L’Italia si posiziona nell’ultima fascia, tra i Paesi in cui è considerato più “difficile” applicare il monitoraggio attraverso la tecnologia GPS, assieme a Belgio, Cina, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Israele, Lussemburgo, Paesi Bassi, Perù, Polonia, Repubblica Ceca, Russia, Spagna, Svezia, Svizzera. In questi Stati, oltre ad informativa e policy, tra i requisiti per poter attuare il monitoraggio vi è sempre anche la necessità del consenso del lavoratore e/o il raggiungimento di un accordo sindacale o di un’autorizzazione pubblica. Lo rivela un’indagine condotta dallo studio Toffoletto De Luca Tamajo, specializzato in consulenza e diritto del lavoro e sindacale per le imprese, che ha analizzato le normative di 34 Stati in tutto il mondo in tema di geolocalizzazione dei lavoratori subordinati. La ricerca rivela che nel 15% dei Paesi la geolocalizzazione, ovvero il raccogliere dati attraverso strumenti dotati di GPS, telefono o auto aziendale, è possibile con la sola informativa ai dipendenti; In oltre il 70% dei Paesi, invece, accanto all’informativa è necessario ottenere il consenso dei dipendenti e/o raggiungere un accordo sindacale, ovvero ottenere autorizzazioni pubbliche (tra questi vi è appunto anche l’Italia). Nel 90% dei casi è possibile utilizzare i dati di geolocalizzazione per adottare azioni disciplinari, a condizione che siano adottate le prescrizioni di cui sopra. Nel 26% degli Stati è obbligatoria la disconnessione fuori dall’orario di lavoro. In tutti i Paesi oggetto della ricerca sono previste delle sanzioni per l’uso illecito dei dati. I parametri analizzati, rappresentati nella Law Map Geolocalizzazione dei dipendenti realizzata dallo studio, sono in particolare le misure richieste da ciascun Paese per installare e usare un sistema di geolocalizzazione dei dipendenti, la possibilità di analizzare i dati raccolti per adottare azioni disciplinari e i rischi per il datore di lavoro in caso di uso illecito dei dati. “Poter utilizzare i dati raccolti attraverso la geolocalizzazione consente al datore di lavoro di rendere più efficienti i processi di vendita o le attività di intervento tecnico svolte sul territorio, nonché misurare in tali ipotesi la produttività dei dipendenti, a condizione che siano state adottate le necessarie procedure o autorizzazioni previste nelle diverse giurisdizioni”, sottolinea l’avvocato Ornella Patané, partner di Toffoletto De Luca Tamajo. I Paesi analizzati sono stati divisi in tre fasce, in base ai limiti posti dalla normativa all’utilizzo di sistemi di geolocalizzazione: facile, media e difficile. Alla prima fascia appartengono solo 5 Paesi: Canada, Argentina, Brasile, Cile e Regno Unito. Negli ultimi tre è necessaria un’informativa ai dipendenti, tratto comune a tutti gli altri Paesi coinvolti nella ricerca. La mappa posiziona, invece, in fascia media gli Stati in cui all’informativa si aggiungono, nella maggior parte dei casi, una precisa policy aziendale sull’utilizzo e la conservazione dei dati, e il consenso esplicito del lavoratore. Tra questi ci sono molti stati del Nord America – Washington, New York, New Jersey, Texas, Florida, California – oltre a Ungheria, Giappone, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Portogallo.
Un caso particolare è l’Australia. In alcune aree del Paese, infatti, devono essere apposti degli avvisi permanenti sui dispositivi, come ad esempio degli adesivi sui telefoni cellulari, che avvisino dell’esistenza di un sistema di geolocalizzazione. Comuni a molti Paesi sono anche le sanzioni per la violazione delle norme sul trattamento dei dati, previste in Europa dal GDPR. Cambiano le sanzioni che possono essere adottate, anche in base alla gravità dell’illecito. Le più comuni sono quelle amministrative, nel 90% degli Stati.
L’unico Paese oggetto della ricerca in cui è possibile monitorare la geolocalizzazione, ma non per adottare sanzioni disciplinari, è la Grecia. I dati analizzati prendono in esame la disciplina ordinaria dei singoli Paesi e non tengono conto delle discipline speciali connesse all’emergenza da Covid-19.