salire? È già sopra ai livelli pre-Covid anche se l’economia globale è ancora al di sotto.
«La domanda di energia salirà, anche perché l’umanità sta crescendo. L’aumento atteso in 25 anni di più di due miliardi di persone sarà concentrato in Africa e in Asia. Lì c’è il gap energetico più importante: il consumo energetico africano è circa il 4% di quello mondiale, ma la popolazione è il 17%. Questo gap è la misura della povertà. Ma quando lo sviluppo arriverà, la domanda di energia aumenterà moltissimo. Così sarà anche in Cina, in India, in tutta l’Asia in generale».
Lei prima parlava di «ideologismo«? In cosa e da parte di chi?
«Assistiamo a un effetto pendolo. C’è l’impressione che le grandi corporation abbiano fatto quello che hanno voluto in tutti questi anni, quindi si conclude che per riuscire a bloccare le emissioni, bisogna bloccare le corporation. Così si oscilla all’estremo opposto. Ma chiediamoci quali effetti hanno gli attacchi alle grandi società dell’oil & gas. Oggi queste major sono molto attente. Siamo trasparenti sugli impatti ambientali, con rapporti di sostenibilità dettagliati, target ambiziosi, capitale e tecnologie per perseguirli. Se noi grandi veniamo spinti o costretti dal mercato a vendere a piccole società locali e private le nostre attività,– questi processi produttivi continueranno ma saranno molto meno controllabili. Proseguiranno, perché l’energia servirà comunque. Ma non ci sarà né impiego di tecnologia né attenzione alla sostenibilità, perché avremo venduto a società che hanno gli stessi obblighi di trasparenza. L’impatto ambientale non può che peggiorare».
Quando lei parla di neutralità tecnologica per la transizione, ci include le mini-centrali modulari di nuova generazione? Si fa fatica a far entrare questo tema nel dibattito.
«In Italia, sì, si fatica. La Francia sta chiedendo di usare nucleare e gas e così gli Stati Uniti. Da noi in Italia c’è stato un referendum a metà anni ’80 e il nucleare è stato escluso. Quello di ultima generazione è completamente diverso, anche se è sempre a fissione. Ma in un paese in cui si fatica a installare un pannello fotovoltaico, come si può costruire una centrale nucleare? Per essere competitivi dobbiamo snellire le procedure, trovare un patto con il territorio per poter sviluppare le attività industriali ed essere consapevoli che l’industrializzazione fatta nel modo corretto e trasparente che crea sviluppo e lavoro è positiva per tutta la società. Questo va fatto con chiari obiettivi ESG (di sostenibilità, ndr), assicurandosi di non lasciare indietro nessuno e di non creare sacche di privilegiati o esclusi dalla crescita».
Federico Fubini, corriere.it