In Italia le donne che vivono dopo la diagnosi di carcinoma della mammella sono aumentate del 43% in dieci anni (da 581.373 nel 2010 a 834.154 nel 2020). Diagnosi precoce e progressi nelle terapie hanno contribuito a questo importante risultato. Nel nostro Paese, però, ancora troppe pazienti colpite dalla neoplasia ricevono chemioterapie senza averne reale necessità. Perché i test genomici che permettono di identificare le donne per cui la chemioterapia è utile non sono ancora disponibili su tutto il nostro territorio. Scontiamo in questo senso un ritardo di almeno un decennio rispetto alle pratiche adottate in altri Paesi europei, come Germania, Regno Unito, Spagna e Grecia, e alle indicazioni contenute nelle più importanti linee guida delle società scientifiche. Due recenti congressi internazionali hanno ribadito il ruolo essenziale dei test genomici e le conclusioni sono approfondite in una conferenza stampa virtuale. “La ‘St. Gallen International Breast Cancer Conference’ certifica ogni anno i più rilevanti avanzamenti nel trattamento del carcinoma della mammella”, spiega Giuseppe Curigliano, Professore di Oncologia Medica all’Università di Milano e Direttore Divisione Sviluppo di Nuovi Farmaci per Terapie Innovative all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. “Quest’anno è stato posto il ‘consenso’ di 70 esperti internazionali sul ruolo fondamentale dei test genomici nell’evitare la chemioterapia nella maggior parte delle donne in postmenopausa con carcinoma della mammella in stadio iniziale con linfonodi positivi. L’impatto sulla qualità di vita è enorme, perché vengono risparmiate inutili tossicità. Si tratta dell’aggiunta di un ulteriore tassello nella definizione della terapia più appropriata, visto che il gruppo di esperti di St. Gallen già da dieci anni, nelle sue linee guida, raccomanda questi test nella malattia in stadio iniziale ormonosensibile, senza espressione della proteina HER2 e senza coinvolgimento dei linfonodi”.
Alle stesse conclusioni sono giunti anche gli esperti riuniti nel congresso internazionale “Sharing Progress in Cancer Care”, che si è svolto recentemente.
“In Italia, nel 2020, sono stati stimati quasi 55mila casi di tumore della mammella e la sopravvivenza a 5 anni raggiunge l’87%”, afferma Francesco Cognetti, Presidente Fondazione Insieme contro il Cancro e Direttore Oncologia Medica Regina Elena di Roma. “L’obiettivo del trattamento adiuvante, cioè successivo alla chirurgia, è offrire a ogni paziente con carcinoma mammario in fase precoce le migliori possibilità di cura. In questi casi, dopo l’intervento chirurgico, la terapia prevede il trattamento ormonale – spiega Cognetti – che può essere associato a chemioterapia nei casi ritenuti a maggior rischio di recidiva, ad esempio in presenza di un interessamento dei linfonodi. Circa il 25% delle pazienti con diagnosi di tumore del seno in fase iniziale, che esprime i recettori estrogenici ma non la proteina HER2 (ER+/HER2-), mostra interessamento dei linfonodi e due donne su tre sono in postmenopausa”. “La grande maggioranza oggi è trattata con la chemioterapia, – conclude Cognetti – anche per una comprensibile prevalenza di atteggiamenti prudenziali da parte dei clinici. I risultati dello studio internazionale di fase III RxPONDER forniscono una risposta ai dubbi che non possono essere risolti con i parametri clinico-patologici tradizionali”. Lo studio, condotto in modo indipendente dal SWOG Cancer Research Network con il sostegno del National Cancer Institute, ha coinvolto 5.083 donne con tumore del seno in stadio iniziale (II-III), che esprime i recettori estrogenici ma non la proteina HER2, con coinvolgimento dei linfonodi ascellari (da uno a tre). Circa due terzi erano in postmenopausa.
“Le pazienti sono state sottoposte al test genomico a 21 geni Oncotype DX, in grado di stabilire, in base a uno specifico punteggio, quanto la neoplasia è aggressiva e la risposta alla chemioterapia”, sottolinea il Prof. Curigliano. “Quasi il 92% delle donne in postmenopausa trattate con la sola terapia ormonale, a 5 anni, era vivo e libero da malattia invasiva, senza differenze significative rispetto alle pazienti che hanno ricevuto anche la chemioterapia (91,6%) dopo l’intervento. Questi risultati stanno cambiando la pratica clinica e dimostrano che la grande maggioranza delle donne in postmenopausa può evitare la chemioterapia ed essere trattata solo con la terapia ormonale. Diverse invece le conclusioni per le donne in premenopausa, in cui è stato osservato un beneficio derivante dalla chemioterapia statisticamente significativo, con una percentuale di miglioramento del 3% del tasso di recidiva a distanza a 5 anni”.
“Con gli studi RxPONDER e TAILORx, si fa chiarezza in modo definitivo e innegabile su chi trae beneficio dalla chemioterapia tra le pazienti con tumore del seno in fase iniziale, con o senza interessamento linfonodale”, conclude il Prof. Cognetti. “L’esperienza in numerosi studi clinici e in alcune decine di migliaia di pazienti dimostra che questi test aiutano a definire la terapia più appropriata e consentono a molte donne di evitare la chemioterapia. Il valore clinico dei test genomici è stato confermato anche da sperimentazioni condotte in Italia. La corretta identificazione delle donne con carcinoma della mammella per cui è appropriata la chemioterapia rimane un obiettivo molto importante dal punto di vista clinico, sociale ed economico. Vanno infatti considerati sia i costi diretti della chemioterapia che quelli indiretti, legati alla mancata produttività conseguente a trattamenti debilitanti. In Italia i test genomici sono gratuiti solo in Lombardia, Toscana e nella Provincia Autonoma di Bolzano, che ne hanno approvato la rimborsabilità”.