Di Cesare Lanza per LaVerità
È il gioco più semplice che ci sia, ma anche il più perverso perché offre continue lusinghe. A Saint Vincent, in Val d’Aosta, si eleggeva il campione del mondo. Ai tavoli c’erano i predoni, però anche fanciulle in cerca di fortuna e scaltre signore
Chemin de fer, vi dicevo, è il gioco più semplice del mondo. Vi dicevo: non si vince, forse, con la carta più alta, il nove? «Nove… il numero glorioso che dava solo la vincita e il pareggio e mai la perdita allo chemin de fer, il gioco d’azzardo chiamato nei nostri paesi “scià e là”, perché pare consistere nella sua terribile semplicità, nel gesto de l banchiere , quando premendo con la punta delle dita fa scivolare un a carta a destra e una a sinistra» (Piero Chiara, Una spina nel cuore).
Nella realtà chemin non solo è il gioco di carte più nobile e interessante , e uno dei più antichi, ma anche il più complicato, il più affascinante, diretto e violento, e per certi aspetti – come cercherò di spiegare – il più perverso, per una caratteristica: spinge i giocatori a continue e contrastanti tentazioni; e non solo li obbliga alla inevitabilità di una scelta spesso difficile, ma soprattutto, e subito, nei minuti immediatamente successivi alla scelta , li espone impietosamente a un pubblico giudizio, ai commenti degli avversari e degli spettatori. Tutti, in pochi istanti, verificheranno se la scelta effettuata sia stata abile e fortunata, o incauta e perdente. Saint Vincent, in Val d’Aosta, era considerata in anni orma i lontani la capitale dello chemin de fer. In tempi precedenti, il primato era di altre case da gioco prestigiose, entrate nella leggenda, come Deauville, Montecarlo, Beaulieu, Baden Baden. Il successo del casinò valdostano, in part e imprevedibile, derivava dall’affluenza, dai volumi di gioco e soprattutto dalla continuità: nei giorni feriali erano aperti a Saint Vincent due, tre o quattro tavoli di chemin de fer; durante i tornei, anche nove. Il casinò de la Vallèe, con u n impegno evidente, aveva puntato con determinazione su questo gioco antico e n e aveva salvato il fascino, la tradizione, la cultura . In altre case da gioco, dove lo chemin de fer ha vissuto stagioni memorabili, la decadenza era invece altrettanto evidente e probabilmente irreversibile. Ogni tanto, d’estate e in occasione delle festività natalizie, si aveva notizia di partite di alto livello a Montecarlo e a Deauville. Non è un a decadenza casuale . Dappertutto nel mondo l’americanizzazione dei giochi (il black jack, la roulette a tiro rapido, le slot machines, il videopoker) è un a moda che dilaga e impazza senza freni. Il luna park sta prendendo il posto del casinò. Sono entrati in crisi proprio quei giochi, che hanno fatto la storia dei casinò, che hanno ispirato celebri film, memorabili romanzi: a poco a poco ormai rischiano di estinguersi.
In particolare chemin de fer è soppiantato dal punto e banco: le regole sono le stesse, ma i giocatori sono attratti dalla possibilità di puntar e i propri soldi ad ogni mano. I giocatori di chemin de fer erano migliaia, e assai diversi tra di loro: per censo, per posizione sociale, per cultura e comportamenti, per educazione e infine, soprattutto, per esperienza. Per quasi tutti, al di là della partita quotidiana, i tornei mensili proposti dai casinò (in Italia, Saint Vincent, Campione che oggi è chiuso, Sanremo, Venezia) rappresenta – vano un richiamo irresistibile. Insieme con gli appassionati di chemin più esperti e famosi , ovviamente puntuali all’appuntamento, da ogni part e d’Italia arrivavano nei quattro casinò giocatori e giocatrici d’ogni tipo: i neofiti baldanzosi, gli «incalliti» cauti e sornioni e i giovani spericolati,, i perdenti rassegnati e gli inesorabili vincenti, i più brillanti giocatori di punta e «banchieri» forse di origine popolare e però di aristocratica sicurezza, ragazze che cercavano ingenuament e confort o nei consigli del croupier, scaltre e ciniche vecchie signore… E ancora: giocatori avventurosi e avventurieri predoni, sognatori alla ricerca del colpo della vita e smaliziati sapientoni, puntatori brillanti e un po’ esibizionisti, coraggiosi e irriducibili utopisti determinati ad andar e avanti a oltranza con il loro banco, bellezze fatali alla loro prima esperienza (di gioco) e pollastrelle fintocandide .
I più simpatici, forse, erano gli anziani per non dire i vegliardi, incanutiti al tavolo verde, popolarissimi tra gli impiegati e gli altri giocatori. Mi sono chiesto anch’io molte volte in quale tipo di categoria di giocatori dovessi andar e a collocarmi. La risposta doveva spettare, ovviamente, a quelli che mi conoscevano un po’. Ma, a mio parere, non avrei voluto esser e inserito nell’odiosa e spassosa categoria dei «tecnici», ovvero di quelli che sanno (quasi) tutto delle regole e che, probabilmente proprio per colpa di questa competenza, di rado riescono – vincolati come sono dal pessimismo – a cogliere le buone occasioni offerte dalla fortuna. Nei tornei di Saint Vincent, che per molto tempo si svolgevano in tre «manche», il livello di competizione era assai aspro, la selezione assai dura. I tornei si svolgevano dalla mezzanotte di venerdì fino all’alba del sabato e dal pomeriggio del sabato fino all’alba della domenica; infine riprendevano nel pomeriggio della domenica e si concludevano a mezzanotte. I giocatori cominciavano ad affluire nella prima serata di venerdì: dopo qualche ora, molti erano già a tasche vuote. Chi vinceva un torneo di Saint Vincent, capitale internazionale dello chemin de fer, poteva essere considerato più o meno una sorta di campione del mondo. Di fatto il suo titolo era ufficiosamente rimesso in palio, quasi si trattasse di un campionato di boxe, al torneo successivo, dopo tre mesi. In palio nei tornei c’erano premi assai allettanti, come orologi e bracciali d’oro; il premio finale era sempre un’automobile di lusso, una Ferrari o una Porsche. Succedeva anche, qualche volta, che il giocatore che si aggiudicava il primo premio del torneo, non riuscisse a vincere denaro in misura proporzionata o che, addirittura, alla fine risultasse – quanto al denaro – perdente. Come è noto, la vittoria nel torneo è assegnata al giocatore che abbia totalizzato, nell’ambito delle tre gare, il maggior numero di colpi vinti a banco. È possibile dunque che, attratti dalla possibile vittoria nel campionato, molti giocatori si espongano a inseguire un a serie positiva tenendo il banco e, di conseguenza, si assuma – no rischi notevoli: ad esempio giocando con violenza di punta, allo scopo di indurre altri banchieri a passar e la mano, interessati a rilevare il seguito. (Se è poco chiaro, spiegherò ai non esperti che cosa significa tutto questo, in un prossimo capitolo, dedicato alle regole del gioco). D’altra parte, neanche i dirigenti del casinò, neanch e i bravi e riservati funzionari dell’ufficio fidi sanno (o vogliono o possono) indagar e nei misteri dei portafogli altrui. E quel che fa testo è dunque solo il campionato, un a vetrina prestigiosa. Può allora risultar e enfatico sostener e che il campione assoluto è il vincitore del torneo, mentre vincitore vero è colui che, dopo un’accorta condotta di gioco, e con maggior merito se non ha potuto sfruttare un a serie vistosa di colpi favorevoli, è riuscito a concluder e la serata, o il week end, con il portafogli ben gonfio. Ed è ragionevole affermare che il vincitore di Saint Vincent (visto il volume di gioco e l’affluenza di giocatori di chemin de fer alla casa valdostana) poteva esser e considerato, se non il campione assoluto, certamente tra i più forti ed esperti in Italia e di conseguenza, in Europa e nel mondo. Vorrei ricordare, nostalgicamente, un episodio che risale al remoto 1750. Si ha notizia che a Spa, la prima capitale riconosciuta del gioco d’azzardo, un piccolo editore ottenne un certo successo, con la sola idea di pubblicare un a rivista in cui si occupava dei personaggi, famosi e no, che frequentavano le terme e si dilettavano a giocare d’azzardo, a faraone e dadi, successivamente con il biribissi. Anche (quasi) tre secoli fa si raccontavano storie drammatiche ed emozionanti di giocatori che finivano arrostiti all’inferno e
non sempre riuscivano a tornarne. Tra i molti aspetti fascinosi e originali dello chemin de fer c’è anche la scelta delicata, invisibile per gli altri e tuttavia a mio parere determinante, che può cominciare alcune ore prima o un giorno, qualche volta alcuni giorni, prima della partita. E la scelta che riguarda l’assegnazione al tavolo, la prenotazione, a volte la conquista di un posto. Non tutti i giocatori la pensano a questo modo. Ed ecco, dunque, un a prima e drastica divisione, tra i giocatori di chemin de fer, in due scuole di pensiero: quelli che pensano che avere un certo posto al tavolo, anziché un altro, risulti determinante (sia per i banchieri, sia per chi gioca di punta); e quelli che pensano, invece, che sia il giocatore a «fare» il posto, e non viceversa. Per quel che mi riguarda, sono iscritto da sempre alla prima scuola di pensiero, per i motivi che esporrò. Prima di addentrarci in questa piacevole analisi, è opportuna una precisazione di natura linguistica. Si tratta di questo: la parola «tavolo» è entrata solo di recente nel linguaggio comune italiano, accettata con evidente schifiltosità dai dizionari. In italiano, infatti, si dice tavola, che proviene dal latino «tabula». Ma nessun giocatore di chemin direbbe mai che sta per sedersi alla «tavola» dello chemin: tutti si sganascerebbero per le risate, più o meno come quando Totò ci fa ridere, in un celebre sketch, dicendo «noio» anziché «noi». Fu un famoso giornalista e scrittore del Corriere della sera, Enrico Altavilla, ad avvertire per primo, puntigliosamente, il dovere di metter e in rilievo, molti anni fa, che «tavolo» era un a espressione gergale. Oggi lo Zingarelli accoglie «tavolo», intendendolo come tavola adibita a usi particolari: da gioco, da ping pong, di cucina, d’ufficio, operatorio, anatomico; e come luogo e occasione di confronto sindacale e politico. Per lo chemin de fer non c’è un riferimento specifico: è augurabile che presto ci sia, anche perché «tavolo», in gergo, è un a parola importante pe r lo sviluppo del gioco; può significare tra l’altro, come vedremo, in bocca al giocatore di punta, la volontà di puntare la metà della somma del banco. Il tavolo, appunto. Come h o detto tante volte, sono assolutamente convinto che un buon posto al tavolo sia determinante per l’esito della partita. Anzi, l’esito della partita comincia a determinarsi nel momento in cui ci viene assegnato un posto anziché un altro. È la nascita della partita. È il primo segno inviato dal destino. Un certo post o ci aspetta. Prima di metterlo alla prova, no n possiamo saper e se sarà un posto baciato dalla fortuna, o disgraziato, bollato dalla sfìga.