C’è un aspetto che da solo servirebbe quasi a compensare il crollo del Pil previsto per il 2020 per effetto della pandemia. Le stime degli istituti indicano una forbice compresa tra l’8 e il 14% di flessione. Per ridurre l’impatto quasi a zero basterebbe rendere digitalmente mature le piccole e medie imprese italiane. Portando l’indice di digitalizzazione delle nostre aziende al pari di quelle tedesche il Pil tricolore crescerebbe del 7%, rileva l’Osservatorio dedicato del Politecnico di Milano. Nei mesi di lockdown l’effetto distopico di piccole aziende lontane da una sufficiente sofisticazione digitale, cioè il 55% del totale (oltre 2 milioni), ha determinato una contrazione maggiore del dovuto di ordini, fatturato, consumi.
Il dato – registrato dall’osservatorio – fa impallidire e molto è da ascrivere alla carente connettività in varie aree del Paese dove diventa più stringente accelerare su una rete unica per spingere gli investimenti sull’ultimo miglio. Sull’ecommerce lo spartito è deludente: solo il 10% delle pmi ha un sito proprietario che permetta gli acquisti online. In Germania siamo al 17%, in Spagna al 18%, in Francia al 15%. Spiega Giorgia Sali, project manager del Politecnico, che «buona parte delle piccole aziende investono sul digitale solo se obbligate». Strette tra i vincoli normativi («come insegna il caso della fatturazione elettronica») e quelli competitivi «travolti dal modello di business delle piattaforme come Amazon ed eBay». Ma la cartina di tornasole del ritardo italiano è nella carenza di competenze informatiche sul mercato. Dice Sali che le università dovrebbero ripensare i programmi accademici e i numeri chiusi: «Sfornano pochi profili rispetto alla domanda».
Così «il nanismo delle piccole realtà finisce per essere penalizzato dal basso potere contrattuale che hanno rispetto alle grandi aziende».
Peccato potremmo dire. Perché nonostante la tara storica che ci portiamo dietro il tasso di resilienza delle nostre aziende – ora chiamate alla prova del nove dell’era Covid che riduce sensibilmente il retail fisico – sia ammirevole. Sforzandosi di tradurre i processi organizzativi in maniera digitale strutturando un rapporto più frequente con la pubblica amministrazione il valore aggiunto per addetto aumenterebbe del 15% e consentirebbe probabilmente di far ripartire i salari.
Spiega Cesare Avenia, presidente di Confindustria Digitale, che «l’emergenza sanitaria ha dimostrato che le imprese più resilienti sono state proprio quelle già organizzate per avvantaggiarsi subito delle potenzialità delle tecnologie digitali e adottare efficienti modalità di smart-working. Al governo chiediamo un intervento per sburocratizzare i rapporti tra università, scuola e imprese, la stabilizzazione degli incentivi alla trasformazione digitale oggi esistenti, voucher per innovazione, export ed e-commerce e l’adozione su larga scala del lavoro agile».
Un manifesto programmatico per attenuare il divario di digitalizzazione con i nostri concorrenti europei. Nel particolare indice ideato dal Politecnico di Milano il gap con la Germania è del 65%, con la Spagna del 40%, con la Francia del 20%. I numeri si traducono nella complessità nel rapporto con la clientela su cui Amazon rischia di spadroneggiare colmando i difetti congeniti delle piccole imprese. Dice Marco Gay, presidente di Anitec-Assinform, che «il lockdown ci ha plasticamente consegnato un Paese digitalmente in ritardo». Servono grossi investimenti sulle reti digitali. Se ne parla da anni, ma è in momenti di crisi che servono misure anti-convenzionali. Un piano keynesiano sulla banda larga, spingendo anche sulla tecnologia Fwa ad onde radio, potrebbe aiutare a ridurre lo spread. Al resto dovrebbe pensarci il ministero dell’Istruzione. Ma a parte poche illuminate università non si registrano tanti corsi sui Big Data. Eppure servirebbero gli analisti dei dati. Come la pandemia insegna.
Corriere Della Sera